Recensione di François-Xavier Bellamy (Itaca, Castel Bolognese 2019)
Chiunque abbia avuto la fortuna di poter vivere l’esperienza di un pellegrinaggio a piedi, tra tutti il celebre Cammino di Santiago, può confermare con il sottoscritto quanto sia necessario, durante l’itinerario, fare memoria della destinazione. Solo fissando, nella mente e nel cuore, la méta del proprio peregrinare si può scansare il pericolo sempre incombente del vagabondaggio.
Lo sapevano bene quei cavalieri che, marchiando i propri scudi con una croce, si mettevano in viaggio verso il Santo Sepolcro, senza la garanzia di giungere a destinazione e armati del solo desiderio di poter calpestare la stessa terra del Cristo; lo sapeva bene quel folle di Ulisse, ramingo per il Mediterraneo ma con il cuore sempre rivolto a Itaca e alla sua famiglia amata; lo sapeva bene Seneca, il quale ci rammenta che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
Qualsiasi movimento è disastroso se non si pianifica la meta e, consecutivamente, se non si sa da dove si sta venendo. Questa è la tesi che viene argomentata da François-Xavier Bellamy in Dimora. Per sfuggire all’era del movimento perpetuo, apparso in Francia nel 2018 e pubblicato in Italia per i tipi di Itaca l’anno successivo, correlato dalle magistrali prefazioni di Lorenzo Malagola, segretario generale della Fondazione De Gasperi, e Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle Associazioni famigliari.
Un saggio, quello di Bellamy, denso, disarmante, semplicemente bello. Era da aspettarselo in effetti dalla stessa penna che nel 2016 aveva dato alle stampe il best-seller I Diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere, che destò notevole scalpore nell’attenta ed esigente società francese. Dimora è in primis una straordinaria parabola sull’esperienza filosofica dell’Occidente europeo, dalla dicotomia Eraclito-Parmenide sino a Galileo Galilei, passando per Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso. In secondo luogo, Bellamy procede con una raffinata fotografia dello stato di salute del mondo occidentale, reso fragile dal mito del «movimento perpetuo» e dall’utopia dell’eterna evoluzione, anestetizzato dalle leopardiane «magnifiche sorti progressive» e dal sogno di un progresso imperituro.
L’autore non si limita tuttavia a una fin troppo facile diagnosi delle fragilità del nostro mondo. Rimarrà deluso chi in Dimora desideri trovare il manifesto di un conservatorismo reazionario e fissista, nostalgico di un passato ormai tramontato. Bellamy infatti non è semplicemente un affermato filosofo e un abile insegnante nei licei della banlieue parigina. Nel 2008, a soli 23 anni, è stato eletto vicesindaco di Versailles e, nel 2019, è “sbarcato” all’Europarlamento in quota Partito Repubblicano francese.
Un buon politico è cosciente che alla diagnosi deve succedere necessariamente una prognosi. Bellamy propone quindi il concetto di “dimora”, intesa come riscoperta di «un luogo da abitare dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi» (p. 141) . Mettere radici, in poche parole, coltivare una quotidianità che possa divenire un argine alla “gassosità” di cui il nostro amato Occidente sembra essere sempre più assuefatto. Reinventare luoghi di incontro, di prossimità, di complicità, che facciano da contraltare a tutti quei non-luoghi (secondo la nota definizione di Marc Augé) che pervadono la nostra esistenza.
Ogni capitolo e ogni pagina del saggio invitano costantemente il lettore a compiere questo lavoro su se stesso, a interrogarsi su dove sia la propria Itaca e, come Ulisse, a non avere timore di solcare i mari per poterla raggiungere.
Stefano Sasso