In occasione del centenario della morte di Dante, un secolo fa Benedetto Croce scrisse il saggio Poesia e non poesia in Dante, sostenendo che accanto a brani lirici di imponente grandezza (Farinata degli Uberti, il conte Ugolino, Ulisse ecc.) il resto del poema si potesse considerare tessuto connettivo con divagazioni filosofiche e teologiche del tutto obsolete. Il saggio era funzionale alla concezione estetica del Croce, ma non coglieva l’essenza della concezione dantesca. La sua Commedia è una solida architettura di idee che ha operato la sintesi tra la cultura classica e il mondo cristiano.
La struttura presenta un canto di introduzione e tre cantiche di trentatre canti ciascuna racchiusi in rigorosa terza rima. Compaiono centinaia di personaggi che con la loro storia personale soddisfano la fame di conoscenza del poeta e qualche volta vengono incontro al suo desiderio di vendetta. Il poema è una cattedrale di idee, folto di statue, ma senza nascondere la rigorosa architettura gotica sottostante, lo stile architettonico più innovativo rispetto all’antichità classica.
Dante è vissuto nel XIII secolo, per certi aspetti il più glorioso della cultura italiana. Il secolo inizia con san Francesco, un uomo moderno nel senso che somiglia più a noi che agli uomini dell’età classica. È il primo che si accorge del paesaggio, degli animali, della realtà che lo circonda, dove tutte le cose proclamano di non essersi fatte da sé, perché le ha fatte un altro, Dio, che perciò merita ogni attenzione. La notizia più importante è che Dio si è fatto uomo per condurre l’uomo a Dio. Il presepio di Greccio aveva il valore di una testimonianza totale: rievocare il Natale come era avvenuto la prima volta a Nazaret in Palestina.
Il secolo prosegue con san Tommaso d’Aquino, l’intellettuale più rigoroso che viene conquistato dal realismo di Aristotele. In quel momento, specialmente a Parigi, di Aristotele si apprezzava la logica e la filosofia della natura. Tommaso e il suo maestro Alberto Magno sono convinti che la grandezza di Aristotele vada cercata soprattutto nella metafisica e nell’etica in grado di umanizzare gli usi e costumi ereditati dalla società germanica.
Dante crebbe in una Firenze dominata dalla fazione dei Guelfi: Federico II era morto nel 1250 e il figlio Manfredi nel 1266, nel corso della battaglia di Benevento che cancellava la rotta dei Guelfi avvenuta a Montaperti nel 1260, quando fu solamente Farinata degli Uberti a impedire che Firenze venisse rasa al suolo. Il partito dei Guelfi era dominato dall’affarismo più scatenato. Uniche oasi concesse alla cultura erano gli Studia generalia dei Domenicani a Santa Maria Novella e dei Francescani a Santa Croce dove venivano discusse le tesi di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura mediante lezioni aperte al pubblico e frequentate anche da Dante. Questi apparteneva a una famiglia che possedeva due poderi, ma vantava la presenza di un trisavolo cavaliere, Cacciaguida e perciò in qualche misura aristocratica, perché non amava i “súbiti guadagni” di chi “Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene”.
Dante è essenzialmente un autodidatta. Certamente ci furono alcuni soggiorni di studio a Verona nei primi anni dopo l’esilio, dove poté esaminare i codici della biblioteca capitolare e a Bologna, sede della più famosa facoltà di diritto civile. In Firenze, il personaggio più in vista era Guido Cavalcanti che aveva fama di filosofo. Dante sentiva che la sua posizione era tra gli aristocratici, coloro che in guerra andavano a cavallo, mentre in tempo di pace poteva partecipare ai tornei letterari suscitati dall’entusiasmo per il “dolce stil nuovo” che aveva eclissato la fama della scuola poetica siciliana. Il frutto maturo di questa stagione è la Vita nuova, il mirabile libretto in versi e in prosa che fece di Dante il più promettente letterato della città.
Col nuovo secolo, Dante si impegnò anche in politica, ma il suo insuccesso fu completo. Assistette allo scontro delle fazioni interne ai Guelfi, ossia tra Bianchi e Neri, i partiti che facevano capo ai Cerchi e ai Donati. Dante non apparteneva al partito dei Donati che risultarono vincitori. Essi si affrettarono a imbastire un processo per baratteria terminato con la condanna a morte di Dante che per due mesi aveva esercitato la carica di priore. Il poeta si trovava fuori di Firenze e vi rimase per il resto della vita. I fuorusciti Bianchi tentarono per qualche anno di radunare un esercito formato dai feudatari del Casentino, ma senza successo. Dante, deluso dalla politica, decise di “far parte per se stesso”, conquistato da un progetto filosofico. Gli uomini sarebbero sempre rimasti fuorviati se non partecipavano a un convivio di sapienza che li scampasse dall’errore. Iniziò il progetto del Convivio che doveva essere un trattato in lingua volgare composto di quattordici canzoni, ciascuna seguita da commento, più un trattato introduttivo. Dopo quattro canzoni il progetto si interruppe. Si deve supporre che Dante sia rimasto folgorato dal progetto della Commedia, un poema a cui avrebbero posto mano “e cielo e terra” per spiegare a tutti in lingua volgare, ma con l’allettamento del verso, la filosofia di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura, in grado di ricondurre Chiesa e Impero nel proprio ordine razionale, assicurando agli uomini la pace e la felicità. Sembra che i primi sette canti dell’Inferno siano stati composti intorno al 1304 e i critici ritengono che siano canti tipicamente fiorentini.
Dante scriveva un ottimo latino che impiegò per il De vulgari eloquentia e per il De monarchia, ma non era un umanista alla maniera del Petrarca che cercava la gloria con la poesia latina.
Dante perciò è poeta-filosofo perché si propone di rendere accessibile la conoscenza della filosofia esposta in latino da san Tommaso anche a coloro che non conoscono quella lingua. Gli episodi lirici della Commedia hanno il compito di attirare mediante drammatizzazione l’attenzione del lettore, ma perché accolga la conclusione filosofica e teologica del problema affrontato.
Se chi legge la Commedia fosse serio, al termine della lettura del poema dovrebbe apparire una persona trasformata in radice. Proverebbe ripugnanza di appartenere al gruppo degli ignavi che non scelgono né il bene né il male, finendo come “color che non fur mai vivi”, rifiutati anche dall’Inferno. Inoltre il sapiente lettore saprebbe che nell’Inferno i dannati sono divisi secondo il loro peccato più grave. Si può peccare per debolezza, per malizia o per matta bestialità. Nello stesso girone vengono condannati alla medesima pena coloro che hanno mancato gravemente contro una virtù. Infatti, la virtù è come il culmine tra due bassi avvallamenti occupati dai vizi per eccesso e per difetto. Ad esempio, il coraggio è il culmine tra la codardia di chi teme anche la propria ombra e la temerarietà di chi presume di sé e si espone per spavalderia a pericoli inutili. La pena segna il contrappasso rispetto alla colpa: i golosi che in vita si sono dedicati alla scoperta di sapori sottili e rari, trascurando la sobrietà del cibo e della bevanda, sono condannati a vivere in “grandine grossa, acqua tinta e neve/ per l’aere tenebroso si riversa; / putre la terra che questo riceve” (Inf. VI, 10-12).
Forse è bene capirsi. Da due millenni e mezzo c’è l’accordo, e non solamente in occidente, che un uomo vale per le qualità possedute. Ne esistono quattro –prudenza, giustizia, fortezza, temperanza- che risultano fondamentali perché ogni altra qualità umana si può ascrivere come parte potenziale a una di quelle citate. Tali virtù si acquistano con la costante ripetizione degli atti corrispondenti e si perdono con la loro omissione. Non può essere considerato virtuoso un uomo carente in modo grave anche di una sola delle virtù indicate.
Alasdair McIntyre con un libro divenuto famoso, Dopo la virtù, dimostrò che non esiste una fondazione filosofica della morale più valida di quella presente nell’Etica nicomachea di Aristotele.
Dante è vissuto in una città dilaniata dai contrasti tra partiti guidati da famiglie rivali, ha assistito all’incendio delle case dei nemici politici, alla loro cacciata in esilio, ai loro tentativi di rientrare alla testa di un esercito che a sua volta avrebbe cacciato dalla città i perdenti di oggi. In termini monetari si potrebbe affermare che le spese di guerra, notoriamente improduttive, erano infinitamente superiori ai profitti che si potevano sperare e perciò risultava spaventosa la condizione della Romagna “che non è mai sanza guerra nel cuor dei suoi tiranni”. La geografia dell’Inferno, con la presentazione icastica dei dannati sottoposti alla legge del contrappasso diventa la più splendida dimostrazione della verità della filosofia di san Tommaso d’Aquino, divenuto il più grande interprete di Aristotele.
Il Purgatorio è un’esigenza di ragione: se in Paradiso si entra solamente quando i conti con la giustizia sono stati pareggiati, occorre il soggiorno in un luogo di purificazione che renda ciascuno “puro e disposto a salire alle stelle”. I personaggi qui incontrati da Dante e Virgilio rivelano il rimpianto del tempo perduto per non aver aderito a un programma razionale di vita. Ora si trovano a dover ascendere la montagna dalle sette balze, ossia la purificazione dalle scorie del peccato. Incantevole l’episodio di Casella il cui amoroso canto fa dimenticare per un poco alle anime di “ire a farsi belle”, sollecitate dal rimprovero di Catone: “Che è ciò, spiriti lenti?/ qual negligenza, quale stare è questo?/ Correte al monte a spogliarvi lo scoglio/ ch’esser non lascia a voi Dio manifesto/: nel corso della vita terrena solamente l’arte è in grado di consolare e riempire la vita di un uomo.
Virgilio conduce Dante fino al culmine della montagna, metafora della ragione che conduce ogni uomo ad ammettere la possibilità dell’esistenza di Dio. Dante con ogni probabilità poté riflettere sull’affermazione di san Tommaso d’Aquino che non si deve credere per fede ciò che si può comprendere facendo uso della ragione. Esiste perciò la teologia che è lo sforzo della ragione umana per introdursi nel mistero divino reso manifesto dalla fede, che a sua volta risulta dalla piena adesione dell’uomo alla rivelazione divina. Dante perciò affronta il giudizio circa le tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Superato l’esame può entrare nel Paradiso e salire fino all’Empireo passando attraverso il cielo della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove e di Saturno. Infine, preceduto dalla supplica di san Bernardo di Chiaravalle alla Vergine, viene ammesso all’ultima visione, a contemplare il mistero della Trinità.
La grandezza di Dante filosofo e d’aver rispettato i campi di competenza altrui: egli considera come il suo peggior nemico Bonifacio VIII, ma ne contesta solamente le scelte politiche che non condivide, senza rifiutare la religione del papa inventandone una nuova. Quando Enrico VII accenna a rivendicare i diritti del Sacro Romano Impero, Dante si pone immediatamente al suo seguito indicando quali sono i diritti dell’Impero. L’Imperatore ha ricevuto direttamente da Dio il potere e deve provvedere al bene della pace superiore ad ogni altro per la vita dei cittadini. Papa e Imperatore hanno il compito di assicurare a ciascun uomo, il primo la vita eterna e il secondo la felicità sulla terra. Perciò Papa e Imperatore devono collaborare, essendo ciascuno autonomo nel proprio ambito di competenza. Nella realtà le cose andarono diversamente. Enrico VII venne in Italia, alcuni comuni lo rifiutarono, il papa si trovava ad Avignone e non andò a Roma per l’incoronazione, mentre vi andò Roberto d’Angiò re di Napoli per impedire ad Enrico VII di rafforzarsi in Italia. Infine l’imperatore morì nei pressi di Siena lasciando ogni cosa più confusa di prima. Dante perdette definitivamente la possibilità di ritornare a Firenze, dovette “salire e scendere per l’altrui scale” imparando “quanto sa di sale il pane” così ottenuto. Trovò rifugio presso Can Grande della Scala a Verona e da ultimo a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove concluse la redazione del Paradiso.
Prof. Alberto Torresani