Prendo spunto dal bellissimo editoriale di Andrea Monda apparso sull’Osservatore Romano del 29 dicembre con il titolo “Il coraggio di amare” per allargare la riflessione in atto nel nostro Paese sull’urgente tema della denatalità.
Quello della denatalità è in effetti il fascicolo più importante sul tavolo del Presidente del Consiglio, perché i figli sono il primo indice di felicità di una popolazione, ma soprattutto perché sono il primo investimento di uno Stato, se vuole garantirsi il presente e il futuro, dal momento che non c’è nulla come un esercito di bambini che fa girare l’economia, dagli Ospedali ai prodotti per l’infanzia, dalle Scuole ai giocattoli, dal turismo, all’abbigliamento, dalle auto alle pensioni degli anziani. Insomma, per dirla con uno slogan familiare: “No bambini, no Stato”.
Purtroppo oggi nel nostro Paese la forbice tra i decessi e le nascite si allarga di anno in anno e, come ricorda lucidamente la sociologa torinese Chiara Saraceno, “la bassa e ancora declinante natalità è innanzitutto la conseguenza del forte assottigliamento delle coorti in età potenzialmente fertile, contro un innalzamento delle speranze di vita che ingrossa le file delle coorti più vecchie. A questo vincolo puramente demografico si deve aggiungere, tuttavia, il perdurare di un tasso di fecondità che, con 1, 26 figli per donna, si avvicina al livello finora più basso, toccato nel 1995.”
“Ci vuole coraggio per amare” ha ricordato Papa Francesco nel discorso di fine anno alla Curia romana ed è proprio la latitanza di questo coraggio che ritengo oggi la causa principale del fatto che i giovani non si sposano (al massimo convivono saltuariamente) e non fanno figli (ma adottano cani dal canile).
A ogni ora il radiogiornale ci ricorda l’andamento del listino della Borsa, come fosse la notizia più importante, seguita subito dopo da qualche drammatico episodio di cronaca nera. Le belle notizie, gli alberi che crescono nel silenzio in ogni bosco, i semi sotterrati che germogliano senza far rumore, non trovano spazio nei pc delle nostre redazioni e così finisce che ci convinciamo tutti insieme che quello che conta è solo il PIL. Ma, come ha ricordato Robert Kennedy nel famoso discorso all’università del Kansas, citato da Andrea Monda, il PIL di un Paese «non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti […] né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
Certamente assegni familiari più generosi degli attuali dovrebbero coprire quella che secondo l’Osservatorio di Federconsumatori è il costo annuo di un figlio (oltre 7.000 euro l’anno; attualmente arriviamo a coprire meno di un terzo); certamente gli sgravi fiscali concessi all’Azienda durante il congedo per maternità della dipendente dovrebbero premiare l’imprenditore; certamente i servizi per la prima infanzia sia in termini di prodotti che in termini di scuole, dovrebbero agevolare la vita lavorativa della mamma, tuttavia il vero stimolo a fare figli è sicuramente un altro. E’ un desiderio. Vitale. Istintivo. Originario. Bellissimo.
La fertilità umana, ovvero la capacità generativa, è un gioioso e gratuito effetto sovrabbondante e per così dire collaterale di un desiderio istintivo, per dirla nel gergo biologico, che è certamente rude, ma è anche molto realistico e carico di simboli.
Il figlio non è quindi il prodotto immediato di un’attività o di un gesto della coppia. E’ piuttosto il frutto, ricercato e sperato, ma mai garantito, della volontà unitiva tra un uomo e una donna. La fecondità è il dono gratuito ed eccedente di un gesto di intimità che appartiene alla sfera affettiva, emotiva ed esistenziale delle due persone di sesso diverso che si sentono attirate a diventare una carne sola, come se questo fosse l’unico vero sogno da realizzare, pena la reciproca infelicità.
La ricerca della comunione totale e indissolubile del corpo e dello spirito è lo spazio che l’uomo e la donna dovrebbero desiderare ogni giorno per diventare quella vocazione che il Creatore ha scritto dentro la prima coppia plasmata con le Sue mani: “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18).
Gesù conferma questa vocazione con queste parole: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie” (Mt 19,5). San Giovanni Paolo II ha individuato nell’essere maschile e femminile il significato “sponsale” del corpo, ovvero la nostra condizione esistenziale per cui non possiamo che vivere se non orientati di continuo alla comunione con un’altra persona con cui possiamo addirittura, nell’intimità, generare una nuova vita. “Siamo fatti per amare”, canta anche Nek e non si sbaglia affatto.
La depressione così diffusa nella nostra società occidentale ha le sue radici in questa mancanza di amore donato e di amore ricevuto. Per mille motivi.
“La più grande trasgressione di oggi è mettere su famiglia” rispondeva Vasco Rossi al giornalista qualche anno fa, indicando così che “la vita spericolata” è solo quella capace di condividere, che è l’unica modalità per generare futuro.
Il desiderio profondo di condividere la vita con l’innamorata fino ad arrivare a fondere il proprio corpo con il suo, all’apice dell’attrazione, è la chiave dell’esperienza umana ed è presente e vivo anche nelle giovani generazioni, perché è innato, tuttavia è coperto dalle ceneri pesanti e scure che si depositano sui nostri vestiti ogni volta che usciamo di casa e sentiamo i messaggi della cultura dominante, che ci martella con l’idea dell’indice MIBtel che non deve mai scendere e con la rivendicazione ad oltranza dei diritti individuali e di un’autorealizzazione che non passa mai attraverso il dono di sé. Anche l’omogenizzazione dei generi maschile e femminile e la loro pretesa liquidità non fanno che spegnere il desiderio che esplode solo se innescato dalla bellezza e dalla ricchezza della differenza. La rivendicata e sbandierata fluidità di genere nei film e nei messaggi che arrivano ai nostri giovani è il frutto della ricerca diabolica dell’uomo “indifferenziato”, che è neutro, sterile ed infelice.
Il nostro compito di adulti è quello di rimuovere le braci perché nei giovani si possa riaccendere la fiammella sepolta dalla cultura individualista, scartante e performante, quella che ci sporca ogni giorno con le sue fake news sulla natura umana. Noi genitori in particolare dobbiamo riappropriarci della nostra missione nativa che è quella di educare i figli che Dio ci ha donato. Non basta metterli al mondo, bisogna anche attrezzarli per la vita autonoma e come lo facciamo spontaneamente per i vestiti, l’alimentazione, lo sport, la scuola, le feste di compleanno… così dovremmo farlo per la loro vita interiore, per assecondare un rapporto sincero con se stessi, con l’altro e con Dio. Siamo storditi dal ritmo frenetico della vita moderna e quindi bisogna avere coraggio per fermarsi, sostare, perdere tempo… e dialogare con i nostri figli, su ogni cosa che ci riguarda. Perché la vita è bella? Forse anche perché possiamo perdere tempo e in questo distacco dalle urgenze troviamo la leggerezza e il fascino della nostra relazione familiare, quel sentirsi “papà” e “mamma” che ci annoda ai figli in modo fedele e indissolubile per tutta la vita. L’esperienza che facciamo di vita piena (e rilassata) ci farà trovare le parole e i gesti per insegnare ai nostri figli come si ama, senza delegare le cose belle della vita né agli insegnanti di scuola, né agli “esperti” (ma quanti ce ne sono oggi? E, fateci caso, quasi sempre senza figli).
“L’uomo – diceva il grande poeta romantico tedesco Rainer Maria Rilke – quando ragiona è un mendicante, ma quando sogna, è un Dio”. Se le ragazze e i ragazzi saranno messi nelle condizioni di sognare, perché hanno imparato a farlo osservando i loro genitori, allora sì che si uniranno per la vita e dalla loro unione nasceranno cose inaudite, perfino nuovi figli di Dio.
Prof. Umberto Fasol