Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste sono le domande alle quali l’autrice, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, cerca di rispondere, tenuto conto del contesto venutosi a creare negli ultimi tempi a causa della pandemia, che ha reso il ricorso alle nuove tecnologie nel campo dell’insegnamento particolarmente pervasivo.
Domande guida
Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste domande definiscono la cornice delle riflessioni che seguono, su cui il momento attuale induce a interrogarsi con un’urgenza forse impensabile fino a un paio d’anni fa. Le misure poste in atto a seguito dell’emergenza pandemica sembrerebbero aver dimostrato che i dispositivi digitali sono alternative accettabili alla comunicazione didattica che si svolge con la presenza contemporanea di docenti e studenti nello stesso luogo fisico.
Ma è davvero così? Nei mesi in cui siamo stati costretti a mantenere attiva la scuola e l’università attraverso la cosiddetta DAD (didattica a distanza) le voci polemiche di psicologi e pedagogisti che segnalavano i gravi rischi per la formazione di bambini, adolescenti e giovani presenti nell’utilizzo intensivo dei dispositivi digitali si sono alternate a quelle dei promotori di una sorta di nuovo paradigma comunicativo, in cui il digitale garantisce più funzionalità ed economia di tempo e risorse. Quali sono i criteri con cui leggere il momento presente e guardare al futuro che si prefigura non solo possibile ma probabile, per i contesti professionali in generale e in particolare per quello dell’educazione e della formazione? Se è evidente che molte sono le questioni in gioco e che non sarà possibile ripristinare la situazione pre-pandemia ma solo decidere sensatamente come vivere nelle nuove condizioni createsi e quale orientamento dare alle scelte nei vari ambiti della vita professionale e relazionale in genere, nelle righe che seguono propongo alcuni spunti di riflessione sul lavoro educativo, in particolare quello che si svolge a scuola o per quanto mi riguarda in università, vivaio degli adulti di domani.
La prospettiva antropologica
L’educazione che si realizza nelle istituzioni scolastiche e universitarie ha come focus principale i processi di apprendimento-insegnamento e saperi di diverso genere, cioè un patrimonio culturale. Sembra scontato affermare tutto ciò, ma ritengo valga la pena precisarlo, perché ci richiama al fatto che parlarne richiede di assumere più o meno consapevolmente una certa visione dell’essere umano, visto che – come peraltro la quasi totalità delle attività in cui le persone sono a vario titolo impegnate – si tratta di processi e temi che coinvolgono esseri umani in relazione con altri esseri umani, a loro affidati. D’altra parte, in gioco c’è anche una certa idea di che cosa significhi apprendere e insegnare. In questa sede non è possibile esplorare esaustivamente né l’una né l’altra di queste due premesse e neppure argomentare le soluzioni che propongo per entrambe. Forse ci saranno ulteriori occasioni per soffermarsi più ampiamente su queste. Qui basti dire che dal modo in cui concepiamo l’essere umano dipende il modo in cui intendiamo l’apprendimento e l’insegnamento. E ancora, proprio l’essere umano, o meglio la visione che ne abbiamo, ci consente di fornire qualche itinerario di risposta alle domande iniziali.
La cultura occidentale ha elaborato negli ultimi secoli letture riduttive o riduzioniste dell’essere umano, cioè ne ha alternativamente esaltato l’una o l’altra delle sue dimensioni a discapito delle restanti, offuscate, svalorizzate o deprivate. La filosofia moderna ha identificato l’essere umano con la sua ragione, la sua capacità produttiva, la sua libertà di scelta, le sue pulsioni. Il pensiero postmoderno ha messo in discussione queste concezioni, ma non ne ha rimosso l’errore di fondo, ossia appunto la semplificazione della struttura complessa e pluridimensionale della persona umana. Soprattutto ha estremizzato la tendenza – già presente dall’Illuminismo in poi – a subordinare la realtà, potremmo dire “le cose come sono”, al pensiero, ossia “le cose come le vedo io”, o alle possibilità operative di cui si dispone su di essa, cioè “quello che sono in grado di fare”. Per questo, ultimamente sempre con maggior insistenza – e direi violenza – non si parla né si ritiene possibile parlare di “natura umana” e non si commisura ciò che si può tecnicamente fare “con le persone” alla “verità della persona”, perché non ci si domanda più “chi sia una persona”, che cosa connoti un essere umano e quindi quali caratteristiche debbano avere le azioni che lo riguardano. Parafrasando Dostoevskij, si potrebbe dire che “se la natura umana non esiste più, qualsiasi azione verso l’uomo è ammissibile e adeguata”.
Le persona che apprende, la persona che insegna
Che cosa c’entra tutto ciò con l’apprendimento e l’insegnamento? Come accennato sopra, dalla concezione dell’essere umano che assumiamo dipende il modo di intendere i processi educativi e formativi. Se la persona è una totalità complessa, in cui la dimensione fisica, psico-affettiva e spirituale sono inseparabilmente costitutive della sua identità, tutte e ciascuna di queste dimensioni sono in gioco nelle azioni umane, compreso appendere e insegnare. E d’altra parte, la persona è un essere strutturalmente relazionale, ossia proviene da relazioni, genera relazioni ed esige relazioni. Non solo: nelle relazioni che attiva investe, o meglio per star bene “ha bisogno” di investire, tutte le dimensioni del suo essere. Apprendere e insegnare, allora, sono atti relazionali che coinvolgono non solo la dimensione cognitiva, ma anche quella fisica e psico-affettiva.
Propongo qualche esempio, sia dalla prospettiva del docente, sia da quella dello studente. Per insegnare è sicuramente necessario possedere un sapere e conoscere tecniche e strumenti adeguati a veicolarlo efficacemente; è innegabile che la tecnologia può offrire opportunità interessanti, per visualizzare contenuti, per coinvolgere in modo interattivo gli studenti, per rendere fruibili attività ed esercizi che promuovano autonomia, autoregolazione, autocorrezione degli errori, potenziamento strategico, etc. Tuttavia da sempre – e tantopiù nel momento attuale – le modalità comunicative, ossia i metamessaggi veicolati con la prossemica, le inflessioni della voce, lo sguardo, la gestualità non solo contribuiscono, ma spesso determinano l’efficacia del messaggio. Ancora: l’interesse, la passione, il coinvolgimento che un docente trasmette per ciò che sta insegnando e in generale per il suo lavoro costituiscono un driver motivazionale ineguagliabile per i suoi studenti. Spesso mi capita di cogliere in adolescenti e giovani una correlazione molto stretta tra l’atteggiamento di un certo docente nei confronti del lavoro e degli studenti e la loro disponibilità a impegnarsi nello studio della disciplina che egli insegna. Al contrario, l’assenza di motivazione negli studenti spesso origina dalla percezione dell’assenza di “intelligenza emotiva” o “competenza empatica” negli insegnanti.
La stessa implicanza multicomponenziale è presente nei processi di apprendimento che – come segnalano da tempo Cornoldi, De Beni e colleghi – vedono l’intersecarsi di fattori cognitivi, ossia “freddi” ed emotivi e affettivi, cioè “caldi”. Può essere utile richiamare le varie dimensioni dell’intelligenza individuate da Gardner, tra cui sono presenti oltre a quelle più facilmente e intuitivamente riconoscibili come la logico-matematica e la linguistica, anche la musicale, la spaziale, la cinestetica, la interpersonale e la intrapersonale. Benché alcuni ritengano in parte superata la teoria di Gardner, mi sembra interessante e sempre valida la consapevolezza a cui incoraggia, ossia che l’essere umano entra in rapporto con la realtà non solo mediante l’intelligenza, ma anche tramite la fisicità e la sensibilità emotiva e affettiva. Gli studi sul valore della psicomotricità per l’apprendimento nei primi anni di vita, nonché l’esperienza almeno decennale in questo senso ne sono una testimonianza. Altrettanto si dica per tutte le metodologie di “didattica attiva”, in cui gli studenti sperimentano come veicolo di apprendimento efficace modalità più dinamiche di vivere gli ambienti (l’aula o altri spazi interni o esterni alla scuola) o il confronto in piccoli gruppi di lavoro, che movimentano le relazioni e le emozioni a esse connesse, sia positive sia negative. Molto altro si potrebbe considerare, soprattutto rispetto agli adolescenti e ai giovani universitari, riguardo alla connessione tra affettività e apprendimento, a quanto quella può promuovere o inibire questo: sempre più spesso lo stare bene o male a scuola dipende dal vissuto emotivo profondo dei giovani e questo è manifestazione della qualità delle loro relazioni, del fatto che ci siano o meno relazioni significative nella loro vita.
Un nuovo paradigma formativo?
Che cosa ha modificato il nuovo assetto relazionale e comunicativo determinato dalla reazione alla pandemia? Sicuramente l’aspetto più evidente è una sorta di virtualizzazione dell’esperienza in generale, il che sembra aver ridefinito le modalità di relazionarci – da febbraio 2020 le relazioni sono diventate insieme un pericolo e un’esigenza intensa, potentissima – e aver drasticamente ridotto le possibilità espressive della componente fisica delle persone, ossia del corpo e delle emozioni che la gestualità e la mimica veicolano. Ciò ha segnato tutti, anziani, adulti, giovani e bambini; certamente la sofferenza fisica ed emotiva è stata più acuta nelle persone che stanno vivendo fasi più delicate della vita o le cui condizioni rendono più delicato vivere. Tra le figure professionali, quella dei docenti è stata particolarmente provata dalle conseguenze della pandemia, anche perché ha fatto i conti non solo con la propria fatica e sofferenza ma anche con quella degli studenti. Per quanto non si possa dire che questa fase storica sia conclusa, certamente, rispetto a un anno e mezzo fa, oggi si guarda con maggiore distanziamento e consapevolezza a quanto accaduto nei mesi scorsi e ancora in corso. Molti sostengono che la digitalizzazione o virtualizzazione del lavoro e delle attività umane in generale, tra queste anche la formazione scolastica e universitaria, siano il futuro, che vadano cavalcate le opportunità dei dispositivi tecnologici e che si sia entrati in un nuovo paradigma in cui i modelli e metodi di apprendimento-insegnamento precedenti risultano ormai superati o da superarsi a breve.
Non credo che la strada del ripristino della situazione precedente sia percorribile; penso piuttosto che vada esplorato, sia nella ricerca accademica sia nell’esperienza diretta di chi insegna in tutti i livelli di studio, che cosa può significare l’esigenza di un nuovo paradigma formativo. Proprio l’esperienza della didattica digitale o integrata – cioè in cui parte degli studenti sono nello stesso luogo fisico, magari con il docente, e parte sono collegati su una piattaforma online – ha posto in luce con forza la mancanza di relazione e di vicinanza fisica, una comunicazione di qualità inferiore in cui non era possibile incrociare gli sguardi e percepire il clima emotivo instaurato dal rapporto tra docente e studenti e dagli studenti tra loro. E tale mancanza e i tentativi di colmarla hanno denunciato che è falsa la concezione dell’apprendimento-insegnamento come dispositivo funzionale.
Pertanto, o le istituzioni educative tornano a essere luoghi di comunicazione profonda, di scambio relazionale e di cura o non avranno più futuro: infatti, se il compito della scuola è solo trasmettere informazioni, in effetti la soluzione digitale è più funzionale ed economica. Ma se desideriamo che la scuola e l’università restino luoghi in cui si edifica l’essere di tutti coloro che ne sono protagonisti, studenti e docenti, in un reciproco scambio di beni relazionali, allora i dispositivi digitali non potranno essere “la” risposta al bisogno di nutrimento di tutte le dimensioni costitutive della persona – corpo, cuore, mente – ma dovranno avere collocazione e utilizzo tali da consentire prima di tutto e sopra tutto il contatto diretto e autentico con la realtà vera e le persone concrete.
Alessandra Modugno
*Alessandra Modugno è ricercatrice di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova ed è studiosa del pensiero di Michele Federico Sciacca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensare criticamente. Verità e competenze argomentative, Carocci editore, 2018