Mar 25, 2021 | Newsletter, Senza categoria, Spazio cinema
Paese: Stati Uniti 1996 – Durata 109 minuti – Regia: Al Pacino
Metà film, metà documentario, Riccardo III – Un uomo, un re (titolo originale Looking for Richard) è anche e soprattutto un omaggio di Al Pacino al teatro e in particolare a Shakespeare.
Egli, che è sia regista che protagonista, con attori amici simula una compagnia che deve mettere in scena il Riccardo III offrendo allo spettatore il resoconto delle prove sia in abiti normali sia in costume alternate a discussioni accalorate sul modo giusto di recitare i testi del grande drammaturgo (compreso un divertente accenno al pentametro giambico, il verso usato nella grande poesia inglese). Arricchiscono il tutto interviste a celebri interpreti shakesperiani e a studiosi universitari come pure visite ai luoghi significativi come la casa natale del bardo o al sito londinese dove sorgeva il Globe Theater.
Come ammette lo stesso regista, il suo sogno è trasmettere agli altri i sentimenti di Shakespeare, nonostante che il linguaggio usato, e le stesse trame dei testi, appaiano alla persona comune lontano e complicati, come emerge da alcune delle risposte date da passanti intervistati. Ma non tutte le persone comuni fermate per strada trovano Shakespeare noioso: la giusta grandezza del suo teatro viene colta da chi dice che “più che aiutare, Shakespeare istruisce”; oppure che egli “dà sentimenti”, e per questo “andrebbe insegnato nelle scuole”. Un altro ancora dice che “quando si sente quello che si dice”, le parole usate, anche se desuete, “hanno un significato più forte”, quasi a replicare a chi trova il linguaggio del bardo inglese irrimediabilmente distante e superato.
La passione di Pacino per l’opera Riccardo III, oltre alla sua indiscutibile bravura, è tale che a mano a mano che passa il tempo si riesce a entrare nella psicologia perversa e luciferina del personaggio oltre a conoscere l’ambientazione storica della tragedia. Figura realmente esistita, egli visse durante la Guerra delle due rose tra York e Lancaster. Riccardo, duca di Gloucester e fratello del re Edoardo malato e prossimo alla morte, è roso dall’ambizione di succedergli, anche a motivo della frustrazione patita a causa di una deformità fisica. Privo di scrupoli pur di conquistare il potere, tesse una fitta trama di congiure per eliminare i possibili rivali alla successione al trono. Ma la storia termina con la sua sconfitta per opera di Enrico Tudor, che lo ucciderà sul campo di battaglia di Bosworth Field ponendo così fine alla guerra civile che per trent’anni aveva insanguinato l’Inghilterra.
È al termine della storia che si trova la battuta più celebre del dramma, quando il re si trova appiedato, incapace quindi di allontanarsi dalla morte certa per mano dei nemici, e con un grido disperato esclama: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”.In conclusione, la scommessa di fondo di Looking for Richard è quella di dimostrare che la grandezza di Shakespeare (ma la cosa si potrebbe dire di ogni classico del teatro) oggi e sempre sta nell’insegnarci a conoscere l’animo umano nelle sue pieghe più intime, non con un discorso astratto, ma attraverso i sentimenti che la voce e il corpo degli attori sanno suscitare: pathei mathos, cioè “imparare attraverso la passione”, avrebbe detto il grande tragediografo greco Eschilo. E del resto è lo stesso Pacino ad avere detto che “Io credo che si reciti solo nella vita, mentre nell’arte si persegue solo la verità”.
Alessandro Cortese
Mar 25, 2021 | Newsletter, Rassegna stampa
di Fabio Gervasio (fonte: Orizzontescuola.it – 23.03.21)
La didattica a distanza sta provocando un grande cambiamento nella scuola a causa dell’uso sempre più pervasivo delle nuove tecnologie. Nell’intervista padre Paolo Benanti, francescano, individua le caratteristiche e i rischi insiti in queste innovazioni, sollevando le questioni etiche implicate dal progresso tecnologico nel campo della comunicazione e dell’informazione.
Tecnologia e didattica: la scuola serve ancora? Verso un’apocalisse? Risponde Padre Paolo Benanti, esperto di Teologia morale e bioetica
Padre Benanti, la crisi pandemica ha costretto il mondo della scuola a ricorrere massicciamente alla tecnologia mediante la didattica a distanza. La DAD è stata fondamentale durante il primo lockdown, oggi sono molti i dubbi in merito al suo utilizzo. Prima della pandemia abbiamo avuto approcci contrastanti nei suoi confronti passando da quello aperto, come nel caso del BYOD (Bring Your Own Device), a quello di totale chiusura, ad esempio vietando l’utilizzo di dispositivi in classe. Parafrasando Umberto Eco, secondo lei dobbiamo avere una visione apocalittica o integrata rispetto all’uso della tecnologia a scuola?
Per rispondere a questa domanda parto da un articolo di recente pubblicazione, febbraio 2021, apparso sulla rivista scientifica “Cyberpsychology, Behavior and Social Networking” e intitolato “Surviving Covid-19: the Neuroscience of Smart Working and Distance Learning”. È un articolo frutto del lavoro di uno studioso italiano, Giuseppe Riva, e di altri studiosi come Brenda Wiederhold e Fabrizio Mantovani, nel quale viene riportato il risultato delle loro ricerche che si sono concentrate sull’osservazione di cosa accade in persone sottoposte ad un processo continuato di apprendimento a distanza e di smart working. Partendo dal risultato del loro studio, e rimanendo sull’aspetto legato al distance learning, possiamo affermare che l’impatto su alcune fasi cognitive del cervello è un impatto particolare.
Per capirci meglio, quando l’apprendimento accade in un ambiente fisico dedicato, all’interno del nostro cervello si attivano dei neuroni che hanno una sorta di funzione GPS e che ci localizzano all’interno di quell’ambiente attivando una forma di memoria che è di tipo autobiografica. Tutto questo avviene all’interno di un ambiente la cui caratteristica è di avere una consistenza tridimensionale. Quando invece l’apprendimento viene surrogato da una tecnologia, la cui caratteristica è di essere di tipo bidimensionale perché ci vediamo attraverso uno schermo, si sperimentano delle sensazioni di disorientamento, ci si sente come di stare senza un posto e proviamo il disabbandono di un luogo, la classe, e questo aspetto bidimensionale produce, inoltre, una riduzione dell’identità professionale e sociale, provocando anche un po’ di Burn Out. È evidente, alla luce di quanto finora osservato, che lo strumento non è neutrale, inoltre è importante ricordare che nella fase dell’apprendimento hanno un ruolo di primo piano i neuroni a specchio, che, in una didattica mediata dallo schermo, non si attivano in maniera adeguata e riducono il senso di leadership nei confronti di chi ci sta parlando. In aggiunta possiamo riscontrare delle oscillazioni intercerebrali che cambiano il modo con cui si realizza una sorta di coinvolgimento con le restanti parti della classe. Quindi se dovessimo chiederci se la Didattica a Distanza possa essere equiparata alla didattica in presenza, alla luce delle ricerche neuroscientifiche la risposta è chiaramente no. Ma la domanda che lei mi ha posto non è semplicemente di carattere funzionale, è anche di carattere etico e quindi dovremmo chiederci anche “come reagire a tutto questo”.
Qui si apre la seconda questione, è chiaro che l’etica è sempre una scelta del bene possibile, allora se dovessimo scegliere tra nulla e la DAD è senz’altro meglio la DAD. Precedentemente abbiamo affermato che la DAD non è equivalente alla didattica in presenza, ma trovare un bilanciamento tra presenza e DAD è un aspetto sul quale dobbiamo affidarci a quelle che sono le migliori conoscenze scientifiche di coloro che stanno cercando di gestire la pandemia, in modo tale che ci possano dire quale sia veramente il momento necessario per sospendere la scuola in presenza per poi passare alla DAD. Senz’altro l’epoca che abbiamo vissuto ci ha fatto vedere che possiamo digitalizzare dei processi, il tempo esteso con cui abbiamo fatto vivere ai nostri ragazzi questi processi ci dicono che non è uguale il processo digitale dal processo fisico. Non è nullo, ma è meno efficace del processo fisico. La scuola ancora serve, allora non si tratta di essere apocalittici o integrati, ma di essere, se volete, etici, cioè di scegliere il massimo possibile per il bene dei ragazzi che abbiamo davanti.
La tecnologia ci sta portando verso un cambio epocale. Lei più volte ha ricordato che già in passato, nel XVI secolo, un altro artefatto tecnologico, la lente convessa, ha prodotto un cambio epocale. Cosa ha comportato il cambiamento in quel periodo e cosa ci dobbiamo aspettare oggi.
Quello che ha apportato la scoperta della lente convessa, con la realizzazione del telescopio e del microscopio, è stato un cambiamento sul come noi studiavamo e capivamo il cosmo e di come studiavamo e capivamo l’uomo. Abbiamo scoperto di non essere il centro dell’universo e abbiamo scoperto di essere fatti di piccole parti viventi che chiamiamo cellule. Entrambe queste cose hanno cambiato i nostri punti di riferimento.
Oggi un cambiamento analogo avviene ad opera del computer che lavora i dati, che non ci permette di studiare l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, ma l’infinitamente complesso delle relazioni che accadono. Questo approccio sta nuovamente cambiando il modo con cui studiamo il cosmo, si pensi al fatto che ascoltiamo i dati che sono sostanzialmente raccolti dai radiotelescopi nello spazio, e allo stesso tempo ascoltiamo l’attivazione neuronale di tutte quelle cellule che di fatto sono all’interno del nostro cervello. Questo cambiamento sta producendo una trasformazione il cui esito non ci è ancora noto, non siamo in grado di vederlo, ma è una trasformazione epocale che in alcuni miei testi ho chiamato Digital Age, o più semplicemente cambio d’epoca.
Cosa ci dobbiamo aspettare? Ci dobbiamo aspettare un cambiamento anche nel nostro modo di passare le competenze ai giovani, perché se cambiano i punti di riferimento, come è cambiato il curriculum scolastico, o il modo in insegnare nel passaggio dalla cultura classica alla cultura scientifica, probabilmente dovrà cambiare qualcosa anche in questa situazione.
La crescita esponenziale della tecnologia ha portato ad una interazione sempre più profonda con l’uomo. In una società liquida, come la definisce Bauman, la disponibilità di grandi volumi di dati, i Big Data, permette la realizzazione di Intelligenze Artificiali sempre più efficienti al punto di condizionarci nelle nostre scelte, lei ci parla di Algocrazia. Questo aspetto ha aperto una riflessione sull’uso corretto della tecnologia, della necessità di un’etica nella tecnologia, l’Algoretica. Ci spiega questi aspetti?
C’è uno studioso statunitense, Langdon Winner, che per spiegare cos’è l’etica della tecnologia chiedeva di osservare i ponti che sono stati realizzati sull’autostrada che da New York porta fino alla spiaggia, Long Island. Ecco, chi guarda i ponti vede solo dei ponti, se però noi scavassimo un pochino più a fondo noteremmo che i ponti sono stati costruiti un po’ più bassi rispetto all’altezza degli autobus, questo per consentire solo alle macchine di poter arrivare alla spiaggia e all’epoca in cui sono stati costruiti, ad opera di Robert Moses, è stata un’azione volontaria fatta per impedire a chi non possedeva una macchina, quindi alle fasce più povere e alle minoranze, di poter raggiungere la spiaggia. Nel suo ragionamento Langdon Winner arriva alla conclusione che ogni artefatto tecnologico è una disposizione di potere.
Oggi la questione non riguarda più la costruzione di ponti in calcestruzzo, ma di algoritmi che ci permettono di entrare o ci tengono fuori dalle basi dei dati, che ci permettono o non ci permettono di fare alcune cose, come ad esempio di volare, di ottenere un prestito, o che in alcuni casi vorrebbero di fatto gestire anche la giustizia. È evidente che il potere non è più in calcestruzzo ma è algoritmico, da qui il termine algocrazia. Cosa è chiamata a fare l’etica della tecnologia? Ad essere quella voce che domanda qual è il senso del bene e che cosa stiamo realizzando. È un nuovo capitolo dell’etica che cerca di rendere computabile agli algoritmi alcuni principi che animano la scelta del bene. Questo nuovo capitolo dell’etica, all’interno di questo viaggio, deve rendere visibili ed efficaci queste istanze, come fossero dei grandi guardrail digitali all’interno di questo mondo sempre più automatizzato.
Gli algoritmi ci condizionano nelle nostre ricerche. In ragazzi in fase di formazione cosa comporta questo aspetto legato all’algoritmo che ci permette di vedere solo alcune delle scelte possibili.
È chiaro che stiamo parlando di algoritmi, tante volte di intelligenze artificiali, che animano le piattaforme sociali. Possiamo pensare agli algoritmi come l’ermo colle di Leopardi, solo che sono meno poetici dell’ermo colle ed escludono lo sguardo su alcune cose e ci fanno focalizzare su altre. Gli studi che si stanno realizzando ci dicono che questi algoritmi sono in grado di creare una sorta di bolla intorno a noi nella quale vediamo sempre lo stesso tipo di notizie ripetute più volte. Questa bolla di ripetizioni plurali, di fatto crea una sorta di filtro sulla realtà e un ragazzo che è nel pieno sviluppo della crescita, che dovrebbe guardare con gli occhi limpidi dello stupore e della meraviglia, potrebbe in qualche modo essere condizionato, essere “educato”, non da un mentore, non da un Socrate, non da qualcuno che vuole il suo bene, ma da uno strumento che ha come unica finalità quello di tenerlo il più possibile su quella piattaforma perché chi la possiede in questo modo guadagna più soldi. Tutto questo è un qualcosa che ci chiede di agire, perché stiamo creando la prima generazione che utilizza il telefonino in maniera indistinta tra adulti e ragazzi. Cosa voglio dire con questo, facciamo un esempio, quando il segno del crescere era il motorino, il motorino non era una motocicletta, era adatto ai ragazzi. Oggi, invece, lo stesso strumento, il telefonino, è identico per un adulto o per un ragazzo. Questo ci porta a riflettere sui cambiamenti necessari per adeguare gli strumenti in base a coloro che saranno gli utilizzatori finali.
Nei suoi interventi l’abbiamo sentita spesso parlare dell’Oracolo di Delfi affiancandolo al nome di una delle più importanti società di database “Oracle”, oracolo, come se avessero in comune degli aspetti ben specifici. Ci spiega questo paragone?
È un gioco di parole. C’è un frammento di Eraclito, uno dei padri della filosofia, che dice che l’oracolo che è in Delfi non parla e non tace ma significa. Oggi quando noi interroghiamo un motore di ricerca esso non parla e non tace ma significa dei dati in base alla nostra ricerca. Quindi io uso questo gioco di parole per dire che tanti nostri contemporanei iniziano ad avere nei confronti del computer, soprattutto del computer che lavoro in internet, che lavora i dati, una sorta di accesso oracolare, come se fosse una specie di divinità, che dà delle sentenze, che dà delle risposte alla loro ricerca, al loro destino, al loro futuro. E questo accade quando lo utilizziamo per cercare, ad esempio, cose importantissime come l’anima gemella.
Anche il mondo della scuola sta vivendo un cambio epocale dove la conoscenza non è più esclusiva dei docenti. Molti ragazzi, definiti per semplicità come nativi digitali, sono più capaci nell’uso delle tecnologie rispetto ai propri insegnanti, gli immigrati digitali. Cosa comporta questo cambio di paradigma e quanto è importante pensare ad un’istruzione che porti ad un’alfabetizzazione digitale.
È fondamentale perché oggi assistiamo ad una nuova forma di analfabetismo. Se nel medioevo l’analfabetismo era entrare in una biblioteca e non saper leggere quello che c’era sui volumi, oggi un analfabetismo digitale lo potremmo definire come l’essere immersi all’interno di un flusso di dati, di parole, di video o di audio, e non sapere riconoscere cos’è la verità e cosa non lo è. Questa nuova forma di analfabetismo digitale può provocare qualcosa di simile a quello che ha provocato per analogia il vero analfabetismo, e cioè la dipendenza di chi non è alfabetizzato da chi invece è alfabetizzato. Questo può causare, di fatto, la cessazione di quella funzione sociale di integrazione, di sviluppo della persona, che è compito della scuola. Allora quella che noi chiamiamo alfabetizzazione digitale altro non è che una serie di strumenti che dobbiamo sviluppare e affinare per permettere alla scuola di svolgere pienamente il suo ruolo educativo, e non solo formativo, per questa generazione di nativi digitali.
Il Professor Floridi asserisce che siamo passati ad un uso tecnologico che dall’online è passato all’onlife, perennemente connessi. La società muta rapidamente con ripercussioni anche sul mondo della scuola. I ragazzi al termine del loro ciclo di studi si troveranno di fronte a lavori inesistenti al momento in cui hanno iniziato questo ciclo. La scuola, quindi, non deve formare persone in base alla società esistente, ma deve dare gli strumenti per poter affrontare le sfide future. Da qualche anno è stato introdotto il Coding nella scuola, è la strada giusta?
Questo è un dibattito molto ampio a livello internazionale. In pratica parte dalla domanda precedente, ci troviamo di fronte a un’inedita generazione che ha bisogno di essere alfabetizzata, ma l’alfabetizzazione non è spontanea, non è come la caccia nei leopardi o nei branchi di lupi, ha bisogno di un “Maestro”. Quindi ci dobbiamo chiedere a cosa li devono educare i “Maestri” del digitale. Negli Stati Uniti hanno risposto a questa domanda affermando che l’obiettivo è quello di arrivare a pensare come le macchine in modo tale da poter interagire nel miglior modo possibile con esse ed è partito il pensiero computazionale ed il Coding. Ma si sono accorti di avere un problema, in pratica non hanno insegnanti adeguati per applicare questi programmi. In Francia, invece, hanno pensato che è più un problema di come sia l’essere umano nel tempo digitale, hanno parlato di umanità digitale ed hanno sviluppato dei programmi.
Ma anche qui il problema è lo stesso, si sono resi conto di non avere professori preparati per tutto questo. Noi in Italia forse siamo un po’ più in ritardo, perché non ci siamo ancora posti fino in fondo questa domanda, se non in contesti come questo. Dobbiamo innanzitutto avviare un dibattito su questo argomento per cercare di dare la migliore risposta possibile e, allo stesso tempo, pensare quali caratteristiche necessitano coloro a cui sarà demandato il compito di fare il “Maestro” di questa generazione.
A questo punto le chiedo cosa voglia dire essere insegnanti di Coding?
Il Coding di fatto è una tecnica. Cerco di spiegarmi con un esempio, per amare la montagna è sufficiente conoscere tutte le tecniche del CAI o degli alpini? È chiaro che se uno conosce queste tecniche può andare in sicurezza in montagna, ma tutto quello che serve per ammirare un bel paesaggio e per capire dove voglio andare quando vado in montagna è richiesto da cose che non sono competenze tecniche, ma sono stature morali della persona. Quindi, insegnare Coding vuol dire dare una tecnica, ma il Coding deve essere inserito all’interno di questo processo più ampio di cura della persona perché non rimanga una tecnica muta ma sia uno strumento che permetta ai ragazzi di diventare le donne e gli uomini che desiderano essere.
Un’ultima battuta, lei spesso parla di un’etica negli algoritmi e nella tecnologia che deve essere pensata prima di mettere in atto le scelte. In particolare qual è la differenza di approccio tra scrivere un algoritmo e programmare in un linguaggio come ad esempio il Python?
È un approccio che chiamo “by design”. In pratica la nostra non deve essere un’azione che va a mettere una pezza ad un qualcosa che già è in atto, ma deve essere pensata a priori per evitare di rincorrere qualcosa che poi ci sfugge di mano. Il principio che dobbiamo adottare, che è alla base del pensiero degli ingegneri, è sintetizzato in “misura due volte e taglia una volta sola”, che sta ad indicare di pensare bene a quello che si sta per fare per prevederne tutte le conseguenze possibili. L’algoritmo è un pensiero mentale, è ottenere una selezione in un numero finito di passaggi, mentre il Python è il linguaggio che consente di farlo ad un computer. Ma è chiaro che se io non penso prima, cioè non sono uomo, poi non posso istruire la macchina. L’etica, che è la parte più nobile dell’umano, va applicata a tutto l’uomo. Solo uomini etici realizzeranno poi un’algoretica, cioè algoritmi giusti e capaci di rispettare gli altri uomini.
Fabio Gervasio
Mar 25, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
L’istituto superiore Alle Stimate, grazie alla collaborazione con il maestro e attore di teatro Ermanno Regattieri, ha avviato un percorso laboratoriale proposto ai ragazzi di prima superiore, allo scopo di potenziare la comunicazione verbale e corporea.
Il laboratorio, intitolato dal maestro Regattieri “Teatro e(è) comunicazione”, si è articolato in un ciclo di dieci appuntamenti mattutini, uno alla settimana e della durata di circa un’ora, e ha avvicinato gli studenti alla disciplina teatrale, partendo dalle basi di riscaldamento e rilassamento, per poi passare all’equilibrio, alla postura e al punto fisso teatrale.
L’obiettivo principale del corso è stato quello di mostrare agli allievi lo stretto legame tra il “fare teatro” e il comunicare quotidiano. Ad ogni incontro, la classe si è cimentata in esercitazioni riguardanti il ritmo e la concentrazione, stimolando conoscenza e memoria.
Ciascuna prova si focalizzava su un aspetto specifico, via via aumentando in complessità: la consapevolezza della propria presenza individuale in quanto corpo e l’espressione di gesti volontari o spontanei si sono rivelati la scintilla di riflessione di concetti quali essenza e motivazione.
Da un punto di vista educativo, i ragazzi hanno partecipato ad un’esperienza di gruppo che ha favorito non solo la coesione della classe nella sua interezza, ma anche l’integrazione dei singoli, il rispetto dei tempi dell’altro e il valore dell’ascolto.
Muoversi, agire, parlare insieme in una determinata superficie ha facilitato quell’intreccio di coordinazione e relazione che vivono giornalmente nella realtà.
Ogni studente con la sua personalità ha affrontato le diverse fasi del percorso, ampliando il suo bagaglio caratteriale ed emotivo: obiettivo comune si è rivelato essere la ricerca di un ruolo all’interno della collettività, assumendo particolari modelli comportamentali a seconda del bisogno e della situazione.
Il ragazzo timido, abituandosi e adattando la sua capacità comunicativa, si è sforzato di aprirsi maggiormente e di esprimere la propria opinione; l’alunno vivace, a sua volta, ha appreso l’importanza del controllo studiato a favore di un messaggio più incisivo. Entrambi hanno messo in atto alcune strategie e hanno superato quelle dinamiche di timore provocate dal giudizio spesso discriminatorio e dall’idea di essere diversi, quindi strani e incompresi. Mediante i dialoghi e i lavori di gruppo, inoltre, gli studenti hanno intrecciato tra loro nuove relazioni, superando in parte quel senso di vergogna tipico della loro età.
Alla comunicazione gestuale è seguita quella verbale: giocare con suoni, parole e frasi, associati ad un’azione o meno, ha dimostrato come, in teatro come nella vita, i linguaggi a nostra disposizione siano molteplici, sebbene la lingua utilizzata sia generalmente una e uguale per tutti.
Esercizi di lettura espressiva ed interpretazione, così come improvvisazioni libere e guidate, hanno permesso lo sviluppo di sensazioni e creatività, in un’atmosfera serena e ludica, priva di valutazioni, nella quale il “copiare” non viene criticato negativamente.
Il compito da svolgere? Abituarsi a comunicare e a dare peso espressivo ai discorsi. In tal modo, ogni ragazzo o ragazza saprà trasmettere con maggior efficacia non solo un’idea ma anche la propria personalità. Non si tratta di un percorso semplice: impegno, coraggio, pazienza, fantasia sono i principali ingredienti. Mettersi a nudo, anche solo un pochino, non è mai scontato, adolescenti e adulti compresi.
Tuttavia, se la classe si trasforma da pubblico giudicante a squadra, allora, in quell’istante, rivelarsi per ciò che si è ci permetterà di offrire agli altri, ma soprattutto a noi stessi, un’immagine positiva e genuina. Sarà emozionante e liberatorio.
Laura Luciani
Mar 25, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
In quest’ultimo anno sono diversi gli ambiti che hanno subito forti limitazioni. Certo la scuola ne sta risentendo, ma anche una forma importante di educazione e formazione: la rappresentazione teatrale.
Ne abbiamo voluto parlare con Alessandro Anderloni, ben conosciuto nel territorio veronese, regista e autore teatrale cui abbiamo voluto porre alcune domande:
“Scuola e teatro”: due mondi diversi ma le cui strade si intrecciano. Spesso lei ha portato le scuole a teatro e il teatro nelle scuole: quali frutti possono nascere da questo connubio?
Nel marzo del 2020 ho dovuto interrompere, bruscamente e con incredulità, sette laboratori teatrali nelle scuole. Non avrei mai pensato, allora, che a causa del Covid-19 per un anno non avrei più rivisto le aule, le palestre, i cortili dove giocavo al teatro con centinaia di bambini e bambine, adolescenti e giovani. Nel 2020, dopo venticinque anni, per la prima volta, ne mese di maggio non ho portato in scena alcuno spettacolo. Ricordo che in quei giorni mesti ho iniziato a contare i giovani attori e le giovani attrici che ho incontrato nel mio cammino di teatro a scuola: ho superato i 4.500 e poi mi sono fermato.
C’è una differenza tra il teatro con le scuole e il teatro per le scuole. Le produzioni di teatro per le scuole sono, nel panorama italiano, molte e di buona qualità. Scarseggiano, in vero, spettacoli pensati nello specifico per la fascia d’età dai 16 ai 18 anni. Straripano invece gli spettacoli dedicati alle scuole primarie, spesso con esiti ottimi, altre volte senza grandi risultati artistici. Non ci si improvvisa, come spesso si è portati a pensare, a far teatro per i bambini e gli adolescenti. Non sono una categoria di grado inferiore. Anzi, sono un pubblico esigente, attentissimo, onesto, spietato. E chiunque abbia provato ad andare in scena davanti a un teatro colmo di bambini e ragazzi ne sa qualcosa, e spesso lo ha pagato sulla sua pelle, con grida, risate, perfino rivolte dal pubblico. Dovrebbero imparare dai ragazzi gli adulti, laddove applaudono e lodano spettacoli per piaggeria verso il regista o l’attore o l’attrice di turno, la “diva” della TV, il fenomeno da social network. Ai bambini non ne cale: chiunque tu sia, o sul palcoscenico funzioni o non meriti il tempo e l’attenzione che sono pronti a darti se invece li convinci. Il teatro per le scuole, dove non si riduca a un pacchetto confezionato, è il banco di prova delle storie e di chi le sa raccontare, scava nella professione del teatrante e si confronta con il più esigente dei pubblici, scrive il futuro della fantasia, dell’immaginazione e della coscienza civica degli adulti di domani.
E il teatro con le scuole?
Se assistiamo a un fiorire di compagnie che si propongono con spettacoli per i bambini, spesso con lauti e giustificati (benché spesso squilibrati) finanziamenti pubblici, i professionisti del teatro che scelgano di fare teatro con i bambini, gli adolescenti e i giovani sono pochi. Come sono pochi, sporadici e provvisori i corsi e i laboratori che le scuole, di ogni ordine e grado, riescono a organizzare e a proporre ai loro studenti. E uso la parola “riescono” non senza motivo, ché il teatro a scuola è lasciato in Italia alla buona volontà, al coraggio, alla fantasia, alla capacità manageriale e alla passione di insegnanti, professori (quasi sempre professoresse) e dirigenti.
Per strade le più diverse, inseguendo bandi, industriandosi e lottando per cercare finanziamenti, trovando quasi sempre pochi soldi, le scuole autonomamente organizzano una delle più preziose attività che l’esperienza di studio può offrire. Non è il caso di ricordare qui i benefici personali e di gruppo che il “gioco del teatro” lascia a chi lo abbia praticato a scuola: sono grandissimi, contribuiscono a risolvere situazioni critiche, formano la personalità, accrescono la consapevolezza, abbattono le differenze, ribaltano gli stereotipi, annullano i conflitti. Potrei continuare, potrei citare nomi, fatti, situazioni, dati. Non c’è corso organizzato da compagnie o da teatri, residenza artistica più o meno articolata, attività a iscrizione o a pagamento che scateni liberi l’energia e coinvolga nel profondo quanto lo faccia un laboratorio a scuola. Perché il teatro a scuola è democratico: non ci iscrive, si viene coinvolti e si fa; perché è libero: non si guadagnano giudizi, non si vincono premi, non si cerca la celebrità; perché è naturale: non ci si esibisce e non si scimmiottano gli adulti come colpevolmente, e con danni enormi, assistiamo in raccapriccianti trasmissioni televisive che trasformano i bambini i marionette cantanti o danzanti per compiacere genitori e spettatori spesso colpevolmente inconsapevoli della violenza che stanno compiendo sui loro figli o i figli altrui.
Ma se la scuola è il luogo privilegiato per fare teatro in giovane età, perché allora sono così poche e sporadiche le esperienze di teatro e così pochi i professionisti della scena che vi si dedicano?
Le due circostanze sono l’una concausa con l’altra. Se alcune scuole faticano, senza che nessun progetto o piano di istruzione ministeriale le abbia mai aiutate, a organizzare laboratori di teatro a scuola, altre pigramente o distrattamente nemmeno ci provano. D’altra parte, se drammaturgi, registi, attori e compagnie sono solerti a imbastire spettacoli per le scuole, molto meno si sobbarcano la fatica, il disagio, l’azzardo, il rischio, la tensione di entrare nella gabbia dei leoncini e delle leoncine. Perché il più blasonato regista che varchi la porta della palestra della scuola di periferia dove lo aspettano venti ragazzi di 14 anni che se ne infischiano del suo profilo su Wikipedia o dei Premi Ubu che ha vinto, si troverà a tirar fuori, se ne è capace, non solo il suo “mestiere” di teatrante ma soprattutto la sua sensibilità, la sua capacità empatica, l’umiltà del confronto e la fermezza della disciplina. E non potrà mentire sulle storie.
Molta della sperimentazione, della così detta avanguardia, dei post-realismi, post-modernismi, pre-futurismi e via discorrendo, a scuola non ingannano nessuno. A scuola non ci sono prestigiose platee davanti alle quali pavoneggiarsi, conciliaboli di appassionati ad osannarti, critici pronti con solerzia a incensarti. A scuola c’è da combattere con gli orari, con la disponibilità delle palestre, con la puzza di sudore dell’ora di ginnastica appena terminata, con i volti di tutti i colori e le mille lingue e le mille culture e provenienze e religioni dei giovani attori e attrici.
A scuola c’è da fare tutto con niente, inventarsi costumi, scenografie e trucco senza spendere i soldi che non ci sono, accondiscendere alla mamma iper-apprensiva che teme che il proprio figlio non riesca a fare gli scalini senza farsi male e perdonare padre che si dimentica delle prove generali del figlio, trovare il luogo per lo spettacolo senza che nessuno te lo metta a disposizione a prezzi accessibili, organizzare i piani di sicurezza e ora anche i piani sanitari. Occorre continuare? Ecco perché si fa così poco teatro con le scuole.
A suo modo di vedere, il teatro giova solo ai ragazzi o può essere uno strumento utile anche agli insegnanti o ai giovani che aspirano a diventarlo?
Il teatro porta nelle scuole una preziosa anarchia, una vitalità incontrollabile, un dinamismo temuto e utilissimo, un sovvertimento delle consuetudini, un rovesciamento delle certezze. Un buon progetto di teatro può cambiare una scuola. E se può cambiare un’istituzione così ingessata, burocratizzata e oggi follemente ossessionata dalla sicurezza (forse è per questo che è così osteggiato “là” dove si decide?) non sarà difficile pensare che potrà cambiare non solo i ragazzi ma anche gli insegnanti. Il teatro costringe a giocare, e riattiva nella scuola il suo ruolo di luogo in cui giocando si impara, si cresce, ci si prepara al futuro. È il gioco che cambia le carte in tavola, laddove il gioco è guidato da professionisti che lo conducono con gli strumenti propri del teatro. Dove sono gli insegnanti o i professori, nonostante la loro buona fede e buona volontà, a fare teatro, i risultati saranno sempre sotto le aspettative. E come un regista non dovrebbe fare il professore, così il professore non dovrebbe pretendere di fare il regista, contendendo così la sua passione ed evitando di scaricare sul teatro a scuola le frustrazioni di una carriera nel mondo del teatro sperata, a cui ha dovuto rinunciare per insegnare. Lasciamo fare il teatro a scuola a chi il teatro lo fa di mestiere.
Ma dal “fare teatro2 gli insegnanti possono apprendere moltissimo. L’espressività della persona, declinata in linguaggio fisico, vocale e spirituale, è il fulcro dell’attività teatrale a scuola e offre a chi insegna un tesoro di conoscenze e tecniche inestimabili. Per un insegnante attento e ricettivo, l’attività teatrale con i suoi studenti, soprattutto quanto sia vissuta non da puro spettatore ma da collaboratore se non da partecipante lui o lei stessa, è un’occasione unica per imparare quello che la scuola o l’esperienza di insegnamento non gli ha mai potuto offrire. Non si tratta di trasformare gli insegnanti in attori dietro la cattedra, ma di attingere dalle tecniche del teatro ciò che, adattato, può essere utilizzato in classe. Si tratta altresì di scoprire come la storia, la letteratura, perfino la matematica si possono insegnare con il teatro. La collaborazione e la fiducia reciproca tra insegnante ed esperto teatrale a scuola sono una miscela dalle possibilità immense, i risultati possibili sono sorprendenti. Nel rispetto dei ruoli, nella disponibilità a collaborare, nascono esperienze indimenticabili, e spettacoli splendidi.
Il 2021, 700° anniversario dalla morte di Dante, sarebbe stata un’ottima occasione per portare i ragazzi a teatro. Tutto è perduto? So che lei non si è dato per vinto e sta proponendo alcune iniziative per celebrare il Sommo Poeta anche in questo difficile periodo. Vuole parlarcene?
Negli ultimi tre anni ho incontrato più di cinquemila studenti e studentesse con Dante. Ho perduto il conto delle conferenze, dei monologhi, dei laboratori nelle scuole, con studenti dai 3 ai 18 anni. Le potenzialità teatrali della Commedia di Dante sono sconfinate. La Commedia, con i suoi novecento personaggi, è teatro, la sua lingua è teatrale, il soggetto, la vicenda, l’intreccio sono una miniera drammaturgica. Dante lo sapeva. Aveva scritto perché la sua Commedia fosse detta e ascoltata, prima ancora che letta. Chi ha provato a raccontarla o a portarla in scena con i più giovani sa quanto sia forte la capacità empatica e di coinvolgimento di questo testo, come scavi in profondo anche nei bambini e nei giovani, se si trovano le chiavi di lettura per toglierlo da pregiudizi scolastici o peggio da gelosie accademiche. Non si può dire che l’Italia, Verona in particolare, abbiano approfittato dell’anniversario dantesco per portare Dante nelle scuole. Attenzione: non Dante per le scuole ma con le scuole. Vedo molti vanitosi in giro, profluvi di letture dantesche con il malcelato desiderio di mettersi in mostra o di dimostrare le proprie abilità recitative o avvalorare la propria conoscenza che quasi sempre si ferma all’Inferno, quando invece ai bambini piace soprattutto il Paradiso con la sua architettura di luce e suono, di speranza e felicità.
Nonostante la quasi immobilità delle istituzioni pubbliche, il silenzio dei comitati ufficiali, l’assenza totale di risorse, a Verona siamo riusciti a portare Dante nelle scuole, e in presenza, stante la drammatica situazione sanitaria. Migliaia di studenti e studentesse, come ho detto, si sono confrontati con la Commedia. Cento bambini e bambine della scuola primaria Rubele da un anno hanno pronto uno spettacolo di teatro e musica su Dante a Verona. Questa pandemia ci permetterà mai di portarlo in scena? Ci ha aiutato, e ne siamo riconoscenti, la Cantina Valpantena producendo per l’occasione la bottiglia “Dante a Verona”. Otto scuole dei quartieri di Veronetta e Porto lavorano con me e con Mirco Cittadini sul progetto “Verona, città del Paradiso” che trecento bambini e bambine racconteranno con un video che sarà presentato a primavera. E il progetto ha il sostegno generoso e lungimirante dell’Assessorato all’Istruzione del Comune di Verona. Io ho detto e dico Dante in decine di istituti superiori di primo e di secondo grado, in provincia e in città. Ma forse è nel Carcere di Montorio, con i detenuti del gruppo teatrale che da sei anno conduco con Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni, dove le Dante risuona più forte. È là che le parole di Virgilio a Catone «libertà va cercando» ci interrogano e ci scaraventano davanti a noi stessi. Dante è molto più in carcere che nelle aule delle accademie.
E se Verona non ha il coraggio, nel 2021, di chiamare la sua piazza come tutti i veronesi e le veronesi già la chiamano, “Piazza Dante”, Poteva almeno risparmiarci di chiudere per quattro mesi Dante in una scatola proprio nell’anno dell’anniversario. Il benemerito restauro della statua di Ugo Zannoni non si doveva forse fare prima e inaugurare la statua restaurata all’aprirsi dell’anno delle celebrazioni? Lo capisce anche un bambino. Ecco, sogno un “Comitato Dante 2021” di bambini e bambine.
Per tutto il 2021 cammineremo con Dante. Centinaia saranno gli eventi del progetto “Dante Settecento”. Seguiteli sulla pagina Facebook: Dante Settecento. Camminate con noi.
Miriam Dal Bosco
Mar 25, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Eugène Ionesco- Parigi 1959
Berenger ne sa qualcosa, di pandemie.
In un non luogo e un non tempo quest’uomo dall’aria trascurata, incapace di adattarsi alla vita, si ritrova solo a fronteggiare il dilagare di una mostruosa pandemia: la rinocerontite.
Che sarà mai questa strana malattia, che in modo contagioso trasforma una a una tutte le persone in rinoceronti?
All’inizio ci si fa poco caso al rinoceronte che galoppa sulla scena, sfiorando vetrine, alzando un polverone, schiacciando un gattino sotto le sue zampe. Se ne parla nei pettegolezzi da bar, del rinoceronte avvistato, e di quell’altro poi, che galoppava in senso opposto -che sia lo stesso?-. Si disquisisce su questioni marginali, quanti corni abbia, se sia africano o asiatico, lasciandosi trascinare in discussioni inconcludenti e rivendicazioni personali.
C’è anche chi nega che esistano. Chi pensa che la cosa non lo riguardi. Chi si arrabbia con le istituzioni e rivendica giustizia. Chi pensa al complotto e chi si spaventa. Chi non se ne cura, perché bisogna continuare a fare il proprio dovere. Chi piange sui danni personali che il rinoceronte gli procura. Chi scappa tenendo ben stretto ciò che gli sta più a cuore.
Ad ogni pandemia pare che corrispondano le stesse reazioni!
Eppure in questo caso la malattia ha risvolti diversi dai nostri: più diventa contagiosa, più diventa affascinante. Il rinoceronte appare libero, un po’ alla volta il suo verso rauco si fa canto attraente, il suo galoppare travolgente diventa danza, il colorito verde e la pelle rugosa risultano proprio belli. I rinoceronti sono diventati la normalità e chiunque è diverso si sente un mostro, si vede brutto, si fa schifo e prova vergogna di se stesso.
“Il rinoceronte” nasce dall’esperienza che Ionesco ha avuto del Nazismo, ma nella sua assenza di connotazioni spazio-temporali parla a ciascuno di noi. Quante tendenze, quante nuove ideologie galoppano sulla scena dei nostri giorni portando con sé nuovi modi di intendere la libertà. Possiamo davvero ritenerci immuni da queste mode che sovvertono ogni categoria etica e ci inducono a credere che “Il bello è brutto, il brutto è bello”, come recitano le streghe del Macbeth?
Berenger vive il dramma profondo di chi vuole restare uomo, di chi non si arrende e vuole conservare la propria originalità in un mondo dove la normalità è il conformismo dettato dalla maggioranza.
Anche a noi, come a ciascun personaggio del dramma, si ripropone la scelta: lottare per restare uomini o arrenderci e diventare rinoceronti.
Silvia Spillari