Nuccio Ordine – Bompiani 2020

Prima della partenza per il mare entro in libreria con il proposto di comprare un libro che, ahimè, non c’è; mentre mi accingo cheto cheto ad andare via, però, il mio sguardo si posa su un “timido” libricino adagiato sul bancone. A primo acchito non attira la mia attenzione, sarà per quella semplice copertina beige, abbellita solo da una piccola figura geometrica a righe colorate. Una veste sicuramente poco appariscente rispetto agli abiti pomposi di molti romanzi di moda. La copertina tuttavia mi ammicca con un titolo un po’ strano, direi “ossimorico”: “L’utilità dell’inutile”.  Che strano! Mi avvicino, lo afferro e, sopraffatto dalla curiosità, cerco di conoscerlo meglio: il libro suscita in me una profonda simpatia, forse per le recensioni di noti intellettuali (non solo italiani), forse per l’accattivante presentazione dei contenuti, forse per l’alto profilo intellettuale dell’autore Nuccio Ordine. Lo compro e decido di leggerlo. 

Devo ammettere che l’esperienza è stata veramente piacevole, costruttiva e proficua, tant’è che con vivo entusiasmo ho subito consigliato la lettura ai miei amici. 

Non si tratta di un classico romanzo di formazione, né di una raccolta di racconti, ma di un fortunato saggio “manifesto” pubblicato dalla casa editrice Bompiani (la prima edizione è del 2013) e caratterizzato dalla raccolta di riflessioni aventi per oggetto i temi del sapere, della conoscenza e della ricerca. Attraverso una serie di accattivanti e limpide argomentazioni, non prive di piacevoli incontri con i volti noti e meno noti della filosofia, della letteratura e anche del sapere scientifico, Nuccio Ordine riesce a legare le “riflessioni sparse” (così le cita nella Nota all’edizione italiana del 2022) da una tesi di fondo: per fronteggiare il rischio che la nostra società degeneri nella “dittatura del profitto”, del possesso, dell’avere e, soprattutto, dell’utile, occorre coltivare un sapere che sia disinteressato, gratuito e, appunto, inutile. Probabilmente all’homo oeconomicus del XXI secolo, che si tratti di un alunno, di un impiegato, di un operaio o un dirigente, questi temi possono sembrare degni di una chiacchierata di nicchia tra pochi intellettuali. Insomma: nella società dei consumi, della produzione e della velocità, solo il “canto delle sirene” del possesso e dell’utile sembra essere in grado di ammaliare l’uomo, distraendolo dalla contemplazione della propria dignità. 

A che serve, in effetti, studiare latino, filosofia o letteratura? Oppure, a cosa giova spendere immensi capitali per finanziare la ricerca astronomica? In periodo di crisi, inoltre, non sarebbe utile finanziare prevalentemente le attività produttive? Insomma: a cosa serve la cultura “inutile”? Dà da mangiare? Non sarebbe più utile finanziare la ricerca scientifica applicata e mirata al raggiungimento di specifici obiettivi? Domande e dubbi legittimi, in quanto “nell’universo dell’utilitarismo – ironizza l’autore – un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro”, ma se volgiamo lo sguardo al quadro della storia della civiltà e ai suoi progressi immateriali, non si può negare indubbiamente il ruolo che il sapere disinteressato ha avuto per la creazione non solo di un orizzonte civile, ma anche del pensiero critico! I temi dell’amore, della bellezza, della verità e della tolleranza, per esempio, non possono affermarsi se non grazie a quei saperi che molti, purtroppo, continuano a snobbare, perché, forse, meno utili di una chiave inglese.  Oggi spesso si parla di crisi, tuttavia sappiamo che essa è una costante nella storia dell’uomo, e come insegna la parola stessa (κρίνω significa “distinguere”, “giudicare”), in tali momenti occorre fare delle “scelte”. Molto probabilmente la mente pragmatica e utilitaristica dell’uomo moderno in queste situazioni pensa a tutto ma non alla cultura disinteressata, eppure già nel 1848 un celebre scrittore (Victor Hugo), rivolgendosi all’Assemblea Costituente, spese parole che oggi suonano attuali: per uscire da una crisi non si devono fare scelte orientate solo al benessere “materiale” ma soprattutto ad accendere le “fiaccole delle menti”. Lo scrittore francese, battendosi contro i tagli alla cultura, usa espressioni eloquenti, come “pane del pensiero” e “dello spirito”, in riferimento all’istruzione che, proprio in tempo di crisi, pur se apparentemente inutile e non di prima necessità, deve essere coltivata per uscire dall’ignoranza, dalle logiche utilitaristiche del profitto e del potere e “risollevare lo spirito dell’uomo”, educandolo al bello e alla consapevolezza della propria dignità di essere umano (interessanti, a tal riguardo, i riferimenti non solo ai classici, come Seneca, ma anche ai grandi umanisti italiani, quali Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti). 

A questo punto, però, occorre fare una precisazione: in tali riflessioni non si insinua affatto l’idea di contrapporre le humanae litterae ai saperi scientifici. Anzi! Tale dicotomia è superata in quanto, anche grazie al contributo di un illuminante saggio di Abraham Flexner del 1937 e riportato in appendice, la ricerca scientifica apparentemente “inutile” (ispirata alla curiositas e non a obiettivi meramente utilitaristici) ha prodotto con il tempo e in modo inaspettato grandi risultati. Forse molti non sanno, per esempio, che le invenzioni di Guglielmo Marconi hanno un grosso debito nei confronti delle ricerche sulle onde elettromagnetiche svolte da James Clerk Maxwell e Heinrich Rudolf Hertz, i quali erano lontani dall’idea pratica di costruire una radio! Diciamo che Marconi è stato un abile tecnico che ha sfruttato delle conoscenze pregresse per fini pratici. Alcune grandi scoperte, quindi, affondano le loro radici in ricerche scientifiche che sono state alimentate solo dall’apparente inutilità dell’indagine. 

A cosa serve la cultura, allora? Per servire a qualcosa, non deve essere utile. 

A tal riguardo penso a una famosa sequenza del film “Quo vado” del 2016 che narra la bizzarra storia di un uomo ancorato al posto fisso. In una scena ambientata durante la fanciullezza del protagonista, un insegnante rivolge a lui e ai suoi compagni la classica domanda “Che vuoi fare da grande?” (si badi al verbo “fare”, oggi predominante rispetto ad “essere”). Le risposte sono quelle che noi, genitori e non, ci possiamo immaginare: chi il veterinario, chi il musicista, chi lo scienziato, fino a quando Checco, il protagonista, con ingenuità risponde di volere il posto fisso. Ho volutamente riportato questo episodio in quanto penso che rispecchi una parte della nostra società, la cui istruzione spesso è intesa esclusivamente come strumento atto a creare futuri lavoratori (si pensi alla terminologia che la scuola sta importando dal modo aziendalistico, come “competenze”, “strategie”, “obiettivi”, per non parlare degli infiniti acronimi). Tuttavia, come ricorda Nuccio Ordine, “far coincidere l’essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo”, in quanto “in qualsiasi uomo c’è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere”. Questo “qualcosa di essenziale” consiste nel raggiungimento del “bene comune”, che può essere garantito solo uscendo dalla dimensione individualistica e rivendicando principi universalmente validi, come la solidarietà, la libertà, la giustizia, che solo da un sapere disinteressato possono essere generati.

Per usare una formula non mia ma di Edmondo De Amicis, la scuola permette all’uomo di vincere contro la barbarie e la vittoria consiste, per l’appunto, nella civiltà umana.

Carlo Giallombardo