Parlare di arrampicata in un’associazione che si occupa di educazione, può creare perplessità.
L’arrampicata è un’arte? In che senso? Cosa c’entra l’arrampicata con l’educazione?
Senza togliere nulla alla sua necessaria professionalità, l’educatore deve avere anche delle doti “artistiche”. Mi riferisco, per esempio, alla capacità di relazione che l’insegnante deve sviluppare con ogni studente, necessaria perché i ragazzi siano aperti a ciò che noi insegniamo. È importante anche la capacità di passare all’educato ciò che non è previsto dal programma, ma che è necessario, perché riguarda la sua vita; si pensi al rispetto per le persone e le cose, che sta alla base di qualsiasi tipo di relazione e apprendimento. È un’arte anche la capacità d’insegnare a “sognare cose belle e grandi”. Una volta ho accompagnato in gita degli alunni di IV Primaria, che, arrivati in piazza Dante a Verona, autonomamente, senza che l’insegnante dicesse qualcosa, si sono messi ai piedi della statua del poeta a recitate a memoria il XXXIII canto dell’Inferno, quello del Conte Ugolino, che avevano studiato a scuola. Si correggevano tra loro quando sbagliavano, ma con un entusiasmo incredibile, tanto che erano additati e applauditi dai ragazzi delle scuole superiori lì presenti. Dante li aveva conquistati.
Cos’è, dunque, che fa di qualsiasi attività un’arte? Credo sia il fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di bello e grande, più grande delle nostre immediate possibilità forse, ma che fomenta la sua contemplazione e il suo servizio, anche se non ci sentiamo del tutto adeguati. In fondo è quello che succede a chi s’innamora e che vede nell’amato/a qualcosa di più grande di lui/lei, ma che lo spinge alla sua contemplazione e al suo servizio… per amore.
L’arte non si possiede solo in modo innato, nel senso che c’è chi l’ha e chi non l’ha. È il sogno che forma l’artista, come succede a chi impara a costruire una nave perché vuole vedere il mare infinito. L’artista è un artigiano che sogna con il suo lavoro.
Ecco cosa vedo in comune tra l’insegnamento e l’arrampicata, senza per questo negare legami tra l’insegnamento e tante altre discipline: l’unità tra sogno e tecnica.
A me piace arrampicare e vedo molti che si appassionano e imparano.
Scuola e arrampicata hanno bisogno di un approccio laboratoriale, cioè non solo teorico (“Io ti spiego e poi tu esegui”), ma anche pratico: ti faccio vedere come si fa a “scrivere” e attraverso vari passaggi (a volte anche insegnando fisicamente a impugnare la matita) ti aiuto a raggiungere l’obiettivo…
Se io “amo ciò che ti voglio insegnare”, posso aprirti orizzonti d’apprendimento molto belli.
Molti bambini diventano “tifosi” della squadra che “tifa” papà! E rimangono fans della stessa squadra anche nel periodo adolescenziale, quando spesso entrano in contrasto con i genitori e rifiutano molte delle cose che propongono. Il tifo non è arte, ma ci dice che è condividendo ciò che si ama che si trasmette appieno.
Quali sono i legami tra scuola e arrampicata?
Una volta un amico mi chiese: “ Che provi quando “chiudi una via” e raggiungi l’obiettivo?”. Non so perché gli ho risposto: “E cosa prova un ballerino, quando finisce di danzare?” Certo, c’è la soddisfazione per aver danzato bene e il sentire un pubblico che l’applaude, ma prova molto di più nella danza stessa: mentre l’esegue, ne percepisce, nel fisico e nella mente, l’armonia e bellezza.
Qualche esegeta interpreta il rapporto con Dio come una danza, dove a ballare sei tu con Lui…
Io credo che ci sia una “musica” anche nell’arrampicata.
In una salita provo piacere anche durante il suo sviluppo, sebbene ansimi; il mio fisico e la mia mente apprezzano il movimento ben fatto, l’armonia dei passaggi e la loro fluidità. E poi c’è salita e salita: alcune sono più belle di altre proprio per l’eleganza con cui possono essere interpretate. Arrampicare è come risolvere un’equazione col corpo.
In un articolo, in cui s’intervistava una forte scalatrice che aveva ottenuto una grande performance, alla domanda “Come hai fatto a prepararti per “aprire” quella via?” essa, prima di parlare di allenamento e studio del precorso, ha risposto “Sapendo che potevo fallire”. Per me è stata un’illuminazione. L’arrampicata è come la vita: è costituita anche da fallimenti, ma spesso è attraverso di essi che cresciamo. Dapprima perché diveniamo realisti, impariamo a conoscerci, e poi perché le cadute possono divenire una rampa di lancio per decollare: è anche attraverso i fallimenti che s’impara. In arrampicata chi vuole “aprire una via” difficile lo fa, oltre che con un allenamento specifico, tentandola decine e decine di volte, e ogni volta “volando”, cioè cadendo (con la corda ovviamente), finché non riesce a “liberarla”, cioè la conclude.
Anche a scuola l’importante non è mettersi a confronto con gli altri, ma ragionare sui margini di miglioramento personali.
“Difficile” spesso vuol dire “superiore al mio livello”. Questa è una condizione normale per chi arrampica cercando di superare il proprio livello, ma lo è anche per chi studia.
Possiamo convincere i nostri ragazzi che una cosa può essere difficile, ma non impossibile, predisponendo un valido piano inclinato che permetta loro di raggiungere l’obiettivo con gradualità, ma anche facendoli “innamorare” della cosa che devono imparare, e insegnando loro a vedere i fallimenti come un mezzo per crescere.
Un istruttore, che t’insegna ad arrampicare, deve, prima di tutto, saper scalare. Non solo, ma deve aver provato anche lui la fatica e i fallimenti che si provano esercitando quest’arte. Anche lui deve aver avuto le braccia “ghisate”, cioè dure e pesanti come la ghisa, inefficaci perché piene di acido lattico. Così può mettersi nei panni del suo allievo, capire le difficoltà che sta provando, di volta in volta, e dargli dei validi suggerimenti per superarle. Pure nell’insegnamento non basta conoscere la materia e le tecniche per insegnarla, occorre anche saper percepire le difficoltà che provano gli alunni in ogni momento dell’apprendimento, perché le abbiamo provate anche noi.
Di solito si arrampica in coppia: c’è chi sale per primo e chi lo “assicura” tenendo la corda, rimanendo in basso. Ovviamente il “primo” ogni tanto “infila” la corda nei chiodi allineati lungo la parete, per evitare di cadere fino in fondo. Il primo è chi rischia di più, e si deve fidare di chi lo assicura, che a sua volta deve stare molto attento per frenare l’eventuale caduta.
Ho visto ragazzini, pur sotto l’occhio attento degli istruttori, arrampicare e assicurare in questo modo. È una grande scuola di responsabilità: la tua vita sta nelle mie mani.
Ultimamente rimango stupito nel vedere i ragazzini della squadra sportiva, di dodici anni, fare delle salite che io mi sogno: è incredibile vedere la dinamicità dei loro gesti e le difficoltà che, con apparente naturalezza, superano. Certo non si può chiedere a un ultracinquantenne di correre i 100 m alle Olimpiadi, e così bisogna ragionare anche nell’arrampicata, ma si può capire che l’obiettivo principale per un bravo insegnante è rendere i suoi alunni migliori di lui.
Ho visto un padre e un giovane figlio che arrampicavano. A salire da “primo” era il figlio, mentre il padre, pur essendo un bravo scalatore, lo “assicurava” da sotto, tenendo la corda. Questo, secondo me, può essere il paradigma dell’educazione. Se un padre vuole educare in profondità, non risolve solo le questioni al figlio, ma, oltre ad insegnargli come si fa, lo spinge ad affrontare le difficoltà “da primo”, pur proteggendolo con l’equivalente di una corda. Credo che anche noi insegnanti possiamo agire così.
Michael Dall’Agnello