Dino Buzzati, oltre che per i celebri Il deserto dei Tartari, ma anche Bàrnabo delle montagne, Il segreto dei Bosco Vecchio, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Un amore…, è noto, soprattutto, come autore di tantissimi racconti, la maggior parte dei quali confluiti nelle raccolte I sette messaggeri (1942), Paura alla Scala (1949), Il crollo della Baliverna (1954), Sessanta racconti (1958), Il colombre (1966), La boutique del mistero (1968), Le notti difficili (1971).
Molti dei suoi racconti traggono spunto da fatti di cronaca. La tipica costruzione del racconto buzzatiano ha un incipit cronachistico: nome, cognome, professione, età del personaggio. Poi lo ‘straordinario’, l’insolito si sviluppano a partire da un’ambientazione quotidiana. Da ricordare tra i tanti “Sette piani”, “Qualcosa era successo”, “Eppure battono alla porta”, “La frana”, “Direttissimo” … L’iniziale ancoraggio al piano del reale dà modo a Buzzati di passare poi a un altro piano, parallelo e ancora più profondamente reale, perché riguarda il destino dell’uomo, la sua finitezza, le sue miserie (“All’idrogeno”); le sue chiusure (“Il corridoio del grande albergo”). Uno dei più importanti è “Il borghese stregato” («Giuseppe Gaspari, commerciante in cereali, di 44 anni, arrivò un giorno d’estate al paese di montagna dove sua moglie e le bambine erano in villeggiatura…».
Importa notare che, anche laddove l’impianto è favolistico, ad esempio ne “L’uccisione del drago”, il racconto parte da un piano apparentemente plausibile, supportato da elementi a suffragare il fatto, ma vira poi all’allegorico-moralistico (da leggere ad esempio “I reziarii”). Quasi sempre i racconti di Buzzati hanno un intento di moralità: denunciano la crudeltà degli uomini nei confronti di altri uomini, come ne “I vecchi”, “Una cosa che comincia per elle”, “Non aspettavano altro”; o degli uomini sugli animali, ad esempio ne “L’uccisione del drago”, “Vecchio facocero”; o l’ipocrisia degli uomini in generale, come ne “Il cane che ha visto Dio”; dei medici, in “Sette piani”; o dei giornalisti, ne “La frana”; la denuncia della menzogna, come ne ”Il sacrilegio”. Buzzati mette in risalto la non comunicazione per l’incapacità di ascolto; la superficialità; l’egoismo (si legga, ad esempio, “Qualcosa era successo”); il non accorgersi del male, come in “Spaventosa vendetta di un animale domestico”. Emblematico è anche “Il crollo della Baliverna”: se in realtà una causa minima produce grandi effetti, nella giustizia avviene il contrario, poiché una terribile strage non produce alcun effetto: nessuno è o si sente veramente colpevole. Il crollo è il simbolo di un crollo di certezze, quelle di poter prevedere e governare la realtà.
Il punto è che Buzzati indica sempre vie altre rispetto allo sguardo unico e acquietante di chi si accontenta di aver visto tutto, nitidamente, una volta per tutte. Vuole depistarci da una lettura lineare e logica del racconto (come in “Una goccia”), mira a non lasciarci nell’illusoria ‘spiegazione’ univoca del mondo. Certo, servono a rendere alcuni suoi racconti assurdi, ma lui non vuole dirci che il mondo è assurdo, bensì allertarci, farci sospettare che ci sia un di più di significato, vuole coinvolgerci nel suo inquieto e vivissimo interrogare il mistero. Ad esempio, nel racconto “Notte d’inverno a Filadelfia” ricostruisce un accaduto da una prospettiva che mai si saprà; in “Dolce notte” ci introduce in un modo parallelo la cui prospettiva ci sfugge.
In alcuni racconti Buzzati fa rientrare il capovolgimento delle situazioni ricorrendo all’ironia e al paradosso. Attraverso descrizioni esasperate di situazioni all’estremo del verosimile, ci fa vedere come realmente siamo. Perciò egli elabora immagini fantastiche che ci portano apparentemente al di fuori della realtà, ma in sostanza ancora più nel cuore della realtà.
Vediamo come nell’ironia di Buzzati non c’è cattiveria, semmai pietà, nostalgia di bontà, perché lui sa bene quanto complesso è l’uomo. Ecco perché il suo pessimismo sfocia a volte nell’umorismo, perché così ci permette di sorridere di fronte a un «divertente e curiosissimo fenomeno: la vita». A volte, insomma, ci ‘sorride su’.
Pungente ironia si legge nel racconto “La creazione”. In questo caso il capovolgimento consiste nel soprannaturale calato nel quotidiano. Racconta dell’opera di un Creatore, simile a un direttore d’azienda d’altri tempi, di quelli che hanno sempre tutto ‘sotto controllo’, ma il quale forse per pigrizia o compiacenza, accoglie il suggerimento di un angelo (un collaboratore del direttore?) a tal punto seccatore da convincerlo ad inserire un nuovo elemento nella sua opera armonica e bella.
Un esempio di ironia amara e di alternati punti di vista si trova ne “Il corridoio del grande albergo”. Forse Buzzati ci sta dicendo che siamo tutti ipocriti, e/o più simili di quanto non crediamo: qui l’ipocrisia è esemplificata dal senso del pudore, ma potrebbe essere riferibile ad altro: all’ipocrisia in generale, al nostro crederci “speciali”, unici e perfetti, immuni dalle ‘zozzure’ ecc., ma anche diffidenti, pronti a vedere nemici ovunque, e a difenderci dagli altri al punto di cadere nel ridicolo.
Ne “Il cane che ha visto Dio” si legge un esempio di ironia bonaria, anche se sottile: il capovolgimento della narrazione sta nel finale, perché è sostenuta dalla suspense, per cui è bene svelarlo soltanto con la lettura per intero del lungo racconto.
Se le situazioni sono ancora più decisamente portate all’estremo del verosimile si parla di paradosso (affermazione sorprendente o incredibile proprio perché contraria alla verosimiglianza). Ma attenzione, mai il paradosso coincide in Buzzati con l’assurdo.
Si veda l’esempio di “Cacciatore di vecchi”, sul quale scrive l’autore stesso: «Le cose che ho cercato di esprimere (anche se apparentemente si presentano al contrario della realtà) non sono affatto assurde». Afferma ancora Buzzati: «Questi giovani che vanno di notte a caccia di vecchi e che non si accorgono che nel giro di una notte diventano vecchi anche loro. La mattina sentono l’urlo delle generazioni nuove che arrivano per farli fuori […] questo non è assurdo. È un concetto dilatato o compresso al massimo per cavarne fuori il significato massimo».
Infine, due esempi di deliziosa ironia tipicamente buzzatiana.
In “Invenzioni”: qui l’ironia è tutta rivolta alla società degli anni Sessanta: sulla medicina, sul modo dell’Arte, sulle moderne tecnologie: sono tutti tipici motivi buzzatiani in cui lui l’autore fa rientrare la sua capacità di capovolgimento delle situazioni.
Ne “Il lasciapassare”, infine, Buzzati fa lo sberleffo a chi vuole incasellare, etichettare, classificare… perfino l’Arte.
L’Associazione Internazionale Dino Buzzati
L’Associazione Internazionale Dino Buzzati è stata costituita il 19 dicembre 1988 a Feltre, dove ha la sua sede legale, e conta soci sparsi nei cinque continenti, nonché un bureau francese a Bordeaux. Ha lo scopo di promuovere e coordinare ogni iniziativa che possa contribuire allo studio e alla diffusione dell’opera di Dino Buzzati. La sua attività è orientata verso tre obiettivi principali: 1) ricerca e approfondimento critico ad alto livello; 2) raccolta e catalogazione di materiali bibliografici e documentari; 3) divulgazione. Tali obiettivi vengono realizzati mediante l’organizzazione di convegni, mostre, spettacoli, conferenze, concorsi per studenti e studiosi, assegnazione di borse di studio, nonché attraverso la realizzazione di pubblicazioni e la consulenza prestata ad altri enti e associazioni che promuovano iniziative di interesse buzzatiano. Organo scientifico dell’Associazione, con il compito di curare tutti gli aspetti dell’attività che riguardano la ricerca, la catalogazione del materiale librario, documentario e audiovisivo e la consulenza bibliografica, è il Centro Studi Buzzati, che ha sede a Feltre e assegna ogni anno borse di ricerca a laureati meritevoli.
A proposito di letteratura per ragazzi segnaliamo il sito del Centro per il libro e la lettura, un istituto del Ministero per la Cultura creato nel 2007 per incentivare la lettura soprattutto tra i più giovani e nelle scuole a partire dal riconoscimento del suo valore sociale.
Esso offre informazioni su bandi e progetti e un ricco repertorio di siti sull’argomento.
Giovedì 1 dicembre 2022, presso la scuola Virgo Carmeli di Verona, Marcello Bramati, docente di Lettere in scuola statale e presso il liceo paritario Faes di Milano e giornalista di Panorama, e Lorenzo Sanna, docente di Lettere presso il liceo paritario Faes, hanno presentato il libro La scelta più giusta. Come decidere la scuola superiore. Una guida per genitori e studenti inerente, Mimesis Edizioni 2022.
Venerdì 18 novembre presso l’Aula Magna delle Scuole Alle Stimate si è tenuto l’incontro inerente l’attuale conflitto tra Russia e Ucraina.
Di seguito il link per accedere alla registrazione dell’intervento del prof. Giuseppe Ghini, ordinario di slavistica presso l’Università di Urbino, ci aiuterà a scoprire quali siano le vere basi storiche e politiche di tale conflitto.
È un progetto, che ha l’intenzione di narrare il “vero Gesù”, quello raccontato dai Vangeli, ma si propone anche un avvicinamento ai personaggi della storia della salvezza, costruendo delle backstories significative per molti di loro. È quindi una storia fortemente plurale.
The Chosen si ferma molto a lungo sugli amici di Gesù. Sono visti da vicino e in modo intimo. Ciò ci consente di metterci al loro posto e di ritrovarci in più di un personaggio! C’è un momento che fa da faro su tutta la serie. Gesù cerca di incoraggiare Maria di Magdala dopo una “caduta”, dicendole che l’ha riscattata, ma lei Gli risponde: “Io mi fido di te, non mi fido di me!” Sarà interessante vedere come evolverà il loro rapporto…
Gesù, interpretato da Jonathan Roumie (un attore cattolico di padre egiziano), rimane comunque il protagonista: ha un calore umano, una tenerezza, e a volte un senso dell’umorismo e una gioia che lo rendono molto amabile.
Paese: Francia 2021– Durata: 111 minuti – Regia: Sian Heder
Non poco è stato lo stupore per i tre premi Oscar (tra i quali il più importante: quello di miglior film) assegnati lo scorso 28 marzo alla pellicola francese CODA (acronimo di Child Od Deaf Adults, figlio di adulti sordi) I segni del cuore. Stupore perché questo bel film, nella sua semplicità, ha sbaragliato i ben più blasonati concorrenti.
Il film è il rifacimento della pellicola francese del 2014 La famiglia Belier. Una storia molto particolare. Una famiglia di pescatori del Massachussets, i Rossi, è composta di quattro persone: Frank e Jackie, i genitori; Ruby, la sorella maggiore; Leo, il fratello minore. A parte Ruby, gli altri componenti della famiglia sono sordomuti, quindi la ragazza si trova ad essere il loro tramite con il resto del mondo: sente, parla e riesce a comunicare con la lingua dei segni. Questo la rende di fondamentale importanza per la vita stessa di tutti i membri: nel lavoro sul peschereccio come negli altri contesti quotidiani.
Come tutte le adolescenti ha un grande sogno. Sta terminando la scuola e vorrebbe andare al college per coltivare la sua passione: il canto. Divisa tra l’affetto e l’aiuto che può dare alla sua famiglia, la realizzazione di questo suo grande desiderio e un amore che sboccia, Ruby deve fare delle scelte importanti, farle capire alle persone a lei più care che, però, non possono apprezzare il suo grande talento musicale.
Pur con una trama non originale e a tratti scontata, il cast è davvero superlativo: la giovane protagonista Ruby, interpretata da Emilia Jones, il padre Frank (interpretato dall’attore sordomuto Troy Kotsur, che ha visto l’Oscar come miglio attore non protagonista), la madre Jackie (interpretata dall’attrice sordomuta Marlee Matlin) e il fratello Leo (interpretato da Daniel Durant). Affiatati, convincenti e capaci di far sentire il pubblico coinvolto nella storia. Coinvolgimento che, da una parte permette di capire alcune delle difficoltà che le persone disabili possono incontrare quotidianamente, dall’altra fanno quasi sperimentare (per alcuni istanti) questo stesso disagio: la scelta registica, infatti, di far assistere ad alcune scene in assenza di audio mette gli spettatori ancora più nelle condizioni di empatizzare con i protagonisti.
Empatia che permette di percepire la bellezza della famiglia, costruita su un amore ricco di sfaccettature e sfumature (quello coniugale in tutti i suoi diversi aspetti, quello dei genitori per i figli e quello fraterno), un amore che fa da base solida e forza prorompente per affrontare ogni difficoltà.
Il film, facendo i conti con diversi elementi davvero interessanti come la disabilità, la famiglia, amicizie e amori, non è esente da difetti cui fare attenzione se utilizzato in chiave educativa.
In primo luogo, il linguaggio un po’ volgare urta un po’ la sensibilità degli spettatori.
Inoltre, come quasi ogni film francese che si rispetti, non mancano allusioni o discorsi espliciti in ambito sessuale. Se per i due giovani questa dimensione viene vissuta con un po’ di libertà (specchio della situazione attuale), si può sottolineare come dato positivo il fatto che nei genitori tutto questo ambito è espressione fisica di un amore più profondo che fa da collante per la famiglia stessa.
Queste sottolineature rendono consigliabile l’utilizzo della pellicola più con una secondaria di secondo grado che non con una di primo grado.
Prima della partenza per il mare entro in libreria con il proposto di comprare un libro che, ahimè, non c’è; mentre mi accingo cheto cheto ad andare via, però, il mio sguardo si posa su un “timido” libricino adagiato sul bancone. A primo acchito non attira la mia attenzione, sarà per quella semplice copertina beige, abbellita solo da una piccola figura geometrica a righe colorate. Una veste sicuramente poco appariscente rispetto agli abiti pomposi di molti romanzi di moda. La copertina tuttavia mi ammicca con un titolo un po’ strano, direi “ossimorico”: “L’utilità dell’inutile”. Che strano! Mi avvicino, lo afferro e, sopraffatto dalla curiosità, cerco di conoscerlo meglio: il libro suscita in me una profonda simpatia, forse per le recensioni di noti intellettuali (non solo italiani), forse per l’accattivante presentazione dei contenuti, forse per l’alto profilo intellettuale dell’autore Nuccio Ordine. Lo compro e decido di leggerlo.
Devo ammettere che l’esperienza è stata veramente piacevole, costruttiva e proficua, tant’è che con vivo entusiasmo ho subito consigliato la lettura ai miei amici.
Non si tratta di un classico romanzo di formazione, né di una raccolta di racconti, ma di un fortunato saggio “manifesto” pubblicato dalla casa editrice Bompiani (la prima edizione è del 2013) e caratterizzato dalla raccolta di riflessioni aventi per oggetto i temi del sapere, della conoscenza e della ricerca. Attraverso una serie di accattivanti e limpide argomentazioni, non prive di piacevoli incontri con i volti noti e meno noti della filosofia, della letteratura e anche del sapere scientifico, Nuccio Ordine riesce a legare le “riflessioni sparse” (così le cita nella Nota all’edizione italiana del 2022) da una tesi di fondo: per fronteggiare il rischio che la nostra società degeneri nella “dittatura del profitto”, del possesso, dell’avere e, soprattutto, dell’utile, occorre coltivare un sapere che sia disinteressato, gratuito e, appunto, inutile. Probabilmente all’homo oeconomicus del XXI secolo, che si tratti di un alunno, di un impiegato, di un operaio o un dirigente, questi temi possono sembrare degni di una chiacchierata di nicchia tra pochi intellettuali. Insomma: nella società dei consumi, della produzione e della velocità, solo il “canto delle sirene” del possesso e dell’utile sembra essere in grado di ammaliare l’uomo, distraendolo dalla contemplazione della propria dignità.
A che serve, in effetti, studiare latino, filosofia o letteratura? Oppure, a cosa giova spendere immensi capitali per finanziare la ricerca astronomica? In periodo di crisi, inoltre, non sarebbe utile finanziare prevalentemente le attività produttive? Insomma: a cosa serve la cultura “inutile”? Dà da mangiare? Non sarebbe più utile finanziare la ricerca scientifica applicata e mirata al raggiungimento di specifici obiettivi? Domande e dubbi legittimi, in quanto “nell’universo dell’utilitarismo – ironizza l’autore – un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro”, ma se volgiamo lo sguardo al quadro della storia della civiltà e ai suoi progressi immateriali, non si può negare indubbiamente il ruolo che il sapere disinteressato ha avuto per la creazione non solo di un orizzonte civile, ma anche del pensiero critico! I temi dell’amore, della bellezza, della verità e della tolleranza, per esempio, non possono affermarsi se non grazie a quei saperi che molti, purtroppo, continuano a snobbare, perché, forse, meno utili di una chiave inglese. Oggi spesso si parla di crisi, tuttavia sappiamo che essa è una costante nella storia dell’uomo, e come insegna la parola stessa (κρίνω significa “distinguere”, “giudicare”), in tali momenti occorre fare delle “scelte”. Molto probabilmente la mente pragmatica e utilitaristica dell’uomo moderno in queste situazioni pensa a tutto ma non alla cultura disinteressata, eppure già nel 1848 un celebre scrittore (Victor Hugo), rivolgendosi all’Assemblea Costituente, spese parole che oggi suonano attuali: per uscire da una crisi non si devono fare scelte orientate solo al benessere “materiale” ma soprattutto ad accendere le “fiaccole delle menti”. Lo scrittore francese, battendosi contro i tagli alla cultura, usa espressioni eloquenti, come “pane del pensiero” e “dello spirito”, in riferimento all’istruzione che, proprio in tempo di crisi, pur se apparentemente inutile e non di prima necessità, deve essere coltivata per uscire dall’ignoranza, dalle logiche utilitaristiche del profitto e del potere e “risollevare lo spirito dell’uomo”, educandolo al bello e alla consapevolezza della propria dignità di essere umano (interessanti, a tal riguardo, i riferimenti non solo ai classici, come Seneca, ma anche ai grandi umanisti italiani, quali Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti).
A questo punto, però, occorre fare una precisazione: in tali riflessioni non si insinua affatto l’idea di contrapporre le humanae litterae ai saperi scientifici. Anzi! Tale dicotomia è superata in quanto, anche grazie al contributo di un illuminante saggio di Abraham Flexner del 1937 e riportato in appendice, la ricerca scientifica apparentemente “inutile” (ispirata alla curiositas e non a obiettivi meramente utilitaristici) ha prodotto con il tempo e in modo inaspettato grandi risultati. Forse molti non sanno, per esempio, che le invenzioni di Guglielmo Marconi hanno un grosso debito nei confronti delle ricerche sulle onde elettromagnetiche svolte da James Clerk Maxwell e Heinrich Rudolf Hertz, i quali erano lontani dall’idea pratica di costruire una radio! Diciamo che Marconi è stato un abile tecnico che ha sfruttato delle conoscenze pregresse per fini pratici. Alcune grandi scoperte, quindi, affondano le loro radici in ricerche scientifiche che sono state alimentate solo dall’apparente inutilità dell’indagine.
A cosa serve la cultura, allora? Per servire a qualcosa, non deve essere utile.
A tal riguardo penso a una famosa sequenza del film “Quo vado” del 2016 che narra la bizzarra storia di un uomo ancorato al posto fisso. In una scena ambientata durante la fanciullezza del protagonista, un insegnante rivolge a lui e ai suoi compagni la classica domanda “Che vuoi fare da grande?” (si badi al verbo “fare”, oggi predominante rispetto ad “essere”). Le risposte sono quelle che noi, genitori e non, ci possiamo immaginare: chi il veterinario, chi il musicista, chi lo scienziato, fino a quando Checco, il protagonista, con ingenuità risponde di volere il posto fisso. Ho volutamente riportato questo episodio in quanto penso che rispecchi una parte della nostra società, la cui istruzione spesso è intesa esclusivamente come strumento atto a creare futuri lavoratori (si pensi alla terminologia che la scuola sta importando dal modo aziendalistico, come “competenze”, “strategie”, “obiettivi”, per non parlare degli infiniti acronimi). Tuttavia, come ricorda Nuccio Ordine, “far coincidere l’essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo”, in quanto “in qualsiasi uomo c’è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere”. Questo “qualcosa di essenziale” consiste nel raggiungimento del “bene comune”, che può essere garantito solo uscendo dalla dimensione individualistica e rivendicando principi universalmente validi, come la solidarietà, la libertà, la giustizia, che solo da un sapere disinteressato possono essere generati.
Per usare una formula non mia ma di Edmondo De Amicis, la scuola permette all’uomo di vincere contro la barbarie e la vittoria consiste, per l’appunto, nella civiltà umana.
In questa newsletter segnaliamo alcuni portali utili per orientarsi nel mondo, sempre più vasto, delle serie TV (oltre che dei film).
Sono risorse pensate per genitori ed educatori per metterli in grado di restare aggiornati su tutte le ultime novità e formarsi un primo giudizio sulla base delle recensioni, i cui criteri di giudizio non riguardano solo gli aspetti tecnico-artistici, ma anche il contenuto valoriale dei diversi prodotti. Sono anche suggeriti dei possibili temi di discussione a cui le serie si prestano, e che possono essere affrontati all’interno di un dialogo educativo.
Si dice ormai sempre più spesso che, mentre il cinema è stato il mezzo del XX secolo, le serie Tv lo saranno per il XXI. Parliamo della modalità in cui la maggior parte delle persone –il cosiddetto mainstream- fruiscono le storie più emozionalmente coinvolgenti, che quindi hanno anche una decisiva carica valoriale e di conoscenza e mappatura del mondo.
In realtà la situazione è ovviamente un po’ più complessa perché i vari mezzi non si annullano l’uno con l’altro, ma si ritagliano spazi e anche, in modo molto forte, interagiscono fra loro in modi molto diversi. Ho recentemente ripubblicato in due volumi (L’adattamento da letteratura a cinema, Audino) un testo che aveva avuto una prima edizione nel 2004 e che parlava di come il cinema si fosse nutrito e si nutrisse abbondantemente di romanzi, libri biografici, opere teatrali, fumetti, ecc. In realtà oggi la situazione è molto articolata: abbiamo a che fare con storie che nascono magari da un fumetto e diventano poi un film, e poi una o più serie televisive, romanzi, videogiochi, graphic novels, podcast, serie web, e così via… Abbiamo a che fare, cioè, con mondi narrativi che prendono diverse forme, e che si reinventano, mantenendo alcuni caratteri di personaggi e storie e cambiandone altri, a seconda dei diversi mezzi con cui hanno a che fare. Quanti Pinocchio, a partire dall’originale collodiano, abbiamo visto al cinema, in TV, in musical, in cartoni animati, a fumetti, quanti La bella e la bestia, quanti Mulan, quanti Sherlock Holmes? Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito….
Ognuno di questi prodotti ha un investimento creativo notevolissimo: ci sono team di sceneggiatori assai preparati e agguerriti che lavorano con grande intensità per far approvare i loro progetti dai grandi commissioner, e poi, una volta che hanno ottenuto la luce verde, per mettere a punto macchine narrative che “prendano” lo spettatore e non lo lascino più fino alla fine dell’ultima puntata. L’Italia in questi ultimi anni è cresciuta, anche da questo punto di vista, e ci sono stati prodotti italiani che hanno avuto la forza di conquistare i mercati internazionali. Non pensiamo solo a serie nate già internazionali (quindi con grandi investimenti supportati da più Paesi) come le tre stagioni sull’epoca rinascimentale di Medici, o la serie sul mondo della finanza trasmessa da Sky, Diavoli, ma pensiamo anche al grandissimo successo in Patria e all’affermazione internazionale di serie come Doc – Nelle tue mani, e Blanca, entrambe nate come serie italiane, ma che poi sono state vendute in molti Paesi del mondo.
Certamente il panorama della produzione di serie sta esplodendo: grazie all’avvento di nuovi produttori come Netflix, Amazon, DisneyPlus, Apple, a cui si sono aggiunti recentemente ParamountPlus e HBOMax (gruppo Warner/Discovery), in pochi anni è più che raddoppiata la produzione americana (che era già la più grande del mondo) di serie Tv, come pure la produzione italiana è molto cresciuta. Ai fruitori di tutto il mondo arriva inoltre la possibilità di godere, con un semplice abbonamento che costa relativamente poco, una grandissima quantità di prodotti non solo americani, ma di molti Paesi europei, e asiatici e latino-americani… Il successo mondiale della coreana Squid Game, per esempio, è avvenuto in tempo brevissimo. Siamo quindi di fronte a un panorama sterminato, in cui è difficile orientarsi. Da questa constatazione è partito recentemente, da una collaborazione fra Università Cattolica e l’associazione Aiart, un sito rivolto in particolare a insegnanti, educatori, famiglie, che si chiama proprio Orientaserie (www.orientaserie.it ) e che può essere un buon punto di riferimento. Cerchiamo di recensire le serie più diffuse, soprattutto fra il pubblico di adolescenti e preadolescenti, e di segnalare serie positive e interessanti come Downton Abbey, The Crown, The English Game, Cobra Kai, o la coreana Pachinko, un gioiellino prodotto da Apple… Per chi è interessato a delleanalisi di serieTv, anche da utilizzare didatticamente, sono inoltre usciti un anno fa due volumi di Storia delle serie Tv (Audino), curati dal sottoscritto insieme a Cassandra Albani e Paolo Braga.
A Orientaserie, nato nel 2020quest’anno abbiamo affiancato un altro sito analogo, dedicato ai film, e realizzato in collaborazione con le edizioni Ares: www.scegliereunfilm.it . L’idea è anche qui quella di segnalare storie interessanti, che possano prestarsi a un uso didattico o di complemento didattico anche per le scuole.
L’Aiart milanese (associazione di spettatori, oggi lo statuto parla di “cittadini mediali”), dal canto suo ha sviluppato una serie di iniziative di formazione sulle serie Tv per studenti e docenti delle scuole che possono essere esportate anche in altri territori: alla fine si tratta di una formazione che è ultimativamente antropologica e morale, perché le serie Tv, come tutti i racconti e soprattutto i racconti “grandi”, sono una grande domande su quali valori guidano la nostra vita, che cosa possiamo o dobbiamo sacrificare in vista di beni più grandi… Domande importantissime, e ovviamente non tutte le risposte sono giuste, o equivalenti.
Interessante, sempre a proposito di formazione, anche il concorso “Opera Prima”, promosso da qualche anno dall’Istituto Toniolo, ente fondatore dell’Università Cattolica, per scuole di tutta Italia (https://operaprima.info/ ). Si chiede ai ragazzi di scrivere un racconto o un soggetto per un film o una serie televisiva. Per capire i meccanismi di questi prodotti, perché ci attraggono, cosa ci dicono, come ce lo dicono, è effettivamente molto utile e interessante provare a mettersi dal punto di vista del creatore, di chi le scrive: provare quindi a idearne uno o una, almeno a scrivere un soggetto. Scrivere una serie richiede competenze specialistiche molto avanzate, che si formano con tempo e pazienza, ma già provare a iniziare a “buttare giù” una idea e qualche linea guida non è solo un esercizio di fantasia e creatività, ma può anche essere un modo per iniziare a entrare nella “stanza dei bottoni” di questi racconti che ci avvincono e ci portano con loro.
Armando Fumagalli
Ordinario di Teoria dei linguaggi e Direttore del Master in International Screenwriting and Production presso l’Università Cattolica di Milano.
Le serie televisive non sono una novità nel panorama televisivo ma, come la tv e il cinema, anche loro si sono evolute nel tempo e oggi, confrontando le proposte attuali con le produzioni del passato (da “La Signora in giallo” a “A Team” che ancora si possono godere su qualche piattaforma), è evidente che il mondo delle fiction è molto cambiato e certamente è in grado di influenzare gli spettatori e raccogliere l’interesse anche di grandi finanziatori.
La prima domanda che mi piace porre a lei che è direttore responsabile di “orientaserie.it”, sito che recensisce e valuta centinaia delle attuali serie (italiane ma, soprattutto, straniere) è: come classificherebbe le serie tv attuali? Al di là dell’età cui sono rivolte, riuscirebbe a raggrupparle per tipologia? Quale, secondo lei, ha maggiore impatto sui ragazzi?
Le serie tv attuali sono sempre più specializzate riguardo al pubblico cui si rivolgono. Le piattaforme in streaming e le tv a pagamento in generale rendono possibile rivolgersi a pubblici di nicchia e realizzare prodotti specifici. Un esempio sono i teen drama, ovvero le serie tv focalizzate sull’adolescenza e rivolte agli adolescenti: si tratta di un genere in espansione con diversi prodotti di successo, che in realtà per le tematiche trattate richiederebbero un pubblico adulto (penso a prodotti come Tredici, Euphoria e in Italia Baby o Skam). Un altro genere di grande impatto sui ragazzi è quello degli anime, i disegni animati tratti dai fumetti (manga) giapponesi, che riscuotono un crescente successo. Tra i prodotti più visti ultimamente possiamo citare L’attacco dei giganti e Demon Slayer, due anime molto interessanti per le tematiche trattate: la strenua lotta tra bene e male, proposta con un’animazione mozzafiato, punteggiata da scene molto violente che ne fanno sconsigliare la visione sotto i 16 anni.
Restano poi valide le tradizionali distinzioni tra serie crime, d’avventura, a tema supereroi, medical drama e period drama (serie a tema medico e serie ambientate in altre epoche storiche), epopee familiari (come This is us, Succession o la più recente e molto interessante Pachinko) e miniserie sui temi più disparati in un mercato che per il momento è ancora in espansione, come dimostra il recente sbarco nel nostro Paese del servizio Paramount+.
Cosa vi ha spinto a costruire un sito, tra l’altro molto ricco di contenuti e spunti, esclusivamente dedicato alla recensione di serie televisive e non alle uscite cinematografiche, ad esempio, o programmi tv?
Le serie sono uno dei contenuti più popolari tra gli adolescenti, e spesso invece genitori, insegnanti, educatori ne ignorano storie e personaggi. Sono storie con le quali i ragazzi restano in contatto varie ore al giorno e che contribuiscono a formarne il giudizio morale e a orientarne lo sguardo sulla realtà. Ogni storia educa ed è importante capire come lo fa: quale idea di mondo, di relazione, di persona presuppongono le serie tv più popolari soprattutto tra gli adolescenti? Abbiamo così pensato, come Aiart, associazione cittadini mediale, la cui sezione milanese presiedo, e in collaborazione con il professor Armando Fumagalli, docente di Semiotica e direttore del Master in International Screenwriting and Production dell’ Università Cattolica di Milano, di creare Orientaserie (www.orientaserie.it) un sito che fornisce a genitori ed educatori le informazioni essenziali per comprendere i temi più rilevanti trattati dalle serie e poter avviare un dialogo con i ragazzi. Le recensioni sono scritte da studiosi di media e sceneggiatori: l’obiettivo è fornire una valutazione non soltanto estetica ma che sia in grado di evidenziare gli aspetti educativi presenti in ogni prodotto seriale.
Il successo di un film deriva certamente anche (o soprattutto) dal cast. Spesso nelle serie gli attori sono invece, almeno all’inizio, quasi sconosciuti e forse la qualità della recitazione non è allo stesso livello delle grandi produzioni cinematografiche. Cosa porta il pubblico a seguire le serie tv? Cosa distingue una serie riuscita da una no?
A lungo la qualità dei prodotti cinematografici non è stata paragonabile a quella delle serie tv. Da qualche anno però le cose stanno cambiando: la qualità media delle produzioni seriali è cresciuta e non è raro che grandi attori sempre più spesso recitino in tali prodotti. Anche i registi cinematografici cominciano a cimentarsi con la serialità.
L’artefice del successo di una serie non è però, in genere, il regista, che può cambiare nelle diverse puntate e stagioni, un ruolo preponderante è quello degli sceneggiatori. A idearne e seguirne ogni aspetto è lo showrunner, vera “anima” di una specifica serie, che ne armonizza tutti gli elementi. Un esempio è Shonda Rhimes, showrunner della serie-cult Grey’s Anatomy e, tra le altre, della recente Bridgerton.
Un motivo del successo di pubblico delle serie è certamente legato alla possibilità di seguire nel tempo le storie dei personaggi, di partecipare alla loro evoluzione episodio dopo episodio e stagione dopo stagione. Se si tratta di un prodotto scritto bene lo spettatore ha la possibilità di immedesimarsi nei personaggi e di affezionarsi alle loro vicende, molto di più di quanto gli sarebbe consentito da un film, che ha una durata decisamente inferiore.
L’influenza che una serie televisiva esercita sugli spettatori sembra essere maggiore di quello dei film. Guardando le serie tv americane, molte generazioni hanno fatto loro usanze e mentalità che non appartengono alla nostra storia; un esempio tra tutti è la festa di Halloween, che ha soppiantato nella nostra cultura la festa di Ognissanti. Il mondo della produzione è certamente cosciente di questa potenza: come la sfrutta? Lei vede il tentativo/pericolo di guidare la sensibilità popolare attraverso serie create ad hoc?
Le storie che le serie tv ci raccontano non sono soltanto intrattenimento. Come si diceva, attraverso quei racconti passa una precisa visione del mondo. In qualche caso questo potrà portare a una positiva apertura verso Paesi e culture che non conosciamo: pensiamo ad esempio ai prodotti seriali provenienti dai Paesi del Medio Oriente, come la delicata saga di Shtisel, ambientata in una comunità di ebrei ortodossi a Gerusalemme, o i cosiddetti k-drama, che offrono uno sguardo su un Paese molto lontano da noi per lingua e tradizione come la Corea del Sud. E questo è un effetto senz’altro positivo della crescente produzione e offerta di serie tv. Occorre però anche evidenziare come in molti altri casi i contenuti di tali prodotti presentino come diffusi e normali comportamenti che invece non lo sono affatto, con l’effetto di attutirne il possibile giudizio negativo da parte di chi guarda.
Nel sito che lei cura, tra le serie italiane consigliate, ne compaiono molte della Lux Vide, una casa produttrice che si distingue dalle altre per la scelta di soggetti, religiosi e non, che rispecchiano molto la cultura popolare italiana. Qual è il segreto del successo delle serie Lux Vide (Don Matteo, Non dirlo al mio capo, Che Dio ci aiuti, Blanca…)?
Le serie dai contenuti più scabrosi e trasgressivi, come alcune di quelle che abbiamo menzionato (Tredici o Euphoria o l’italiana Baby) fanno molto discutere e creano interesse intorno ad esse, dando l’impressione che siano il prodotto preferito dal pubblico. Ma se poi si guardano i dati di visione si constata che non sempre è così. Il pubblico continua a preferire, nella maggior parte dei casi, serie dai contenuti più rassicuranti e che rispecchiano una realtà meno cupa e negativa, ma dove c’è anche uno spazio per la speranza. Questo spiega in gran parte il buon riscontro delle serie da lei citate, cui aggiungerei anche Doc- Nelle tue mani, un successo internazionale.