Sintesi non rivista dall’autore.
A volte mi chiedono per quale motivo negli anni ‘70 sono nati gli anni di piombo, come mai sono nati gruppi come i nostri, che, come si diceva allora, volevano fare la rivoluzione, rovesciare il sistema di potere.
Partiamo da più indietro. Dalla metà del secolo XIX si sviluppa, in seguito all’industrializzazione, la classe operaia. La società si stava polarizzando tra grandi proprietari dei mezzi di produzione e i lavoratori sfruttati, in un rapporto di uno a mille. Di fronte a questi fenomeni sociali, una teoria si è fatta strada tra le tante, il marxismo. Marx ha creduto di trovare di quella situazione una spiegazione economica e una lettura storica. Di fronte a un dato obiettivo, la povertà di gran parte della popolazione e l’arricchimento di una piccola parte, l’idea che egli affermò è che questa situazione non sarebbe potuta durare, e che si sarebbe dovuti arrivare a un rovesciamento di potere. Nessuna teoria, credo, ha avuto tanti seguaci come il marxismo.
Nel 1917 uno dei più grandi paesi del mondo ha fatto la rivoluzione, la Russia. Nel 1948 la Cina, guidata da un partito che si ispirava al marxismo, ha fatto la rivoluzione. Quando i ragazzi della mia generazione si guardavano attorno sapevano che due grossi paesi avevano fatto la rivoluzione. Nella lotta antifascista c’erano tendenze diverse, ma una tendenza importante era quella che si richiamava al comunismo, che considerava il fascismo una parentesi nella storia dell’Italia, e che una volta liberato il campo dal fascismo, dopo la guerra e la Liberazione, si sarebbe proseguiti con la rivoluzione.
Un altro dato importante era che quelli come me e i miei compagni avevano una grande sensibilità per gli aspetti sociali, sarà che le nostre famiglie venivano dalla sofferenza della guerra e dalla miseria, sarà che nel mondo cattolico si stava facendo strada un’attenzione ai problemi sociali su scala mondiale, noi vedevamo nella nostra Italia delle ingiustizie diffuse. Consapevoli che la maggior parte dei lavoratori era sottoposta alla condizione di sfruttamento. Eravamo anche sensibili all’autoritarismo, per via del quale non c’era partecipazione. Stati Uniti e Unione Sovietica si erano divise l‘Europa in due parti, di qua o di là. E chi era di là rimaneva dov’era, senza poter cambiare la situazione. La linea di demarcazione attraversava la Germania. Le mie prime manifestazioni riguardavano Trieste, perché diventasse italiana. Il PCI si trovò questa situazione e bloccò le possibilità di prosecuzione della rivoluzione. Probabilmente c’era anche chi al suo interno riteneva che andare allo scontro sarebbe stata una catastrofe. Allora si elaborò la dottrina della via italiana al socialismo, attraverso il voto, il consenso. Un altro fattore importante è stata la guerra del Vietnam, combattuta fuori dal loro territorio e contrastata dagli studenti americani stessi. Noi vivevamo questo come la prova della profonda ingiustizia del sistema occidentale. Di fronte a questo giovani di area cattolica e no, Insoddisfatti della politica dei partiti parlamentari, dotati di sensibilità, si sono sentiti coinvolti, e a questi è capitato l’incontro con la filosofia marxista. Eravamo convinti che la rivoluzione fosse inevitabile e la maggioranza della popolazione ci avrebbe seguito. Riconosco che anche dall’altra parte, tra molti membri dei gruppi di estrema destra, c’erano idealisti quanto noi. Ingenuità e buona fede c’erano da entrambe le parti. Al di là delle idee sbagliate c’era in noi l’interesse per le sorti del mondo e la voglia di capirne sempre di più e di confrontarsi, questa sono cose che cerco di conservare.
Il passaggio successivo fu quello della formazione di gruppi extra parlamentari, p. es. Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta comunista. Erano gruppi la cui violenza all’inizio si limitava a degli scontri in piazza, tra gruppi opposti e tra gruppi e squadre di polizia.
Il passaggio successivo fu il passaggio da gruppi legali o semi legali a dei sottogruppi illegali, in cui si cominciò a imparare a sparare, usare esplosivi, rubare automobili. A Milano, che era il cuore della lotta di classe, si formarono i primi gruppi che si organizzano per colpire persone e cose e ottenere consensi. Il gruppo più grosso sono state le Brigate Rosse. In pochi anni la logica della Brigate Rosse ha portato all’uccisione di decine di persone.
Quello che mi chiedo ancora: come siamo arrivati a decidere che poteva essere sacrificata la vita nostra e soprattutto di altri in nome di un’idea che noi ponevamo come il nostro scopo e senso? Il vizio di fondo era non ritenere che l’altro può avere anche fatto tutto il male del mondo ma è una persona che porta la mia stessa dignità e la sua vita ha un valore che non dipende da un mio giudizio, c’è e basta. Il concetto di umanità disponibile significa considerare l’altro disponibile a ciò che io mi pongo come fine, non considerando la dignità e l’umanità di ogni altra persona. Questo può essere una definizione di ideologia. Il nostro vizio di origine è stato quello di non aver considerato attentamente la dignità della vita dell’altro. Da lì a cascata sono arrivati i gruppi che dicevano di poter ammazzare della gente per perseguire la loro causa. Mettere davanti a tutto il proprio obiettivo.
Nel giro di qualche anno, dalla metà alla fine degli anni 70, era quasi tutto finito. Durò pochi anni perché l’ipotesi di base è che noi saremmo andati avanti e la gente avrebbe riconosciuto che avevamo ragione. Viceversa, nessuno ci ha seguiti. Eravamo alcune migliaia di persone, un numero non significativo rapportato al numero di giovani che non sono stati coinvolti. Venivamo visti per di più come dei nemici pubblici, gente che stava facendo disastri.
Per difendersi da questo, lo Stato ha puntato all’annientamento di tutti noi, con sistemi carcerari oppressivi, e dal punto di vista giudiziario con condanne basate su prove esili. Era un sistema che ci riconosceva come nemici assoluti contro i quali l’unica azione era quella di schiacciarci. Il risultato era in noi una rabbia e un rancore, e una solidarietà verso quelli che erano in carcere, e un prolungamento della lotta armata di qualche anno. Dal 1978 ai primi anni ’80, infatti, gli attentati furono tutti non più per il potere ma contro il sistema carcerario e giudiziario, a favore dei compagni nostri tenuti in quelle condizioni.
Successivamente si è aperto un secondo periodo, quello della dissociazione e della ricerca di un senso diverso della vita. Però anche da parte di altri, di quelli che consideravamo nemici, anche una fornitura di strumenti culturali in carcere. Inoltre, rappresentanze della società civile, intellettuali, parlamentari, si dimostrarono interessati alle nostre vicende. La nostra cantonata è stata anche un’esperienza da cui provare a ricavare qualcosa di buono e non solo un senso di desolazione e di sbaglio irrecuperabile. Gli esempi sarebbero tantissimi. Ne accenno uno. Un terreno di ricerca sono state le sacre Scritture. Capivo che i nostri problemi non erano così nuovi ma i problemi di sempre della storia. C’era stato l’attentato contro Giovanni Paolo II, commesso da Alì Agca, che si ritrovò in carcere a Rebibbia, dove mi trovavo anch’io. Il papa visitò Rebibbia e annunciò il suo perdono per Alì Agca. Malgrado quello che aveva fatto, non aveva nessun rancore contro di lui. Poi il papa rivolse un indirizzo di saluto a tutti noi, ed era il periodo in cui il sistema negava la nostra umanità. Il papa si rivolgeva a noi e anche agli altri detenuti manifestando come prima cosa la stima per la nostra persona e la nostra dignità. I giudici ci dicono che dobbiamo essere schiacciati per sempre in una cella e il papa ci dice che ha stima della nostra dignità. E poi la fiducia nella realtà che ogni persona, proprio perché è persona, ha dentro di sé soffocata o non soffocata una coscienza che le può indicare cosa può fare o no. Io l’ho considerata come la lezione più importante della mia vita, guardare in chiunque altro non il suo passato, e meno che meno giudicarlo per quello, ma dire che cosa può diventare. Portare il perdono vuol dire chiedersi come posso aiutarti a diventare altro dal male che hai fatto, come posso aiutarti ad adoperare le tue risorse e la tua esperienza per costruire qualcosa di buono. Quando mi sono occupato successivamente di tossicodipendenza e poi professionalmente di persone con vicende penali, me la sono tenuta come la lezione più cara. Cosa ogni persona potrebbe diventare, e cosa dipende da me, dal tipo di relazione che stabilisco con lui. E mi fa piacere che altri compagni di un tempo abbiano fatto la stessa mia strada. Vuol dire che da queste esperienze si può anche ricavare qualcosa di buono.
Alessandro Cortese