Intervista a Massimiliano Badino

Come è nata la Philosophy for Children?

La Philosophy for Children nasce da un problema che potremmo definire sociale, prima che pedagogico. La sensazione che alcuni pionieri hanno avuto, tra i quali Matthew Lipman stesso – l’ideatore della Philosophy for Children –  era che il sistema educativo non fosse al passo con la società. Tale pratica nasce in un contesto che è in primo luogo quello della logica dell’argomentazione e, dunque, anzitutto come una precisa forma di pensiero, prima ancora che essere collegato a problemi etici o metafisici. Nasce dalla sensazione che Lipman ha – e che ha sperimentato con i suoi figli – che la stessa materia che lui insegnava, cioè la logica e l’argomentazione, avesse un potenziale educativo inespresso. Vide quindi necessario individuare delle metodologie più adatte da un punto di vista pedagogico, affinché le potenzialità insite nella logica venissero sfruttate appieno. Lipman si rese conto che esisteva la possibilità di insegnare la logica e l’argomentazione, discipline apparentemente estremamente astratte, in un modo che potesse essere utile ai bambini della scuola primaria. Ha pescato da tante tradizioni: alcune vengono dall’Unione Sovietica come Vygotskij; alcune vengono dal pragmatismo americano, come Dewey; altre ancora vengono addirittura dal Sud America come Freire.

Quale ruolo gioca il critical thinking nella Philosophy for Children? Come questo filone prende le distanze dalla pedagogia piagetiana?

Il critical thinking è una nozione attualmente molto diffusa. Ad oggi infatti è normale parlare di pensiero critico, specialmente nei documenti ufficiali a livello istituzionale. È diventata quasi una parola d’ordine, ma non è stata tale fin dall’inizio. Anzi, ha avuto una genesi abbastanza complicata. Il concetto di pensiero critico nasce negli anni Sessanta, non nel contesto della logica, ma in un ambito  differente; non nell’ambito della scuola primaria, ma in quello universitario, dove  di nuovo alcuni autori pionieristici cominciarono a riflettere sulle stesse discipline che insegnavano e si resero conto nuovamente che la logica e l’argomentazione erano degli ottimi strumenti, che avrebbero potuto essere di grande aiuto per capire il mondo circostante, mai ai ragazzi e alle ragazze che andavano in università venivano insegnate in un modo poco utile.  Tutto questo è avvenuto In circostanze particolari, ovvero durante la ribellione generazionale degli anni ‘68, in un brodo culturale adatto a mettere in discussione schemi di pensiero già consolidati, e tra questi anche la pedagogia. E qui arriviamo a Piaget. La pedagogia di Piaget si basa sul concetto delle fasi di sviluppo del pensiero, e quindi definisce lo sviluppo del bambino in funzione di momenti specifici in cui emergono, attraverso l’interazione con il mondo, certe abilità cognitive ben determinate. È noto che secondo il pedagogista svizzero la capacità del pensiero astratto sia l’ultima. Questo ovviamente pone il problema nel momento in cui si vuole insegnare la filosofia o la logica ai bambini della scuola primaria. Tuttavia questo problema si fonda su un fraintendimento generale. Perché quando parliamo di Philosophy for Children, non dobbiamo pensare alla filosofia accademica fatta dai bambini. Una distinzione cruciale che dobbiamo assimilare è che una cosa è la filosofia come disciplina, con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi schemi, il suo linguaggio, che spesso è molto tecnico, ostico, distanziante, una cosa è il filosofare, cioè la pratica filosofica. Kant diceva che non si può insegnare la filosofia, ma si può insegnare a filosofare. Questa è l’idea che è stata presa in carico dalla Philosophy for Children, ovvero non quella di fare in modo che i bambini facciano I filosofi adulti seppure in scala minore, ma cercare di stimolare nei bambini un pensiero che è genuinamente filosofico, e che quindi ha certe caratteristiche, ad esempio è aperto, si pone problemi che sono significativi, e significativi significa esistenziali, importanti per noi, ma allo stesso tempo familiari e vicini. Quindi il bambino e la bambina non saranno filosofi nel senso che useranno termini come “transustanziazione” e “trascendentale”, ma saranno filosofi nel senso che partono da storie, personaggi, vicissitudini, vicende a loro familiari e vicine che però sollevano delle genuine questioni. Questo può avvenire in tanti modi. Tendenzialmente avviene attraverso la lettura di testi strutturati in un certo modo e che presentano certe caratteristiche, ad esempio sono testi aperti, o che cominciano nel mezzo della vicenda e non si concludono e che già per il semplice fatto di avere questo tratto di frammento sollevano dei dubbi e dei quesiti: perché i personaggi si trovano in queste condizioni? Che cosa è successo? Che cosa succederà dopo? Questo è un modo per cominciare a porsi dei problemi che poi diventeranno sempre più significativi. Questo lavoro sul testo è un lavoro genuinamente filosofico. Certo non si parlerà di teoria delle idee platoniche o di categorie aristoteliche, però gradualmente possono emergere questioni sempre più dense che possono riguardare l’amicizia, emozioni importanti, la vita, la morte, l’idea di virtù. Nel rispetto della teoria di Piaget, questo non è in contraddizione. Non si tratta di far pensare i bambini come degli adulti, ma di dare loro la possibilità, all’interno del loro universo, del loro perimetro di discorso, all’interno delle loro categorie e del loro modo di affrontarle, la possibilità di porsi dei quesiti che sono aperti, non chiusi, non monologici e non destinati ad avere un’unica risposta, ma che aprano la possibilità del dialogo.

Il tutto avviene in un contesto educativo ben preciso che è la comunità dialogica o comunità di ricerca. Quali sono le caratteristiche di questo contesto? 

Il tutto avviene in un contesto ben studiato, ben determinato. La Philosophy for Children ha indubbiamente un aspetto di spontaneità e di imprevedibilità che va conservato. Però, allo stesso tempo, non deve essere un caos. Questo perché è fondamentale che la comunità di ricerca, all’interno della quale questa attività si svolge, si ponga degli obiettivi ben chiari. Certamente i bambini non sono coscienti fin da subito del contenuto di tali obiettivi; questi ultimi devono essere chiari nella testa di chi organizza la comunità di ricerca, ovvero il facilitatore o la facilitatrice, che ha un ruolo estremamente difficile e sottile, perché deve guidare la comunità di dialogo, però lasciando ad essa la possibilità di esporsi e di esprimersi nel modo più spontaneo ed imprevedibile possibile. Quindi la comunità di ricerca si svolge con delle tappe ben definite: c’è la lettura del testo che deve essere scelto molto accuratamente; c’è una fase in cui dal testo si comincia a lavorare sulle domande; in seguito i bambini vengono divisi in gruppi all’interno dei quali cominciano a ragionare su quali domande vengono suggerite da questo testo. In questa prima fase i bambini devono andare a scegliere una domanda particolarmente significativa. Poi, in plenaria, si presentano le domande dei gruppi e si sceglierà la domanda sulla quale si lavorerà e qui si imposta il piano di discussione. Spesso queste domande sono definite in modo incompleto, spesso parziale, possono esserci domande che si equivalgono, ma che sono formulate in modo diverso, per cui al facilitatore spetta anche il compito di far ragionare i bambini sulle somiglianze e sulle differenze, verso quelle che si chiamano piste euristiche (chi? come? perchè?). Poi c’è un momento di discussione vera e propria e infine di valutazione, ovvero il momento in cui i bambini valutano come si sono sentiti e anche come il facilitatore si è comportato, come li ha fatti sentire, se hanno sentito la possibilità di esprimersi. Per arrivare a questo punto, e quindi ad una sessione di Philosophy for Children produttiva e soddisfacente, bisogna lavorare prima sulla costruzione della comunità di ricerca. Per cui ci sono degli aspetti a cui porre attenzione. Lipman suggerisce alcune caratteristiche fondamentali: Il favorire una partecipazione che però non sia troppo invadente, perché la comunità di ricerca richiede chiaramente la partecipazione di tutti e di tutte, però non la può pretendere, nel senso che i bambini hanno i loro tempi, qualcuno può sentirsi subito pronto a partecipare, qualcuno invece può sentirsi un po’ titubante. Quindi è essenziale, per mantenere un funzionamento omogeneo, che si rispettino i tempi di tutti i bambini e di tutte le bambine, che a volte possono essere molto diversi. Un’altra caratteristica importante, che distingue la comunità di ricerca da altri lavori di gruppo, è il focus sulla deliberazione, che va distinta dalla decisione. La comunità di ricerca non deve decidere una risposta, ma deve deliberare una risposta, il che significa che il focus è più sul processo che sul prodotto. Proprio per la peculiarità dei problemi che si affrontano, non è tanto importante che la risposta sia giusta o sia sbagliata, o magari decisa dalla maggioranza, quanto piuttosto che venga deliberata e che sia espressione di tutto il gruppo. Chiaramente questo è un concetto astratto, ideale, che solo in certe condizioni può essere raggiunto. La comunità di ricerca tra le sue funzioni ha anche quella di smussare certe relazioni di potere e di prevaricazione che si possono  creare all’interno dei gruppi. È un processo che richiede sempre di riflettere sulle ragioni per cui si fa una certa affermazione.

Dal momento che stiamo parlando di deliberazione, mi viene spontaneo chiedere  quale sia il legame della Philosophy for Children con l’approccio relativista…

Si potrebbe pensare che il fatto che i problemi siano aperti, il fatto che i testi suggeriscano varie interpretazioni, automaticamente legittimi l’idea per cui ogni opinione sia uguale all’altra. Per questo il ruolo del facilitatore è difficile, perché c’è il rischio che la discussione finisca in un numeroso affastellarsi di idee. Quindi come si fa a tenere in piedi l’idea dell’apertura della comunità di ricerca evitando il rischio di un approccio relativista? Fondamentale è fornire delle ragioni, delle argomentazioni. Stiamo parlando di problemi che non sono risolvibili e decidibili una volta per tutte. Questo però non significa che ogni opinione sia equivalente ad un’altra. Nel momento in cui i bambini e le bambine sono in grado di trovare delle ragioni alle opinioni anche più bizzarre, lo scopo, in un certo senso, è già raggiunto, perché sono stati posti di fronte alla necessità di motivare quanto stanno sostenendo.  Poi chiaramente le opinioni più bizzarre saranno sostenute dalle regioni più deboli e quindi verranno facilmente attaccate dagli altri e messe in questione dai compagni.  Dunque centrale della Philosophy for Children non è trovare una risposta, ma fornire le ragioni delle proprie opinioni. Quindi, di fronte a qualsiasi opinione, anche la più bizzarra, anche la più provocatoria, bisogna pretendere una motivazione, una giustificazione, un’argomentazione. La discussione indubbiamente può arrivare a dei vicoli ciechi, per cui la bravura del facilitatore sta nel tenere viva la discussione incoraggiando i bambini ad andare a fondo sulla questione. 

I parallelismi con Socrate, così come anche le divergenze, appaiono evidenti. Potrebbe delinearli?

È chiaro che quando parliamo di Philosophy for Children il personaggio che ci viene in mente è evidentemente Socrate, perché come dicevo prima la Philosophy for Children insiste di più sulla pratica filosofica che sulla filosofia accademica e nell’immaginario collettivo il filosofo che va in giro e fa domande scomode è sempre stato Socrate. Infatti Lipman si è ispirato alla filosofia socratica, che porta con sé il concetto di maieutica, ovvero tirare fuori ciò che le persone si portano dentro. Tuttavia ci sono delle differenze fondamentali. Tanto per cominciare parliamo di contesti temporali totalmente differenti. Lipman ha un obiettivo, che è quello di riformare l’educazione, soprattutto alla scuola primaria. Questo significa che ha come target ragazzini e ragazzine dell’età compresa tra i 6 e gli 11 anni e che frequentano una scuola, cioè un sistema organizzato e istituzionalizzato. Socrate si rivolge ad un altro target, ovvero quello degli adolescenti, o meglio, quelli che noi oggi chiameremmo adolescenti, ma che all’epoca erano uomini e donne fatti. Il suo rapporto con queste persone era molto più informale, in contesti pubblici o privati e non c’era alcuna velleità di funzionalità. Questa pratica nasce e muore con Socrate, nel senso che quando Platone ne fa protagonista dei suoi dialoghi sta essenzialmente dicendoci che nessun altro è come Socrate, che nessun altro era un maestro come lo era Socrate. Dall’altra era un maestro per modo di dire, perché in ultima analisi spesso ne usciva protagonista, che non è esattamente quello che dovrebbe fare un facilitatore o una facilitatrice. In più il contesto è molto diverso anche da un punto di vista politico e sociale. In Lipman l’argomentazione ha un valore fortemente etico e anche politico. Il contesto generale è quello della democrazia liberale statunitense, ma lo troviamo anche nel contesto in cui operava Freire, che non è quello della democrazia.  Lo ritroviamo più o meno anche nell’Unione Sovietica di Vygotskij. Socrate invece si muove in un contesto totalmente diverso. Chiaramente pensiamo alla Atene di Pericle come la culla della democrazia, ma la Atene di Pericle aveva pochissimo in comune con quella che noi chiamiamo oggi democrazia. Quindi Socrate e Lipman sicuramente si sono posti obiettivi differenti. D’altro canto l’idea generale per cui la filosofia sia anzitutto una pratica che va vissuta, che va esperita prima ancora che raccontata, prima che proposta con un linguaggio gergale tecnico,  questa idea Lipman l’ha presa e l’ha calata in un contesto istituzionalizzato, che è quello della scuola e ne ha fatto un metodo, prima ancora che una pratica.

Quali sono i risvolti educativi della Philosophy for Children nella società attuale, soprattutto in riferimento al cosiddetto pensiero multidimensionale? Perché ad oggi è importante educare alla logica?

Ancora adesso, dopo tanti anni di Philosophy for Children, la logica è per così dire localizzata, segregata e ghettizzata tra le discipline matematiche. E in parte è corretto, perché la logica, tra le discipline in ambito umanistico, è quella meno recente e al contempo quella che di gran lunga ha avuto uno sviluppo più impetuoso e sorprendente. Quindi è chiaro che la logica venga collocata nell’ambito della matematica, però dobbiamo ricordarci che per più di duemila anni non è stato così, perché la logica non si è sviluppata sostanzialmente dopo Aristotele e dobbiamo ricordarci che, quando è nata, la logica era fortemente intrecciata con la politica e la retorica. Per Aristotele non c’è affatto una opposizione tra le due cose, quindi la logica ha una valenza sociale. Lipman vuole recuperare l’idea che la logica, come abito del pensare in modo corretto e argomentare in modo corretto, è la via principale per una vita democratica sana, funzionale alla vita in comune, al dialogo, alla tolleranza. Il collegamento tra la logica e la cittadinanza è particolarmente significativo. Ad oggi siamo esposti a semplificazioni, teorie cospiratorie, fake news, in generale ad una degradazione del clima linguistico e argomentativo che ha la tendenza a diventare tossica. Siamo dunque in un momento storico che richiede una maggiore consapevolezza su come si utilizza il linguaggio. Abbiamo bisogno di cittadini e di cittadine che sappiano confrontarsi e sappiano argomentare attraverso ragioni e non attraverso sentimenti o emozioni che possono portare fuori strada. Questo non significa che la logica sia nemica delle emozioni o della creatività, e qui arriviamo al pensiero multidimensionale. La grande intuizione di Lipman, e in questo sì che è andato un po’ oltre Dewey, è stato comprendere che i pensieri, per la loro intrinseca significatività, necessariamente mettono in gioco la vita emozionale. Lipman ha accolto il valore educativo delle emozioni, un elemento ad oggi abbastanza consolidato. Dagli anni ‘90 in poi gli studi di psicologia hanno sottolineato che le emozioni hanno un valore educativo e cognitivo, cioè che noi pensiamo meglio quando siamo coinvolti emozionalmente. Il pensiero multidimensionale prevede che ci siano tre forme di pensiero, ovvero quello critico, quello emozionale-creativo e quello di cura, che possono essere movimentati assieme e ognuna di queste influisce sull’altra. Per molto tempo si è pensato che le emozioni fossero un ostacolo al pensare corretto, invece se vengono indirizzate e guidate possono aiutare a pensare in modo corretto. Per molto tempo si è pensato che il pensiero creativo e divergente fosse contrario al pensiero critico e convergente, ma ad oggi sappiamo che non è così. La costruzione di buone argomentazioni richiede una forma di creatività. Inoltre il pensare bene ci fa anche sentire bene, è anche un modo per prendersi cura di sé e della comunità in cui si è inseriti. Quindi, per riassumere, la messa in campo di tali dimensioni contribuisce ad uno sviluppo organico del bambino.

Michela Spiazzi