“E Lei.. di che si occupa nella vita?” mi chiede titubante la vicina di ombrellone, tra una richiesta di informazioni meteo e uno scambio di consigli sulla crema solare.

“Io insegno.”, rispondo sorridente

“Che bello! E’ così bello lavorare con i bambini!”, esclama con voce entusiasta.

“A dire il vero insegno in una scuola media..Lettere”, puntualizzo.

“Aaah…– geme inorridita – Che coraggio! Io non resisterei un attimo con quelli di quell’età…e poi al giorno d’oggi…noi non eravamo così. Sfacciati, maleducati…e come vanno a scuola vestiti…e poi …neanche un po’ di rispetto…e le famiglie che danno sempre ragione ai figli…una volta invece…”

“Già…”, sospiro piano.

Sospiro perché non ho la forza di aggiungere altro: non saprei come raccontare a quella signora che si dilunga infuocata nella solita retorica sociologica del “non come una volta” il viaggio che ogni anno mi accingo a intraprendere: ogni settembre mi imbarco su una nave e salpo senza conoscere il porto che mi attende, sempre un po’ restia e sospettosa, carica dei miei bagagli, dei miei programmi e delle mie aspettative, e mi ritrovo a viaggiare per mari e terre sconosciute, sicura solo che quando il viaggio sarà terminato, io sarò diversa e un po’ cresciuta.
Non ho la confidenza per spiegarle che sì, ci vuole coraggio a insegnare, ma non perché i ragazzi non sono più come quelli di una volta, ma perché saremo noi, dopo aver intrapreso questo viaggio, a non essere più quelli di una volta: non saremo più gli insegnanti dell’anno scorso, gli insegnanti del mese scorso… forse non saremo più le persone del tempo appeno trascorso.

Anche il prof. Mazard, nel film “Quasi nemici”, non è più lo stesso uomo dopo il percorso che è stato costretto a intraprendete con la studentessa Neilah, non è più lo stesso figlio (va a ritrovare la vecchia madre che da tanto tempo non vedeva), e solo in ultima battuta non è più lo stesso insegnante.

A dire il vero, vi confesserò, ogni volta che il viaggio di un nuovo anno scolastico ha inizio mi sento colpevolmente simile a questo saccente professore parigino: con una certa sicumera squadro i miei alunni, noti o sconosciuti che siano, con occhio critico, disapprovando dentro di me l’abbigliamento dell’uno, l’atteggiamento dell’altro, il linguaggio dei più… qualcuno mette pericolosamente alla prova la mia pazienza, qualcun altro riesce proprio a irritarmi.

Cos’è allora che cambia le carte in tavola? Cosa rovescia la situazione? Cosa spinge il prof. Mazard a piegarsi a un grazie per Neilah? Cosa spinge me a ostinarmi, ogni anno, a ricominciare il viaggio?
So di dire qualcosa che per voi è lapalissiano, scontato, quasi imbarazzante da ripetere, ma io ho bisogno di ricordarmelo ogni giorno e di scriverlo perfino qui, per rendermelo ancora più chiaro.
Ciò che fa cambiare rotta alla nave, che salva i miei alunni dal rischio che li faccia gettare in mare e salva me dall’ammutinamento, ciò che rende entusiasmante il mio e il loro viaggio e ci impedisce di naufragare, è senza ombra di dubbio la relazione.

La relazione dà senso a quello che faccio, la relazione è il tasto SAVE del mio lavoro, il tasto SAVE dell’esperienza scolastica, per me e per i miei alunni; nella relazione insegno tutto, nella relazione imparo tutto, nella relazione mi dimentico ogni nozione per impararla in modo nuovo, nella relazione si sgretolano i miei schemi mentali per ridisegnare la mappa del mio viaggio personale -e solo in secondo luogo professionale. Nella relazione divento capace di dire grazie ad ogni mio singolo alunno, di preoccuparmi per lui, di desiderare il meglio per e da lui.

Capiamoci: quando parlo di entrare in relazione non sono così ingenua da credere che dobbiamo indossare i panni strappati e cortissimi dei nostri alunni, dimenticarci i congiuntivi, sfidarci a Fortnite, ascoltare i loro idoli musicali e frequentare i loro locali per conquistare la loro simpatia e indurli ad ascoltarci.
Quando parlo di relazione intendo dire che l’insegnante riesce a salvarsi dal senso di frustrazione e fallimento e riesce a in-segnare ai suoi alunni un orizzonte di Senso, solo se si rende disponibile a scoprire e ad accogliere la persona che gli si pone davanti in tutta la sua interezza. Possono senza dubbio manifestarsi tra alunni e insegnante una antipatia o simpatia iniziale, una fiducia o sfiducia anche reciproca, diffidenza, insofferenza…ma l’insegnante che non vuole naufragare insieme a tutta la sua classe deve avere l’apertura e la disponibilità a mettersi in ascolto dell’altro, a lasciarsi interpellare dalla persona con cui ha a che fare e soprattutto concedersi e concedere all’altro il tempo.

Tempo per scoprirsi, per conoscersi, per farsi conoscere.
E’ il tempo di un anno scolastico che Pierre Mazard e Neilah sono costretti a condividere che li porta a conoscersi, a veder sgretolare le proprie solide convinzioni e ad avvicinarsi l’uno al mondo dell’altra. E’ il tempo lungo di un mese senza social, che permette a Veronica, la protagonista del libro di Fernando Muraca, di cambiare i nomignoli di amici, presunti tali e professori.
Ed è solo col tempo necessario a costruire la relazione che l’insegnante si trasforma in un educatore: colui che è capace di intravedere la bellezza e le potenzialità delle persone che gli sono affidate e non può permettere che queste rimangano sepolte, perché nella relazione si scopre a voler loro bene, a volere il loro bene.

Come emerge chiaramente dalla figura del prof. Mazard in “Quasi nemici” e da quella della prof.ssa La Balena Bianca, nel libro “Liberamente Veronica”, l’educatore non si accontenta di far lezione, di trasmettere quello che sa, ma si fa esigente, è sfidante, è provocatorio, tanto da risultare antipatico e non essere compreso nelle sue assurde intenzioni (“ti sfido a non usare i social per trenta giorni”, “ti sfido a recitare sulla metro attirando l’attenzione di tutti”…). L’insegnante che si fa educatore non molla: sa che nel gioco al rialzo che propone c’è l’ambizione di far emergere la dignità di quella persona, di allenare la sua volontà a raggiungere le mete sognate, di far crescere la sua autostima.

L’esperienza di questi due anni di vita del Centro Studi per l’Educazione racconta però come sia urgente e vitale per gli insegnanti affrontare questo viaggio insieme, trovando uno spazio in cui riflettere, nel senso proprio del termine di fare da specchio gli uni agli altri. Uno spazio in cui aiutarsi, imparare reciprocamente, riconoscere come la propria professionalità sia costantemente in crescita e sia inevitabilmente senza regole, perché le regole del gioco si inventano ogni giorno nella relazione con l’altro, che è sempre diverso, come diversi sono gli alunni, come diverso è lo stesso alunno, ogni giorno che passa, come diversi siamo noi, resi di giorno in giorno più umani dai nostri ragazzi.


Insomma, cara signora sotto l’ombrellone, cosa vuole che le dica? Ha proprio ragione lei: l’insegnamento è un mestiere per gente coraggiosa!

Silvia Spillari