Mar 5, 2023 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Alberto Pellai e Barbara Tamborini – DeAgostini 2021
“Il libro che avete tra le mani è un manuale per genitori (e non solo) che intende diffondere, con semplicità e chiarezza, una visione complessa sul tema della tecnologia fondata su una base scientifica solida”
Questa la definizione che danno del loro libro gli autori, Alberto Pellai e Barbara Tamborini. Lo scopo è chiaro e loro ne hanno certamente le competenze, non solo per la professione che praticano (psicopedagogista lei, medico e psicoterapeuta lui), ma anche perché coinvolti in prima persona nell’educazione dei loro quattro figli in questa “epoca social”. Dell’adolescenza come periodo particolare ne avevano già parlato nel volume “L’età dello tsunami” (DeAgostini, 2017). Qui invece si tratta nello specifico dell’ingresso della tecnologia nella vita di bambini e ragazzi.
Il titolo, “Vietato ai minori di 14 anni”, è forte, e loro sono ben consapevoli di andare contro al sentire comune che ha fatto suo lo slogan “Vietato Vietare!”. Eppure, se anche il legislatore ha posto un limite di età, qualche ragione ci deve pur essere. La cosa impone una riflessione a supporto di chi sceglie di combattere una faticosa battaglia, quella di attendere i quattordici anni prima di dare uno smartphone ai figli. Una battaglia che Pellai e Tamborini hanno fatto propria e che propongono a tutti gli educatori.
Nelle pagine del libro vengono esposti dati, studi psicologici e motivazioni mediche (splendido l’accenno al “cablaggio delle reti neuronali” che se non avviene in età evolutiva con esperienze e tappe obbligatorie, non avviene mai più) ma anche numerosi contributi da parte di genitori che si rivolgono a loro come esperti. In effetti, si potrebbe dire che il volume è scritto da ben più di quattro mani! Vengono così messe in dubbio posizioni quali “Non è lo strumento ad essere malvagio ma l’uso che se ne fa”, “L’importante è insegnare ad usarlo bene”, “Sì, ma mio figlio lo sa gestire”. Piuttosto si può affermare, come è vero per il vino o per l’automobile, che lo strumento è buono purché utilizzato alla giusta età.
Da buon manuale, non possono mancare, dopo una parte descrittiva del problema, le indicazioni pratiche per affrontare le diverse situazioni in cui ci si può trovare (figli grandi o figli piccoli, già con uno smartphone personale o ancora senza…). Non mancano qui le note autobiografiche, che fanno capire al lettore come nessuno sia impeccabile e che è sempre utile mettersi in discussione.
La rassicurazione è che, condividendo e facendo solidamente proprie le motivazioni proposte, la strada per affrontare con successo la sfida è sì in salita, ma alla nostra portata.
Miriam Dal Bosco
Dic 22, 2022 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Marcello Bramati, Lorenzo Sanna – Sperling & Kupfer, 2017
L’utilità della lettura a partire dall’infanzia e, poi, nel corso della vita è una di quelle verità universalmente accettate e ripetute come un mantra in tutti gli ambiti che abbiano a che fare con l’educazione.
Più raro è trovare chi dia suggerimenti e proponga percorsi collaudati per appassionare i bambini e gli adolescenti a una pratica che oggi vede la forte e schiacciante concorrenza di altri strumenti.
Ci soccorre questo pratico libretto, strutturato a mo’ di sandwich tra la prefazione di Cecilia Randall (pseudonimo dell’Autrice della fortunata serie di Hyperversum) e la postfazione di Pietro Vaghi (Autore di Scritto sulla mia pelle, un bel romanzo di formazione). All’interno vi scoviamo una dovizia di preziosi suggerimenti e indicazioni di buone pratiche.
Gli Autori, Marcello Bramati e Lorenzo Sanna, sono insegnanti di lettere e padri di famiglia e ben riuniscono nelle proprie persone le competenze dei due diversi ruoli.
L’impostazione del libretto è estremamente pragmatica. Dopo un accattivante test per i genitori (da fare senza imbrogliare, mi raccomando!) e uno per i (potenziali) lettori, teso a evidenziarne i diversi profili (dal lettore accanito fino a quello disinteressato e prevenuto), Bramati e Sanna ci conducono per mano attraverso un metodo, simpaticamente denominato “delle 6 S”, che viene successivamente declinato per le diverse tipologie di lettori.
Mi permetto di menzionare brevemente alcune delle S proposte.
Innanzitutto quella di Squadra. Come recita il celebre e forse abusato proverbio africano “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”, oggi più che mai l’educazione rischia di naufragare se non è fondata su concrete e virtuose alleanze: tra famiglia e scuola, tra genitori e genitori, tra compagni e amici e anche – perché no? – con un libraio di fiducia.
Senza dimenticare naturalmente la S di Specchio, non a caso nel libro proposta per prima, a significare che l’esempio fondamentale i bambini lo ricevono dai genitori e dalle loro abitudini.
Ho apprezzato particolarmente il ruolo che gli Autori attribuiscono alla lettura ad alta voce, Strumento per eccellenza nel percorso proposto. Questa S ulteriore ci rimanda alle letture fatte ad alta voce ai bambini, alle declamazioni (tutti sappiamo per esperienza quanto un testo appaia diverso e giunga a conquistarci quando pronunciato da un bravo lettore), ai moderni audiolibri, per i quali si spezza doverosamente una lancia.
Quando, cinque anni fa, il libro veniva pubblicato, stavano già diffondendosi nelle scuole le buone pratiche di lettura libera in classe secondo i dettami del Writing and Reading Workshop, diffuso in Italia da Jenny Poletti Riz (di cui è appena uscito Educare alla lettura con il WRW. Metodo e strumenti per la scuola secondaria di primo grado, scritto con Silvia Pognante per la Erickson). Per quanto Sanna e Bramati non vi facciano cenno, alcune convergenze di vedute sono sorprendenti, confermando ulteriormente la validità dell’approccio.
Suggellano il volume alcuni consigli di lettura, distinti per tipologia di lettore.
Insomma, partendo dalla constatazione che, come diceva Italo Calvino, “si legge solo per amore”, o “per piacere” come preferiscono esprimersi i nostri Autori, sono benedetti tutti i tentativi per far scoccare nei figli-alunni la Scintilla (altra S) dell’amore per i libri. Scintilla che innesca un processo preziosissimo negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, e che solitamente prosegue, magari alternando stagioni diverse, negli anni della maturità.
Daniele Marazzina
Ott 14, 2022 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Nuccio Ordine – Bompiani 2020
Prima della partenza per il mare entro in libreria con il proposto di comprare un libro che, ahimè, non c’è; mentre mi accingo cheto cheto ad andare via, però, il mio sguardo si posa su un “timido” libricino adagiato sul bancone. A primo acchito non attira la mia attenzione, sarà per quella semplice copertina beige, abbellita solo da una piccola figura geometrica a righe colorate. Una veste sicuramente poco appariscente rispetto agli abiti pomposi di molti romanzi di moda. La copertina tuttavia mi ammicca con un titolo un po’ strano, direi “ossimorico”: “L’utilità dell’inutile”. Che strano! Mi avvicino, lo afferro e, sopraffatto dalla curiosità, cerco di conoscerlo meglio: il libro suscita in me una profonda simpatia, forse per le recensioni di noti intellettuali (non solo italiani), forse per l’accattivante presentazione dei contenuti, forse per l’alto profilo intellettuale dell’autore Nuccio Ordine. Lo compro e decido di leggerlo.
Devo ammettere che l’esperienza è stata veramente piacevole, costruttiva e proficua, tant’è che con vivo entusiasmo ho subito consigliato la lettura ai miei amici.
Non si tratta di un classico romanzo di formazione, né di una raccolta di racconti, ma di un fortunato saggio “manifesto” pubblicato dalla casa editrice Bompiani (la prima edizione è del 2013) e caratterizzato dalla raccolta di riflessioni aventi per oggetto i temi del sapere, della conoscenza e della ricerca. Attraverso una serie di accattivanti e limpide argomentazioni, non prive di piacevoli incontri con i volti noti e meno noti della filosofia, della letteratura e anche del sapere scientifico, Nuccio Ordine riesce a legare le “riflessioni sparse” (così le cita nella Nota all’edizione italiana del 2022) da una tesi di fondo: per fronteggiare il rischio che la nostra società degeneri nella “dittatura del profitto”, del possesso, dell’avere e, soprattutto, dell’utile, occorre coltivare un sapere che sia disinteressato, gratuito e, appunto, inutile. Probabilmente all’homo oeconomicus del XXI secolo, che si tratti di un alunno, di un impiegato, di un operaio o un dirigente, questi temi possono sembrare degni di una chiacchierata di nicchia tra pochi intellettuali. Insomma: nella società dei consumi, della produzione e della velocità, solo il “canto delle sirene” del possesso e dell’utile sembra essere in grado di ammaliare l’uomo, distraendolo dalla contemplazione della propria dignità.
A che serve, in effetti, studiare latino, filosofia o letteratura? Oppure, a cosa giova spendere immensi capitali per finanziare la ricerca astronomica? In periodo di crisi, inoltre, non sarebbe utile finanziare prevalentemente le attività produttive? Insomma: a cosa serve la cultura “inutile”? Dà da mangiare? Non sarebbe più utile finanziare la ricerca scientifica applicata e mirata al raggiungimento di specifici obiettivi? Domande e dubbi legittimi, in quanto “nell’universo dell’utilitarismo – ironizza l’autore – un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro”, ma se volgiamo lo sguardo al quadro della storia della civiltà e ai suoi progressi immateriali, non si può negare indubbiamente il ruolo che il sapere disinteressato ha avuto per la creazione non solo di un orizzonte civile, ma anche del pensiero critico! I temi dell’amore, della bellezza, della verità e della tolleranza, per esempio, non possono affermarsi se non grazie a quei saperi che molti, purtroppo, continuano a snobbare, perché, forse, meno utili di una chiave inglese. Oggi spesso si parla di crisi, tuttavia sappiamo che essa è una costante nella storia dell’uomo, e come insegna la parola stessa (κρίνω significa “distinguere”, “giudicare”), in tali momenti occorre fare delle “scelte”. Molto probabilmente la mente pragmatica e utilitaristica dell’uomo moderno in queste situazioni pensa a tutto ma non alla cultura disinteressata, eppure già nel 1848 un celebre scrittore (Victor Hugo), rivolgendosi all’Assemblea Costituente, spese parole che oggi suonano attuali: per uscire da una crisi non si devono fare scelte orientate solo al benessere “materiale” ma soprattutto ad accendere le “fiaccole delle menti”. Lo scrittore francese, battendosi contro i tagli alla cultura, usa espressioni eloquenti, come “pane del pensiero” e “dello spirito”, in riferimento all’istruzione che, proprio in tempo di crisi, pur se apparentemente inutile e non di prima necessità, deve essere coltivata per uscire dall’ignoranza, dalle logiche utilitaristiche del profitto e del potere e “risollevare lo spirito dell’uomo”, educandolo al bello e alla consapevolezza della propria dignità di essere umano (interessanti, a tal riguardo, i riferimenti non solo ai classici, come Seneca, ma anche ai grandi umanisti italiani, quali Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti).
A questo punto, però, occorre fare una precisazione: in tali riflessioni non si insinua affatto l’idea di contrapporre le humanae litterae ai saperi scientifici. Anzi! Tale dicotomia è superata in quanto, anche grazie al contributo di un illuminante saggio di Abraham Flexner del 1937 e riportato in appendice, la ricerca scientifica apparentemente “inutile” (ispirata alla curiositas e non a obiettivi meramente utilitaristici) ha prodotto con il tempo e in modo inaspettato grandi risultati. Forse molti non sanno, per esempio, che le invenzioni di Guglielmo Marconi hanno un grosso debito nei confronti delle ricerche sulle onde elettromagnetiche svolte da James Clerk Maxwell e Heinrich Rudolf Hertz, i quali erano lontani dall’idea pratica di costruire una radio! Diciamo che Marconi è stato un abile tecnico che ha sfruttato delle conoscenze pregresse per fini pratici. Alcune grandi scoperte, quindi, affondano le loro radici in ricerche scientifiche che sono state alimentate solo dall’apparente inutilità dell’indagine.
A cosa serve la cultura, allora? Per servire a qualcosa, non deve essere utile.
A tal riguardo penso a una famosa sequenza del film “Quo vado” del 2016 che narra la bizzarra storia di un uomo ancorato al posto fisso. In una scena ambientata durante la fanciullezza del protagonista, un insegnante rivolge a lui e ai suoi compagni la classica domanda “Che vuoi fare da grande?” (si badi al verbo “fare”, oggi predominante rispetto ad “essere”). Le risposte sono quelle che noi, genitori e non, ci possiamo immaginare: chi il veterinario, chi il musicista, chi lo scienziato, fino a quando Checco, il protagonista, con ingenuità risponde di volere il posto fisso. Ho volutamente riportato questo episodio in quanto penso che rispecchi una parte della nostra società, la cui istruzione spesso è intesa esclusivamente come strumento atto a creare futuri lavoratori (si pensi alla terminologia che la scuola sta importando dal modo aziendalistico, come “competenze”, “strategie”, “obiettivi”, per non parlare degli infiniti acronimi). Tuttavia, come ricorda Nuccio Ordine, “far coincidere l’essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo”, in quanto “in qualsiasi uomo c’è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere”. Questo “qualcosa di essenziale” consiste nel raggiungimento del “bene comune”, che può essere garantito solo uscendo dalla dimensione individualistica e rivendicando principi universalmente validi, come la solidarietà, la libertà, la giustizia, che solo da un sapere disinteressato possono essere generati.
Per usare una formula non mia ma di Edmondo De Amicis, la scuola permette all’uomo di vincere contro la barbarie e la vittoria consiste, per l’appunto, nella civiltà umana.
Carlo Giallombardo
Mag 12, 2022 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)
Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.
Se, come dice l’autore, “Gli unici sostituti di una esperienza che non abbiamo mai vissuto in prima persona sono l’arte e la letteratura”, questo è uno dei libri che vanno letti.
Si tratta di un romanzo ambientato in un ospedale dove curano il cancro, malattia per la quale lo stesso Solzenicyn è stato curato. Pur essendo un vero romanzo, il libro è cosparso senz’altro di sfumature autobiografiche, di esperienze che lui stesso ha vissuto. Ci sono tanti personaggi, che rivelano in fondo ognuno di noi di fronte all’ineluttabilità della vita e della morte.
Magistrale è il cap. XXX nel quale una donna medico, primaria del reparto, scopre di essere a sua volta malata di cancro e va a trovare il suo vecchio insegnante. In quel colloquio traspare, attraverso pennellate magistrali, ciò che più conta e per cui viviamo… e accettiamo di morire: le relazioni umane.
Michael Dall’Agnello
Mag 12, 2022 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)
Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.
Il libro racconta con stile semplice, senza enfasi, una qualunque giornata di un detenuto qualsiasi all’interno di uno dei tanti campi di concentramento stalinisti sparsi per la Siberia. Solzenicyn narra le “gesta” di Ivan, che cerca, come tutti gli altri 364 giorni dell’anno, di non morire di fame o di freddo, ma soprattutto di restare un uomo e come ciò sia necessario proprio per non morire di fame o di freddo. Un episodio di particolare rilievo narra di come gli stessi internati siano costretti a costruire, con temperature proibitive e pochi strumenti, un muro inutile. Per rimanere uomini e in un certo modo “liberi”, questi hanno fatto di tutto, anche ciò che non era consentito, per compiere un lavoro ben fatto, correndo pure il rischio di essere puniti.
In questo testo, come in tutti i suoi scritti, traspaiono l’umanità e la profondità dell’autore, anche da un punto di vista educativo, e ci ricorda che ogni uomo, anche il più cattivo, rimane pur sempre un uomo, idea indispensabile anche oggi.
Michael Dall’Agnello
Feb 27, 2022 | Home, Invito alla lettura, Newsletter
Quando ci si trova di fronte ad un’opera d’arte, si è chiamati a raccogliere l’invito implicito dell’artista di “leggerne” il significato. Per questa prima newsletter del nuovo anno vogliamo farci guidare nella lettura di un opera d’arte
Chiamata “la Cappella Sistina” di Verona perché tutta ricoperta di affreschi, la Sala Morone è un manufatto rinascimentale straordinario, ma purtroppo non molto conosciuto.
Si trova all’interno del convento francescano di San Bernardino, a pochi passi da Castelvecchio. Deve il suo nome al pittore Domenico Morone che, con i pittori della sua bottega, la affrescò nell’anno 1503.
La sala costituiva la biblioteca del convento e conteneva quasi quattromila volumi che, dopo le soppressioni napoleoniche, furono trasferiti alla Biblioteca Civica.
La sala non ha l’aspetto di un’antica biblioteca, con le pareti coperte da scaffali di legno scuro. Al contrario è priva di mobilio, ha le pareti ricoperte di coloratissimi affreschi ed è inondata di luce grazie alle 10 ampie finestre.
Per essere un luogo di studio e di silenzio è in un certo senso piuttosto affollato e rumoroso: il programma iconografico infatti, sviluppato da fra’ Ludovico Della Torre, prevede più di 60 figure di santi e beati, tutti in dialogo fra loro.
Le pareti laterali rappresentano frati minori che hanno scritto libri di filosofia, teologia e spiritualità: le loro figure erano intese come etichette parlanti, poiché sotto a ciascuna immagine si trovavano alcuni bassi mobili con ante contenenti le loro rispettive opere.
Tutti i frati indossano lo stesso saio, ma in diverse gradazioni di grigio, bianco, beige, marrone ed ocra, e portano calzari di foggia diversa. Ogni figura si intrattiene con l’altra in un dialogo fitto ma sereno. Questa sala ci mette davanti agli occhi una folla di individui unici e diversi tra loro, tutti gioiosamente in relazione. Le figure esprimono il “pace e bene”, cioè il tradizionale saluto francescano. L’atmosfera emotiva che traspare è quella della beatitudine: una “perfetta letizia” che per Francesco non sarà solamente in Paradiso, ma è possibile già oggi su questa terra.
La parete di fondo è il punto focale dell’intera stanza: se dalle pareti la gioia ci è comunicata attraverso la diversità umana e l’essere in relazione, qui decisamente la “perfetta letizia” passa attraverso la rappresentazione della natura. Domina la scena un brillante colore azzurro lapislazzulo, che continua a riempire gli occhi per molto tempo dopo la fine della visita.
Azzurro è il cielo, limpido e con graziose nuvole bianche; azzurra è l’acqua del lago (è il lago di Garda, familiare e molto vicino). Perfino le montagne che saldano cielo e terra sono di un brillante colore azzurro!
Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole…
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo…
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua…
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra..
Francesco trova il Paradiso già in questo mondo: egli “viveva…in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (Laudato Sii, 10)
Domenico Morone, che in quel momento ha 61 anni ed è pittore affermato e maturo, usa il colore, il movimento delle figure e la rappresentazione di una natura serena e pacificata per esprimere la vitalità e la forza della fede francescana.
Nella parete di fondo organizza lo spazio in modo tripartito, mostrando di padroneggiare la lezione di Mantegna nella pala della vicina basilica di San Zeno. Davanti al meraviglioso paesaggio naturale, dispone i personaggi: la Madonna con un volto dolcissimo, quasi adolescenziale, al suo fianco molti angeli, uno diverso dall’altro, i due colti e ricchi committenti Lionello Sagramoso e la moglie Anna, i santi Francesco e Chiara. Ai lati, santi dell’ordine francescano tra cui i cinque martiri del Marocco, che ispirarono la conversione di Sant’Antonio da Padova, anch’egli qui raffigurato.
Sapiente arte rinascimentale generosamente finanziata e colta committenza collidono in questo luogo per dare corpo e colore al dirompente e sempre attuale messaggio francescano che il Paradiso è già in terra, basta saperlo vedere.
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Valeria Biasi