La guerra in Ucraina trae origine dallo scontro ideologico che si è venuto a creare tra Russia e Occidente negli ultimi 30 anni. Non si deve fare l’errore di pensare che l’ideologia sia una sorta di sovrastruttura stesa sopra le vere ragioni della guerra, quelle economiche, geopolitiche, militari. In realtà c’è una linea di continuità diretta tra la spersonalizzazione dell’altro, la costruzione del nemico e la decisione di scendere in guerra contro questo nemico, di bombardare le sue case, di sconvolgere la sua vita.
Il punto da cui occorre partire è l’appartenenza di Russia e Ucraina (e delle loro classi dirigenti) all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, uno Stato totalitario fondato su di un’ideologia, cioè una costruzione intellettuale in cui alcuni elementi vengono presi dalla realtà e distorti a beneficio del proprio gruppo di appartenenza.
Nel 1991 crolla l’Unione Sovietica e per la Russia cominciano i selvaggi anni Novanta: arriva l’economia di mercato occidentale, anzi il capitalismo selvaggio in cui prevalgono i più spregiudicati, gli oligarchi. Nel 2000, quando El’cin passa la mano a Putin, la situazione cambia radicalmente: Putin dichiara guerra agli oligarchi, emana alcune riforme decisive, sorge la classe media russa, la ricchezza si diffonde. Contemporaneamente Putin si mette a capo del recupero russo dei valori tradizionali, si presenta come il leader mondiale del conservatorismo non islamico, restituisce alla Russia il suo status di potenza mondiale, ma verso il 2012 piega questo recupero simbolico verso il passato sovietico ed impone una sola verità storica e culturale, la verità di Stato. La chiusura delle emittenti televisive di proprietà degli oligarchi, la guerra fatta ai giornalisti indipendenti (Politkovskaja, Estemirova ecc.), la chiusura di Memorial sancisce l’affermazione del pensiero unico in Russia.
Il percorso dell’Ucraina fuori dall’Unione Sovietica è stato diverso da quello russo. Divisa per secoli tra Impero Zarista e Impero Austro-Ungarico, presenta ancor oggi una parte occidentale decisamente ucrainofona, prevalentemente agricola e spesso di confessione cattolica e una parte orientale molto più russofona, ortodossa e di antica tradizione industriale. E, pur essendo una regione ricca di risorse naturali e agricole, non è mai riuscita decollare nel periodo post-sovietico, soprattutto per l’insediarsi al potere di una élite economico-politica: qui gli oligarchi non sono mai stati estromessi dal potere politico e continuano a spadroneggiare.
La debolezza dello Stato è certificata dalla continua discussione sulla Costituzione, modificata più e più volte, contestata e, soprattutto, più volte disattesa. Ma è certificata anche dal potere che nel 2014 viene concesso alle manifestazioni di piazza avvenute col consenso e la partecipazione palese degli USA. Alla fine di febbraio il presidente filo-russo Janukovič, pur essendo stato regolarmente eletto, viene defenestrato e sostituito, il tutto in un clima di accuse reciproche, ma soprattutto senza alcun rispetto per la Costituzione e lo Stato di diritto.
È la scintilla. Alcune regioni a maggioranza russofona non accettano il neonato governo Jacenjuk voluto dagli USA e prontamente riconosciuto invece dal mondo occidentale. La Crimea – regione militarmente strategica – dichiara con un referendum la propria volontà di staccarsi dall’Ucraina e aderisce alla Russia. Stati Uniti ed UE proclamano le sanzioni alla Russia e ai politici russi che avevano approvato quel referendum. Un mese dopo due regioni a maggioranza russofona della zona orientale, il cosiddetto Donbass, si ribellano al governo centrale ucraino e si costituiscono nelle Repubbliche secessioniste di Donec’k e di Lugans’k.
Da quel momento in Russia e in Ucraina – ma anche in Occidente – si strutturano due interpretazioni ideologiche contrapposte che ispirano le politiche militari, linguistiche, mediatiche.
Le autorità ucraine mettono in campo un’Operazione Anti Terrorismo in cui intervengono formazioni paramilitari di matrice estremista (Pravyi sektor); seguono tentativi internazionali di conciliazione, fasi di escalation, de-escalation, perdite e riconquiste di territori, il trattato Minsk I (settembre 2014) e Minsk II (febbraio 2015) mai pienamente implementati, elezioni non legittime, manifestazioni a favore delle diverse soluzioni filo-separatiste e filo-governative, una fase di stanca nel 2016. Nel 2018 il governo ucraino decide di non tollerare più la situazione e riclassifica l’Operazione Anti Terrorismo in Operazione Militare Congiunta: non sarà più la polizia a lottare contro i separatisti filorussi, bensì l’esercito ucraino al comando del presidente si schiererà contro quella che è senza alcun dubbio l’aggressione armata di una potenza straniera, la Russia.
Nel mezzo, a gettare benzina sul fuoco, la cessazione dell’erogazione delle pensioni da parte dell’Ucraina agli anziani delle repubbliche separatiste e l’assunzione dell’onere da parte russa (2014), l’orribile strage dei manifestanti filorussi a Odessa (maggio 2014), l’abbattimento del volo delle Malaysian Airlines 17 da una postazione dei separatisti (luglio 2014), due navi militari ucraine catturate dai russi mentre cercavano di forzare lo stretto di Kerč (novembre 2018). Nel 2019 il conteggio di questa “guerra a bassa intensità” supera i 13.000 morti , di cui oltre 3.300 tra i civili, mentre i feriti ammontano ad almeno 7.000.
Anche qui si fronteggiano due narrazioni. L’una è quella che ha fornito direttamente il presidente Putin nel discorso del 21 febbraio 2022 quando ha detto che, nel 1922, “il Donbass, fu letteralmente ficcato dentro l’Ucraina” e che quello che è avvenuto in questi 8 anni di bombardamenti con droni d’attacco, attrezzature pesanti, razzi, artiglieria e sistemi di razzi a lancio multiplo “è interamente un prodotto del colpo di stato del 2014”. Che, dunque, per risolvere la questione del Donbass, non resta altra soluzione che riconoscere l’indipendenza e la sovranità della Repubblica Popolare di Donec’k e della Repubblica Popolare di Lugansk e intervenire militarmente.
L’altra interpretazione dice che è inaccettabile che una potenza straniera, la Russia, entri con il proprio esercito nei territori di uno Stato sovrano, l’Ucraina, che fomenti azioni militari nelle regioni di frontiera di un paese confinante, e che il fatto che in quelle regioni vivano abitanti russofoni cui vengono conculcati alcuni importanti diritti identitari non è una giustificazione. C’è da aggiungere il silenzio che i mass-media, per lo meno quelli italiani, hanno riservato a questa tragedia, perché 13.000-14.000 morti sono comunque una tragedia, eppure questi morti sono stati trattati come morti di serie B, non degni delle prime pagine dei giornali, né delle aperture dei telegiornali.
Il resto è la terribile cronaca di questi giorni con l’esercito della Russia che invade l’Ucraina, semina morte e distruzione, e con un presidente Putin, che in nessun modo può essere giustificato dalle ragioni che abbiamo portato fino ad ora.
C’è da aggiungere solo che, se la catastrofe di cui siamo testimoni è il frutto delle ideologie portate avanti dalle classi dirigenti, dalla vita del semplice popolo ucraino viene invece un messaggio di speranza. Da decenni la popolazione ucraina aveva superato le ideologie nazionaliste, aveva mostrato come si convive in un paese con tanti matrimoni misti, che peraltro nessuno considerava misti. Viveva, la popolazione ucraina, senz’ombra di intolleranza tra ucraini e russi, utilizzando indifferentemente una lingua o l’altra, o un misto tra le due. Viveva in pace.
La politica ha l’obbligo di trovare le forme istituzionali di questa pace, assicurando larghi diritti alle minoranze, permettendo l’uso delle lingue minoritarie ovunque ci siano, aprendo scuole e università bilingui, aiutando le ragioni della convivenza, non costruendo ideologie che separano, armano, versano sangue. I politici ucraini devono superare il paradigma nazionalista, convincersi che non possono obbligare i russi del Donbass a studiare solo in ucraino e i politici russi devono convincersi che la Crimea può trovare la propria casa anche in Ucraina, come il Sud Tirolo l’ha trovata in Italia ed ha accettato di farsi chiamare Alto Adige.
La politica deve servire la pace che c’è. Deve imparare dalle famiglie che vivono in pace, non armare i fratelli contro i fratelli.
Giuseppe Ghini – professore ordinario di slavistica presso l’Università di Urbino