Giu 19, 2023 | Articolo di fondo, Home, Newsletter
Insegnare musica, come avviene per ogni cosa che si desidera trasmettere ad altri, richiede un desiderio profondo di condividere qualcosa di bello e di grande, con la disponibilità ad impegnarsi per questa causa. Tutto questo viene solitamente concentrato in un’espressione molto più affascinante, anche se un po’ fuori moda: “vocazione” all’insegnamento.
Negli ultimi anni questa vocazione deve essere più convinta rispetto al passato. Non mi riferisco tanto ad un passato remoto, quando chi voleva imparare a fare il musicista si metteva volontariamente alla “scuola” di un altro musicista, un po’ come facevano altri giovani con qualsiasi altro artigiano, per apprendere le tecniche del mestiere, i segreti, le innovazioni, la capacità di risolvere i problemi legati alla pratica dell’arte… Nel nostro passato più prossimo, invece, da diversi anni, la musica si insegna anche nella scuola dell’obbligo, per cui l’unico tipo di approccio proponibile, a mio avviso, è quello di chi si gioca ogni giorno la sua vocazione all’insegnamento tentando di incuriosire, destare un interesse, far provare bambini e ragazzi ad avvicinarsi al complesso ed inquieto oceano della musica per assaggiarne qualche goccia.
Nella scuola dell’obbligo, questa è sicuramente un grande opportunità: credo che la musica possa avere un ruolo importantissimo nel nostro sistema educativo/scolastico, come disciplina e come forma d’arte.
Come disciplina la musica insegna, soprattutto attraverso la pratica, le grandi virtù della costanza, della pazienza, della fatica per arrivare ad ottenere un risultato concreto ed oggettivo; bisogna sottoporsi ad un lavoro intellettivo/manuale che può essere quantitativamente più o meno fruttuoso a seconda del talento e della predisposizione di ogni persona (che non è uguale per tutti, come, del resto, avviene con ogni altra disciplina); fatica imprescindibile per chiunque, se si vuole ottenere un livello di soddisfazione via via maggiore, che giustifichi e rimotivi a sua volta la necessità dell’impegno. La pratica musicale, specie quella in gruppo, favorisce una miriade di facoltà che sono tipiche della nostra umanità: il coordinamento oculo/manuale e spazio/temporale sono i cardini. La capacità di leggere ed articolare una melodia correttamente richiede la comprensione e la gestione di molti parametri contemporaneamente: altezza, intensità, ritmo e misurazione delle durate di suoni e silenzi, e così via. Per molti ragazzi si tratta di un primo approccio un po’ serio al mondo della musica pratica. Poco importa il mezzo impiegato; può essere uno strumento a fiato come il tradizionale flauto, piccoli strumenti a tastiera o a percussione (ovviamente il problema del costo e della praticità negli spostamenti, non è un problema da sottovalutare). L’educazione musicale nella scuola non ambisce certo a formare dei musicisti; molti ragazzi, però, grazie a questo primo approccio, hanno pensato poi di coltivare un loro talento al di fuori della scuola, in gruppi musicali giovanili, in bande musicali, gruppi corali, ecc. Un po’ di soddisfazione di questo tipo arriva sempre!!
Ma la musica è anche (e soprattutto) una forma d’arte e, come tale, è un linguaggio dello spirito umano. Eliminarla dall’educazione di un giovane vorrebbe dire eliminare una finestra verso il cielo, una delle vie che il buon Dio ha concesso agli uomini per poter elevare il loro spirito alla ricerca del Trascendente. Questa parte si coltiva sicuramente molto di più attraverso l’ascolto delle grandi produzioni musicali che oggi chiamiamo “classiche”; termine che, nel suo significato più ampio, riguarda tutte le epoche del passato e tutti i generi musicali. Parliamo della musica (forse, in realtà, solo una piccola parte di quella prodotta) che ha subito quella selezione, spregiudicata a volte ma efficace, che solo il tempo riesce a fare in modo veramente onesto.
La musica del passato, la più sconosciuta e quindi la più difficile da avvicinare, ha molto da insegnare alle nuove generazioni. A volte i ragazzi si stupiscono che da un insegnante di cinquant’anni possa arrivare qualche proposta musicale interessante, forse a volte vogliono anche compiacermi un po’; magari il mio entusiasmo desta in loro un po’ di tenerezza… I momenti in cui li ho sempre visti molto coinvolti sono quelli in cui la musica è ispirata (e quindi associata) ad un testo, come avviene nei musical, nelle canzoni di musica leggera, nel melodramma, nei lied, anche nella musica sacra. Conoscere il testo di partenza è sempre una leva molto efficace per far breccia nella curiosità di chi ascolta ed ottenere poi l’apprezzamento di quella musica che ne amplifica il significato.
Dobbiamo però riuscire a far breccia nel loro mondo, il mondo dei nostri ragazzi di oggi. Talvolta per riuscire a farlo dobbiamo accettare anche di dover imporci; ci stupiamo sempre come alcune cose belle possano non venire accolte con disponibilità!
Riuscire ad affacciarsi su questo mondo un po’ blindato, che caratterizza da sempre tutti gli adolescenti e trovare un minimo di accoglienza, è una grandissima sfida!
Gli adolescenti con cui lavoriamo oggi, purtroppo, sono spesso sazi di diverse cose, magari a nostro avviso futili, ma per loro appaganti. Credo che non ci sia niente di più difficile che proporre un qualsiasi piatto prelibato, cucinato con tutto l’amore possibile, ad una persona già sazia di altri cibi più insipidi. Spesso la sazietà e la semplice ignoranza, ovvero la non conoscenza, fanno sì che non si senta nemmeno la curiosità di scoprire altro. Sicuramente anche noi insegnanti non sempre riusciamo a testimoniare l’entusiasmo che alcune grandi espressioni artistiche riscuotono in noi.
Così ogni tanto frugo nei miei ricordi, chiedendomi quali fossero i segreti degli insegnanti (molti, fortunatamente) che ho ritenuto più significativi nel mio percorso scolastico. Ebbene, il comune denominatore di tutte le loro qualità umane e professionali era sempre lo stesso: sono stati molto esigenti con me. Mi chiedevano molto, a tutti chiedevano molto! Sapevano anche toccarci il cuore, ma non per vie accomodanti o concedendo sconti. A volte forse ci sembravano “poco umani”, ma questa parte più negativa oggi è stata quasi completamente cancellata dai ricordi.
Dobbiamo aver più coraggio di fare lo stesso; ecco la prima convinzione che sto maturando sempre di più. Una seconda convinzione è molto legata alla prima. Abbiamo un prezzo più alto da pagare rispetto al passato: spiegare, dialogare, convincere i genitori di oggi che questo tipo di approccio “esigente” ai loro figli è quello più giusto; ossia quello che richiede a noi insegnanti più amore e più dedizione, ma anche più stima e più fiducia nei confronti delle nuove generazioni.
Prof. Damiano Ceschi
Giu 19, 2023 | Articolo di fondo, Home, Newsletter
Nel centro di Verona, all’interno del prestigioso chiostro di Sant’Eufemia, troviamo la sede di una preziosa realtà, che della musica ha fatto il suo fulcro: si tratta dell’Accademia Lirica Verona, un’istituzione che opera nel territorio veronese da più di vent’anni. Nella città conosciuta nel mondo per l’anfiteatro tra i più suggestivi ancora in uso, l’Accademia ha certo occasione di mettere alla prova i suoi talenti più giovani. Per permettere, però, a questi ragazzi di scoprire e coltivare la loro passione, ALiVe propone una vera e propria scuola, con appuntamenti e impegni che richiedono grande organizzazione, costanza e spirito di sacrificio; ma lo fanno volentieri! Abbiamo avuto la possibilità di porre qualche domanda al maestro Paolo Facincani, ideatore e fondatore e guida musicale di ALiVe.
Maestro, prima di tutto posso chiederle di presentare la sua attività e i bambini e ragazzi che vengono in esse coinvolti?
L’attività che svolgo come musicista in A.LI.VE. (Accademia Lirica Verona) è con i bambini del coro di voci bianche, formato da bambini e bambine in età compresa tra i 7 e i 12 anni che esegue vario repertorio (dal gregoriano all’opera lirica, dall’oratorio sacro a brani didattici) e collabora con la Fondazione Arena di Verona in produzioni lirico-sinfoniche sia al teatro Filarmonico che in Arena.
In Accademia è operante anche un coro giovanile formato da ragazzi e ragazze in età compresa tra i 13 e i 25 anni che esegue il repertorio polifonico sacro e profano (rinascimentale, barocco, romantico e tardo romantico e contemporaneo).
Seguo inoltre la crescita e la formazione di giovani solisti, sia voci bianche che voci di tessitura ‘adulta’ sia nel repertorio lirico che pop.
Parimenti seguo bambini e giovani nel percorso strumentale coadiuvato da maestri di chiara fama.
Rispetto all’educazione musicale a scuola, i ragazzi che vengono da lei scelgono volontariamente di approfondire una disciplina musicale, mostrando quindi la passione come ingrediente di partenza. Oltre a questo amore per la musica, quali altre qualità sono necessarie per far sì che la passione si trasformi in arte? Quali invece sono gli aspetti che maggiormente vengono educati da un percorso di studi di tipo musicale?
Il bambino che canta nel coro riceve un’educazione varia, fondamentalmente migliora la sua capacità di concentrazione. Sviluppa inoltre una sensibilità all’ascolto (proprio e degli altri), acquisisce un metodo di studio i cui risultati dimostra nelle esecuzioni pubbliche, si crea un senso estetico rivolto al ‘bello’ e pratica una solida disciplina personale e di gruppo.
Per ottenere tutto ciò ci vuole costanza, nel caso degli allievi di ALIVE è una cosa quasi naturale perché i bambini e i giovani che frequentano il coro si divertono a mettere in pratica tutto ciò.Per trasformare la passione in arte gli allievi hanno bisogno di un maestro, di una guida sicura che li sappia condurre, stimolandoli e affascinandoli.
Oggi la musica, di vari generi, è nelle orecchie di tutti. A suo modo di vedere, tutta la musica è arte ed è in grado di comunicare qualcosa? Quali autori del presente o del passato consiglierebbe, in particolare al mondo educativo?
Oggi la musica viene ‘consumata’ velocemente da chiunque lo voglia, è di facile reperibilità e riproduzione. Non tutta la musica è arte, c’è da distinguere tra bella e brutta musica. Questo distinguo vale per tutti i generi musicali di tutte le epoche. La musica dei nostri giorni rispecchia il mondo in cui viviamo. Come si riesce a capirne il valore? Studiando, praticando, eseguendo, provando e riprovando. Il consiglio che mi sento di dare agli insegnanti è sul ‘modus operandi’: la musica non va consumata, va fatta praticare, va spiegata, contestualizzata, va colta nel suo aspetto più affascinante.
Così facendo gli insegnanti potranno scegliere il repertorio più adatto ai loro alunni e alla loro preparazione culturale. In questo modo potranno scegliere consapevolmente tra Bach e Gaber, tra Puccini e Rino Gaetano.
“La bellezza salverà il mondo” è una delle citazioni di Dostoevskij più celebri e ripetute. Come ritiene che la musica possa inserirsi in questo processo e contribuire al riscatto dell’umanità?
La Musica con la M maiuscola è Bellezza. Per i bambini e i giovani d’oggi è necessario prendere le distanze dalla tecnologia e ritornare alla relazione tra esseri vivi che sanno immaginare. Solo così si potrà ripartire e dare un vero senso alla vita.
Miriam Dal Bosco
Giu 19, 2023 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Yves Gaspar, Umberto Fasol -La Bussola 2022
Questo agile testo, scritto da un cosmologo e da un biologo, vuole fornire dati a favore dell’argomento dell’universo fine tuned, traducibile come finemente regolato.
Coloro che sostengono questa tesi dichiarano che le osservazioni scientifiche hanno messo in luce che la possibilità della vita in natura è dipesa e dipende da una combinazione di condizioni che hanno una probabilità estremamente bassa di verificarsi: da qui il titolo del libro “Un mondo improbabile”. Scrivono gli autori nella prefazione che “universo fine tuned” significa due cose: “per primo, tutto ciò che è misurabile al suo interno, vita compresa, è definito con una precisione che si spinge fino all’ennesima cifra dopo la virgola, pena la sua non esistenza. Il secondo significato: tutto, ma proprio tutto, è connesso, perché tutta la materia e l’energia dell’Universo sono apparse in una sola volta, al momento del Big Bang così come tutte le cellule del mio corpo derivano dallo stesso uovo fecondato”.
Nella prima parte, il cosmologo Yves Gaspar, già allievo del fisico John Barrow, si sofferma sulla straordinaria sintonizzazione fine di alcune costanti di natura contenute nelle leggi fisiche che regolano il nostro universo attuale osservabile, non del tutto spiegabili dalla teoria standard del Big Bang. Per citare solo uno degli esempi descritti, se il rapporto fra i valori numerici del rapporto fra la massa dell’elettrone e quella del protone, e la costante di struttura fine α fosse diverso da quello attuale “potrebbero non esistere le stelle! Inoltre, non potrebbero formarsi strutture ordinate come i geni, i cromosomi e il DNA”. Interessante anche le considerazioni svolte intorno alle proprietà della molecola dell’acqua, del tutto particolari rispetto a quelle degli altri materiali conosciuti, e che rendono possibile le forme di vita conosciute sul nostro pianeta.
Nella seconda parte, il biologo Umberto Fasol prende in considerazione diversi aspetti della vita al fine di dimostrare la sua estrema complessità e improbabilità, dato che il suo verificarsi deve rispettare una serie di condizioni estremamente precise, fornendo una ricca e suggestiva quantità di esempi. Si sofferma per esempio sulle combinazioni di geni e cromosomi presenti in una cellula o sul processo di sviluppo dell’embrione.
Di fronte alla grande quantità di dati che la scienza mette a disposizione, solo l’abitudine, affermano i due autori, può impedirci di meravigliarci davanti allo spettacolo della vita. Che poi questa meraviglia possa essere la base di partenza per successive riflessioni di ordine filosofico, i due autori non lo escludono e non lo negano, ma rispettano i confini dei saperi, paghi di avere risvegliato lo stupore di fronte a un mondo “improbabile”. In conclusione, è un testo scritto in modo da risultare il meno difficile possibile anche a chi non è avvezzo alla terminologia e alle teorie chiamate in causa e, dal punto di vista didattico, si segnala per la capacità di offrire numerosi spunti per discussioni interdisciplinari.
Alessandro Cortese
Mag 26, 2023 | Appuntamenti, Conferenze, Home, News Homepage
Il Centro Studi per l’Educazione ha il piacere di ospitare Antonia Arslan, scrittrice italiana di origine armena, autrice del celebre romanzo “La masseria delle allodole”, che parlerà di cosa significhi appartenere ad un popolo con una storia così importante e singolare.
Con l’occasione presenterà il suo libro“Il destino di Aghavnì”, uscito lo scorso novembre.
l’incontro sarà 30 maggio 2023 alle ore 18.30
presso l’aula magna delle Scuole Ed.Res (via Calatafimi, 12 – Verona).
Per chi non potesse essere presente, ma avesse piacere di seguire la serata, sarà attiva una diretta YouTube sul canale di Sacre Questioni a cui potrete accedere direttamente dal tasto “Segui la diretta” qui sotto.
https://www.youtube.com/@sacrequestioni
Proprio a motivo del collegamento on line, l’inizio dell’incontro sarà tassativo alle 18.30.
Mar 5, 2023 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Alberto Pellai e Barbara Tamborini – DeAgostini 2021
“Il libro che avete tra le mani è un manuale per genitori (e non solo) che intende diffondere, con semplicità e chiarezza, una visione complessa sul tema della tecnologia fondata su una base scientifica solida”
Questa la definizione che danno del loro libro gli autori, Alberto Pellai e Barbara Tamborini. Lo scopo è chiaro e loro ne hanno certamente le competenze, non solo per la professione che praticano (psicopedagogista lei, medico e psicoterapeuta lui), ma anche perché coinvolti in prima persona nell’educazione dei loro quattro figli in questa “epoca social”. Dell’adolescenza come periodo particolare ne avevano già parlato nel volume “L’età dello tsunami” (DeAgostini, 2017). Qui invece si tratta nello specifico dell’ingresso della tecnologia nella vita di bambini e ragazzi.
Il titolo, “Vietato ai minori di 14 anni”, è forte, e loro sono ben consapevoli di andare contro al sentire comune che ha fatto suo lo slogan “Vietato Vietare!”. Eppure, se anche il legislatore ha posto un limite di età, qualche ragione ci deve pur essere. La cosa impone una riflessione a supporto di chi sceglie di combattere una faticosa battaglia, quella di attendere i quattordici anni prima di dare uno smartphone ai figli. Una battaglia che Pellai e Tamborini hanno fatto propria e che propongono a tutti gli educatori.
Nelle pagine del libro vengono esposti dati, studi psicologici e motivazioni mediche (splendido l’accenno al “cablaggio delle reti neuronali” che se non avviene in età evolutiva con esperienze e tappe obbligatorie, non avviene mai più) ma anche numerosi contributi da parte di genitori che si rivolgono a loro come esperti. In effetti, si potrebbe dire che il volume è scritto da ben più di quattro mani! Vengono così messe in dubbio posizioni quali “Non è lo strumento ad essere malvagio ma l’uso che se ne fa”, “L’importante è insegnare ad usarlo bene”, “Sì, ma mio figlio lo sa gestire”. Piuttosto si può affermare, come è vero per il vino o per l’automobile, che lo strumento è buono purché utilizzato alla giusta età.
Da buon manuale, non possono mancare, dopo una parte descrittiva del problema, le indicazioni pratiche per affrontare le diverse situazioni in cui ci si può trovare (figli grandi o figli piccoli, già con uno smartphone personale o ancora senza…). Non mancano qui le note autobiografiche, che fanno capire al lettore come nessuno sia impeccabile e che è sempre utile mettersi in discussione.
La rassicurazione è che, condividendo e facendo solidamente proprie le motivazioni proposte, la strada per affrontare con successo la sfida è sì in salita, ma alla nostra portata.
Miriam Dal Bosco
Mar 5, 2023 | Articolo di fondo, Home, Newsletter
Intervista a Massimiliano Badino
Come è nata la Philosophy for Children?
La Philosophy for Children nasce da un problema che potremmo definire sociale, prima che pedagogico. La sensazione che alcuni pionieri hanno avuto, tra i quali Matthew Lipman stesso – l’ideatore della Philosophy for Children – era che il sistema educativo non fosse al passo con la società. Tale pratica nasce in un contesto che è in primo luogo quello della logica dell’argomentazione e, dunque, anzitutto come una precisa forma di pensiero, prima ancora che essere collegato a problemi etici o metafisici. Nasce dalla sensazione che Lipman ha – e che ha sperimentato con i suoi figli – che la stessa materia che lui insegnava, cioè la logica e l’argomentazione, avesse un potenziale educativo inespresso. Vide quindi necessario individuare delle metodologie più adatte da un punto di vista pedagogico, affinché le potenzialità insite nella logica venissero sfruttate appieno. Lipman si rese conto che esisteva la possibilità di insegnare la logica e l’argomentazione, discipline apparentemente estremamente astratte, in un modo che potesse essere utile ai bambini della scuola primaria. Ha pescato da tante tradizioni: alcune vengono dall’Unione Sovietica come Vygotskij; alcune vengono dal pragmatismo americano, come Dewey; altre ancora vengono addirittura dal Sud America come Freire.
Quale ruolo gioca il critical thinking nella Philosophy for Children? Come questo filone prende le distanze dalla pedagogia piagetiana?
Il critical thinking è una nozione attualmente molto diffusa. Ad oggi infatti è normale parlare di pensiero critico, specialmente nei documenti ufficiali a livello istituzionale. È diventata quasi una parola d’ordine, ma non è stata tale fin dall’inizio. Anzi, ha avuto una genesi abbastanza complicata. Il concetto di pensiero critico nasce negli anni Sessanta, non nel contesto della logica, ma in un ambito differente; non nell’ambito della scuola primaria, ma in quello universitario, dove di nuovo alcuni autori pionieristici cominciarono a riflettere sulle stesse discipline che insegnavano e si resero conto nuovamente che la logica e l’argomentazione erano degli ottimi strumenti, che avrebbero potuto essere di grande aiuto per capire il mondo circostante, mai ai ragazzi e alle ragazze che andavano in università venivano insegnate in un modo poco utile. Tutto questo è avvenuto In circostanze particolari, ovvero durante la ribellione generazionale degli anni ‘68, in un brodo culturale adatto a mettere in discussione schemi di pensiero già consolidati, e tra questi anche la pedagogia. E qui arriviamo a Piaget. La pedagogia di Piaget si basa sul concetto delle fasi di sviluppo del pensiero, e quindi definisce lo sviluppo del bambino in funzione di momenti specifici in cui emergono, attraverso l’interazione con il mondo, certe abilità cognitive ben determinate. È noto che secondo il pedagogista svizzero la capacità del pensiero astratto sia l’ultima. Questo ovviamente pone il problema nel momento in cui si vuole insegnare la filosofia o la logica ai bambini della scuola primaria. Tuttavia questo problema si fonda su un fraintendimento generale. Perché quando parliamo di Philosophy for Children, non dobbiamo pensare alla filosofia accademica fatta dai bambini. Una distinzione cruciale che dobbiamo assimilare è che una cosa è la filosofia come disciplina, con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi schemi, il suo linguaggio, che spesso è molto tecnico, ostico, distanziante, una cosa è il filosofare, cioè la pratica filosofica. Kant diceva che non si può insegnare la filosofia, ma si può insegnare a filosofare. Questa è l’idea che è stata presa in carico dalla Philosophy for Children, ovvero non quella di fare in modo che i bambini facciano I filosofi adulti seppure in scala minore, ma cercare di stimolare nei bambini un pensiero che è genuinamente filosofico, e che quindi ha certe caratteristiche, ad esempio è aperto, si pone problemi che sono significativi, e significativi significa esistenziali, importanti per noi, ma allo stesso tempo familiari e vicini. Quindi il bambino e la bambina non saranno filosofi nel senso che useranno termini come “transustanziazione” e “trascendentale”, ma saranno filosofi nel senso che partono da storie, personaggi, vicissitudini, vicende a loro familiari e vicine che però sollevano delle genuine questioni. Questo può avvenire in tanti modi. Tendenzialmente avviene attraverso la lettura di testi strutturati in un certo modo e che presentano certe caratteristiche, ad esempio sono testi aperti, o che cominciano nel mezzo della vicenda e non si concludono e che già per il semplice fatto di avere questo tratto di frammento sollevano dei dubbi e dei quesiti: perché i personaggi si trovano in queste condizioni? Che cosa è successo? Che cosa succederà dopo? Questo è un modo per cominciare a porsi dei problemi che poi diventeranno sempre più significativi. Questo lavoro sul testo è un lavoro genuinamente filosofico. Certo non si parlerà di teoria delle idee platoniche o di categorie aristoteliche, però gradualmente possono emergere questioni sempre più dense che possono riguardare l’amicizia, emozioni importanti, la vita, la morte, l’idea di virtù. Nel rispetto della teoria di Piaget, questo non è in contraddizione. Non si tratta di far pensare i bambini come degli adulti, ma di dare loro la possibilità, all’interno del loro universo, del loro perimetro di discorso, all’interno delle loro categorie e del loro modo di affrontarle, la possibilità di porsi dei quesiti che sono aperti, non chiusi, non monologici e non destinati ad avere un’unica risposta, ma che aprano la possibilità del dialogo.
Il tutto avviene in un contesto educativo ben preciso che è la comunità dialogica o comunità di ricerca. Quali sono le caratteristiche di questo contesto?
Il tutto avviene in un contesto ben studiato, ben determinato. La Philosophy for Children ha indubbiamente un aspetto di spontaneità e di imprevedibilità che va conservato. Però, allo stesso tempo, non deve essere un caos. Questo perché è fondamentale che la comunità di ricerca, all’interno della quale questa attività si svolge, si ponga degli obiettivi ben chiari. Certamente i bambini non sono coscienti fin da subito del contenuto di tali obiettivi; questi ultimi devono essere chiari nella testa di chi organizza la comunità di ricerca, ovvero il facilitatore o la facilitatrice, che ha un ruolo estremamente difficile e sottile, perché deve guidare la comunità di dialogo, però lasciando ad essa la possibilità di esporsi e di esprimersi nel modo più spontaneo ed imprevedibile possibile. Quindi la comunità di ricerca si svolge con delle tappe ben definite: c’è la lettura del testo che deve essere scelto molto accuratamente; c’è una fase in cui dal testo si comincia a lavorare sulle domande; in seguito i bambini vengono divisi in gruppi all’interno dei quali cominciano a ragionare su quali domande vengono suggerite da questo testo. In questa prima fase i bambini devono andare a scegliere una domanda particolarmente significativa. Poi, in plenaria, si presentano le domande dei gruppi e si sceglierà la domanda sulla quale si lavorerà e qui si imposta il piano di discussione. Spesso queste domande sono definite in modo incompleto, spesso parziale, possono esserci domande che si equivalgono, ma che sono formulate in modo diverso, per cui al facilitatore spetta anche il compito di far ragionare i bambini sulle somiglianze e sulle differenze, verso quelle che si chiamano piste euristiche (chi? come? perchè?). Poi c’è un momento di discussione vera e propria e infine di valutazione, ovvero il momento in cui i bambini valutano come si sono sentiti e anche come il facilitatore si è comportato, come li ha fatti sentire, se hanno sentito la possibilità di esprimersi. Per arrivare a questo punto, e quindi ad una sessione di Philosophy for Children produttiva e soddisfacente, bisogna lavorare prima sulla costruzione della comunità di ricerca. Per cui ci sono degli aspetti a cui porre attenzione. Lipman suggerisce alcune caratteristiche fondamentali: Il favorire una partecipazione che però non sia troppo invadente, perché la comunità di ricerca richiede chiaramente la partecipazione di tutti e di tutte, però non la può pretendere, nel senso che i bambini hanno i loro tempi, qualcuno può sentirsi subito pronto a partecipare, qualcuno invece può sentirsi un po’ titubante. Quindi è essenziale, per mantenere un funzionamento omogeneo, che si rispettino i tempi di tutti i bambini e di tutte le bambine, che a volte possono essere molto diversi. Un’altra caratteristica importante, che distingue la comunità di ricerca da altri lavori di gruppo, è il focus sulla deliberazione, che va distinta dalla decisione. La comunità di ricerca non deve decidere una risposta, ma deve deliberare una risposta, il che significa che il focus è più sul processo che sul prodotto. Proprio per la peculiarità dei problemi che si affrontano, non è tanto importante che la risposta sia giusta o sia sbagliata, o magari decisa dalla maggioranza, quanto piuttosto che venga deliberata e che sia espressione di tutto il gruppo. Chiaramente questo è un concetto astratto, ideale, che solo in certe condizioni può essere raggiunto. La comunità di ricerca tra le sue funzioni ha anche quella di smussare certe relazioni di potere e di prevaricazione che si possono creare all’interno dei gruppi. È un processo che richiede sempre di riflettere sulle ragioni per cui si fa una certa affermazione.
Dal momento che stiamo parlando di deliberazione, mi viene spontaneo chiedere quale sia il legame della Philosophy for Children con l’approccio relativista…
Si potrebbe pensare che il fatto che i problemi siano aperti, il fatto che i testi suggeriscano varie interpretazioni, automaticamente legittimi l’idea per cui ogni opinione sia uguale all’altra. Per questo il ruolo del facilitatore è difficile, perché c’è il rischio che la discussione finisca in un numeroso affastellarsi di idee. Quindi come si fa a tenere in piedi l’idea dell’apertura della comunità di ricerca evitando il rischio di un approccio relativista? Fondamentale è fornire delle ragioni, delle argomentazioni. Stiamo parlando di problemi che non sono risolvibili e decidibili una volta per tutte. Questo però non significa che ogni opinione sia equivalente ad un’altra. Nel momento in cui i bambini e le bambine sono in grado di trovare delle ragioni alle opinioni anche più bizzarre, lo scopo, in un certo senso, è già raggiunto, perché sono stati posti di fronte alla necessità di motivare quanto stanno sostenendo. Poi chiaramente le opinioni più bizzarre saranno sostenute dalle regioni più deboli e quindi verranno facilmente attaccate dagli altri e messe in questione dai compagni. Dunque centrale della Philosophy for Children non è trovare una risposta, ma fornire le ragioni delle proprie opinioni. Quindi, di fronte a qualsiasi opinione, anche la più bizzarra, anche la più provocatoria, bisogna pretendere una motivazione, una giustificazione, un’argomentazione. La discussione indubbiamente può arrivare a dei vicoli ciechi, per cui la bravura del facilitatore sta nel tenere viva la discussione incoraggiando i bambini ad andare a fondo sulla questione.
I parallelismi con Socrate, così come anche le divergenze, appaiono evidenti. Potrebbe delinearli?
È chiaro che quando parliamo di Philosophy for Children il personaggio che ci viene in mente è evidentemente Socrate, perché come dicevo prima la Philosophy for Children insiste di più sulla pratica filosofica che sulla filosofia accademica e nell’immaginario collettivo il filosofo che va in giro e fa domande scomode è sempre stato Socrate. Infatti Lipman si è ispirato alla filosofia socratica, che porta con sé il concetto di maieutica, ovvero tirare fuori ciò che le persone si portano dentro. Tuttavia ci sono delle differenze fondamentali. Tanto per cominciare parliamo di contesti temporali totalmente differenti. Lipman ha un obiettivo, che è quello di riformare l’educazione, soprattutto alla scuola primaria. Questo significa che ha come target ragazzini e ragazzine dell’età compresa tra i 6 e gli 11 anni e che frequentano una scuola, cioè un sistema organizzato e istituzionalizzato. Socrate si rivolge ad un altro target, ovvero quello degli adolescenti, o meglio, quelli che noi oggi chiameremmo adolescenti, ma che all’epoca erano uomini e donne fatti. Il suo rapporto con queste persone era molto più informale, in contesti pubblici o privati e non c’era alcuna velleità di funzionalità. Questa pratica nasce e muore con Socrate, nel senso che quando Platone ne fa protagonista dei suoi dialoghi sta essenzialmente dicendoci che nessun altro è come Socrate, che nessun altro era un maestro come lo era Socrate. Dall’altra era un maestro per modo di dire, perché in ultima analisi spesso ne usciva protagonista, che non è esattamente quello che dovrebbe fare un facilitatore o una facilitatrice. In più il contesto è molto diverso anche da un punto di vista politico e sociale. In Lipman l’argomentazione ha un valore fortemente etico e anche politico. Il contesto generale è quello della democrazia liberale statunitense, ma lo troviamo anche nel contesto in cui operava Freire, che non è quello della democrazia. Lo ritroviamo più o meno anche nell’Unione Sovietica di Vygotskij. Socrate invece si muove in un contesto totalmente diverso. Chiaramente pensiamo alla Atene di Pericle come la culla della democrazia, ma la Atene di Pericle aveva pochissimo in comune con quella che noi chiamiamo oggi democrazia. Quindi Socrate e Lipman sicuramente si sono posti obiettivi differenti. D’altro canto l’idea generale per cui la filosofia sia anzitutto una pratica che va vissuta, che va esperita prima ancora che raccontata, prima che proposta con un linguaggio gergale tecnico, questa idea Lipman l’ha presa e l’ha calata in un contesto istituzionalizzato, che è quello della scuola e ne ha fatto un metodo, prima ancora che una pratica.
Quali sono i risvolti educativi della Philosophy for Children nella società attuale, soprattutto in riferimento al cosiddetto pensiero multidimensionale? Perché ad oggi è importante educare alla logica?
Ancora adesso, dopo tanti anni di Philosophy for Children, la logica è per così dire localizzata, segregata e ghettizzata tra le discipline matematiche. E in parte è corretto, perché la logica, tra le discipline in ambito umanistico, è quella meno recente e al contempo quella che di gran lunga ha avuto uno sviluppo più impetuoso e sorprendente. Quindi è chiaro che la logica venga collocata nell’ambito della matematica, però dobbiamo ricordarci che per più di duemila anni non è stato così, perché la logica non si è sviluppata sostanzialmente dopo Aristotele e dobbiamo ricordarci che, quando è nata, la logica era fortemente intrecciata con la politica e la retorica. Per Aristotele non c’è affatto una opposizione tra le due cose, quindi la logica ha una valenza sociale. Lipman vuole recuperare l’idea che la logica, come abito del pensare in modo corretto e argomentare in modo corretto, è la via principale per una vita democratica sana, funzionale alla vita in comune, al dialogo, alla tolleranza. Il collegamento tra la logica e la cittadinanza è particolarmente significativo. Ad oggi siamo esposti a semplificazioni, teorie cospiratorie, fake news, in generale ad una degradazione del clima linguistico e argomentativo che ha la tendenza a diventare tossica. Siamo dunque in un momento storico che richiede una maggiore consapevolezza su come si utilizza il linguaggio. Abbiamo bisogno di cittadini e di cittadine che sappiano confrontarsi e sappiano argomentare attraverso ragioni e non attraverso sentimenti o emozioni che possono portare fuori strada. Questo non significa che la logica sia nemica delle emozioni o della creatività, e qui arriviamo al pensiero multidimensionale. La grande intuizione di Lipman, e in questo sì che è andato un po’ oltre Dewey, è stato comprendere che i pensieri, per la loro intrinseca significatività, necessariamente mettono in gioco la vita emozionale. Lipman ha accolto il valore educativo delle emozioni, un elemento ad oggi abbastanza consolidato. Dagli anni ‘90 in poi gli studi di psicologia hanno sottolineato che le emozioni hanno un valore educativo e cognitivo, cioè che noi pensiamo meglio quando siamo coinvolti emozionalmente. Il pensiero multidimensionale prevede che ci siano tre forme di pensiero, ovvero quello critico, quello emozionale-creativo e quello di cura, che possono essere movimentati assieme e ognuna di queste influisce sull’altra. Per molto tempo si è pensato che le emozioni fossero un ostacolo al pensare corretto, invece se vengono indirizzate e guidate possono aiutare a pensare in modo corretto. Per molto tempo si è pensato che il pensiero creativo e divergente fosse contrario al pensiero critico e convergente, ma ad oggi sappiamo che non è così. La costruzione di buone argomentazioni richiede una forma di creatività. Inoltre il pensare bene ci fa anche sentire bene, è anche un modo per prendersi cura di sé e della comunità in cui si è inseriti. Quindi, per riassumere, la messa in campo di tali dimensioni contribuisce ad uno sviluppo organico del bambino.
Michela Spiazzi