I due autori, esperti di problemi educativi, intervengono nel dibattito apertosi con l’approvazione alla Camera del progetto di legge che introduce nella scuola le competenze non cognitive, sottolineandone il valore ai fini di un buon apprendimento, alla luce anche del periodo di didattica a distanza che ha inciso negativamente sulla stabilità emotiva degli studenti.
Caro direttore, l’esigenza di una più accurata attenzione allo sviluppo della personalità degli allievi è emersa prepotentemente durante la stagione pandemica. In situazione DAD gli insegnanti più efficaci sono stati quelli che hanno saputo occuparsi dei loro allievi non soltanto sul piano degli apprendimenti, ma anche nel sostegno relazionale. Quanto è accaduto in circostanze emergenziali non fa che confermare ciò che da tempo è noto e cioè che il potenziamento delle competenze definite «non cognitive» o «socio-emotive», integrano e migliorano le competenze «cognitive».
Gli stessi apprendimenti risultano più saldi se sono uniti a una visione generale della persona-allievo, non separando conoscenze-competenze-tratti di personalità come la costanza nel lavoro, la stabilità emotiva, la capacità di stare con gli altri, l’apertura mentale ecc. Non si tratta di aggiungere una nuova «materia», né di mettere in pagella un voto sulla capacità di autocontrollo o sulla coscienziosità degli allievi, né tanto meno di introdurre surrettiziamente un condizionamento a conformarsi alle richieste della società. La preoccupazione, tutta educativa (se si vuole che la scuola continui ad essere educativa), è quella di aiutare i docenti a porre maggiore attenzione a sviluppare, parallelamente alla trasmissione di conoscenze, le attitudini che possono contribuire alla crescita della persona nella sua interezza, magari con un occhio non distratto alle obiettive difficoltà che l’educazione dei ragazzi e dei giovani pone oggi alla generazione adulta (bullismo, comportamenti a-sociali, videodipendenza, precoce introduzione all’uso di sostanze).
Queste competenze si sviluppano nella prima infanzia, nella famiglia e con gli amici, creando disuguaglianze di cui la scuola deve essere consapevole perché ha il compito di attenuarle o rimuoverle, collegando equità e qualità. In tutto il mondo, l’attenzione alle competenze non cognitive porta alla diminuzione degli abbandoni scolastici, promuovendo, per esempio, l’autostima e la motivazione ad apprendere specialmente nei ragazzi poco brillanti o reduci da precedenti fallimenti. Sostenere che la cultura possa essere acquisita in modo libero e spontaneo e tutto sommato misterioso (una specie di nostalgia gentiliana) spinge alla deresponsabilizzazione, perché l’apprendimento nasce all’interno di una relazione che punta sulla curiosità, sul desiderio di esplorare, sull’atteggiamento positivo nei confronti degli altri e delle cose, impadronendosi contemporaneamente degli strumenti per farlo: il linguaggio, il pensiero logico e matematico, la conoscenza delle scienze, delle arti, del pensiero storico e filosofico.
Il buon senso di molti insegnanti ha sempre collegato il risultato all’impegno e alle caratteristiche personali, riconoscendo così l’esistenza di fattori non quantificabili che però incidono sugli apprendimenti. E oggi, quando due anni di isolamento hanno minato la fiducia dei ragazzi in sé stessi e negli adulti, serve una scuola capace di far crescere la capacità critica e cioè progettuale e creativa dei ragazzi non solo passando dalle materie scolastiche.
di Giorgio Vittadini e Giorgio Chiosso (fonte: Corriere della sera – 02.02.2022)