di Gianluca Zappa (fonte: Il Sussidiario.net – 25.03.2021)
Secondo l’autore, insegnante, l’anniversario dantesco è l’occasione quanto mai opportuna per rileggere Dante, specie in questo periodo di incertezza e angoscia generale. Non lo dobbiamo lasciare sul comodino, ma fare i conti con lui, con la sua parola profetica e coraggiosa.
“I Budda vanno sopra i comodini” cantava Franco Battiato in Magic Shop, un brano del lontano 1979, che era un’entrata a gamba tesa contro la stupidità del consumismo arrembante. All’epoca, figuriamoci oggi! Il Budda che stavolta corre il rischio di finire sul comodino si chiama Dante Alighieri. Veramente è già finito sui meme, sui social, negli spot pubblicitari, nei biglietti di auguri, nei messaggini che accompagnano i cioccolatini… Cosa non si fa e non si farà in questo 2021, settecentesimo anniversario della sua morte! C’è una ditta di abbigliamento che propone una maglietta per adolescenti con la stampa, in bella evidenza, di una frase che Dante non ha mai detto. Riguarda la fama umana, ma è una parafrasi, anzi, magari lo fosse: è un riassunto di quello che Dante scrive nel canto XI del Purgatorio! Se un verso ha da finire su una maglietta, che sia per lo meno un vero verso! Niente da fare.
Del resto il genio di Dante ha prodotto un’opera densa di tanti endecasillabi folgoranti (che dicono un paesaggio, uno stato d’animo, un evento, un’esperienza, un mondo, addirittura un mistero inesprimibile), che è inevitabile saccheggiarla come un ricchissimo serbatoio di immagini. E in fondo è giusto così: i grandi poeti, è noto, sono quelli che dicono la parola che tutti volevano dire, ma che non riuscivano a trovare, sono quelli che riescono a leggerci meglio di quanto noi non siamo capaci. Quindi ben vengano i versi di Dante anche sulle magliette, anzi, sarebbe bello che ognuno indossi la maglietta col verso che ritiene “suo”, quella che più lo descrive, lo conforta, lo aiuta, gli illumina la vita. Ma perché questo accada, bisogna fare i conti, in modo serio, con l’autore e con la sua opera.
In verità a me sembra che Dante sia come una bella donna alla quale nessuno, o pochissimi, proprio per la sua straordinaria grande bellezza, osano avvicinarsi. Oppure come un tesoro prezioso riconosciuto da tutti, noto a tutti, sulla bocca di tutti, per ottenere il quale nessuno vuole impegnarsi ad usare la pala. Sì, qualche verso biascicato, più o meno verificato; qualche episodio famoso più o meno conosciuto e pochissimo compreso; qualche terzina recitata a memoria come una filastrocca, un po’ come il “m’illumino d’immenso” di Ungaretti; sì, qualche episodio della sua vita, retaggio dell’istruzione scolastica, un po’ di gossip su quella storia con Beatrice alle spalle di Gemma… Tutta questa fuffa sì, va bene. Ma fare della Divina Commedia quello che può diventare davvero, per tutti, e cioè il libro della vita dentro il quale non si finisce mai di penetrare… questo è un altro paio di maniche. Il Budda sul comodino, appunto.
Il fatto è che Dante e il suo “poema sacro” mettono paura. Là dentro, lo si sa bene, ci sono troppe cose: più di seicento personaggi con le loro storie, spesso tratte dal mito, spesso da un mondo medievale sideralmente lontano da quello contemporaneo; e poi riferimenti dotti ad altri poeti e teologi e filosofi; e allegorie difficili, alcune anche impossibili da decifrare (per cui bisogna mandare a memoria non solo l’allegoria, ma anche tutte le interpretazioni dell’allegoria, entrando in un imbuto senza fine che toglie il respiro); e poi astronomia, e scienze dell’epoca (trivio e quadrivio); e quel volgare che troppo spesso richiede una spiegazione che puoi trovare solo in nota.
Ecco, le note… Se pensi alla Divina Commedia pensi, più che alle terzine di Dante, a tutto l’apparato monumentale che la accompagna e quasi l’invade.
A scuola il testo ci è arrivato così, come un insieme di canti slegati, di personaggi slegati, di frammenti l’uno vicino all’altro, da studiare, da approfondire, da “trattenere” in qualche modo. Le note sostanziavano i nostri incubi. Roba da specialisti, non per l’uomo comune. Buffo destino per un poeta che proprio lì, in quel poema, ha scritto che “non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso”.
“Ritenere”… trattenere dentro di sé, in qualche modo rivivere, immedesimarsi, penetrare dentro un’esperienza. Dante ci invita a questo, questo definisce vera scienza, vero conoscere (ciò che tutti gli uomini desiderano). Ci si pone di fronte con tutta la forza della sua visione, con la serietà gioiosa di chi ha davvero visto Dio, e ci chiede di seguirlo nel suo viaggio bello e drammatico dall’esito glorioso. Ci apostrofa, ci scongiura di fare la strada con lui in questo “cammin santo” che si confronta con quelle Colonne d’Ercole (prendo a prestito la bella intuizione di Davide Rondoni che ho sentito parlare la scorsa settimana in una delle lezioni dei Colloqui Fiorentini) che rappresentano il mistero della nostra vita, di ogni istante della nostra vita. La Commedia è divina perché è profondamente umana, nel senso che nasce, vive e chiama in causa l’uomo, tutto l’uomo, ogni uomo.
Ci siamo proprio noi lì dentro, i nostri desideri, le nostre domande, i nostri errori. Gli sviamenti, le insoddisfazioni, i limiti, le paure, ma anche la nostra continua esigenza di perdono e di significato, di verità, di bellezza, di amore. Qualcuno ha detto che il viaggio nell’aldilà è in effetti un viaggio nell’aldiqua. È una bella immagine, ma dobbiamo andare al grande e felice messaggio che Dante ci vuole lasciare: a questo poema (che narra una storia sacra, e che è scritto quindi secondo l’allegoria dei teologi, come la Bibbia) hanno posto mano “e cielo e terra”. La realtà davanti alla quale ci pone Dante è dunque questa: Dio mi ha incontrato, mi ha visitato, mi ha abbracciato! Solo questo, nientemeno che questo. Il Cielo è venuto incontro alla terra e l’ha redenta. È il Natale e la Pasqua insieme. Può bastare o abbiamo bisogno di altro?
Certo, questo annuncio è una sfida, perché è verificabile e reperibile solo dentro un’esperienza. “Expertus potest credere”, cantava la Chiesa con un inno composto, pare, proprio da quel san Bernardo che Dante sceglie come sua ultima guida nell’imminenza di Dio. Ma è una sfida per la vita, non per la morte.
Il centenario di Dante cade in un 2021 quasi dilaniato dalla paura, dall’angoscia, dall’incertezza. Mai come oggi abbiamo bisogno della forza profetica di qualcuno che ci dica che cambiare vita è per il bene. E Dante è questo profeta, un uomo che ha dimostrato, con coraggio e coerenza, di essere uno che dice il vero fino in fondo, che “vede e vuol dirittamente e ama”. Di uno così abbiamo un’autentica, stringente necessità. Dobbiamo smettere di fuggire il suo poema o di girargli intorno smozzicandone qualche bella immagine. Dobbiamo farci i conti. Non merita, non può finire sul comodino!
Gianluca Zappa