L’utilità dell’inutile. Manifesto – (Newsletter n.15 settembre – ottobre 2022)

L’utilità dell’inutile. Manifesto – (Newsletter n.15 settembre – ottobre 2022)

Nuccio Ordine – Bompiani 2020

Prima della partenza per il mare entro in libreria con il proposto di comprare un libro che, ahimè, non c’è; mentre mi accingo cheto cheto ad andare via, però, il mio sguardo si posa su un “timido” libricino adagiato sul bancone. A primo acchito non attira la mia attenzione, sarà per quella semplice copertina beige, abbellita solo da una piccola figura geometrica a righe colorate. Una veste sicuramente poco appariscente rispetto agli abiti pomposi di molti romanzi di moda. La copertina tuttavia mi ammicca con un titolo un po’ strano, direi “ossimorico”: “L’utilità dell’inutile”.  Che strano! Mi avvicino, lo afferro e, sopraffatto dalla curiosità, cerco di conoscerlo meglio: il libro suscita in me una profonda simpatia, forse per le recensioni di noti intellettuali (non solo italiani), forse per l’accattivante presentazione dei contenuti, forse per l’alto profilo intellettuale dell’autore Nuccio Ordine. Lo compro e decido di leggerlo. 

Devo ammettere che l’esperienza è stata veramente piacevole, costruttiva e proficua, tant’è che con vivo entusiasmo ho subito consigliato la lettura ai miei amici. 

Non si tratta di un classico romanzo di formazione, né di una raccolta di racconti, ma di un fortunato saggio “manifesto” pubblicato dalla casa editrice Bompiani (la prima edizione è del 2013) e caratterizzato dalla raccolta di riflessioni aventi per oggetto i temi del sapere, della conoscenza e della ricerca. Attraverso una serie di accattivanti e limpide argomentazioni, non prive di piacevoli incontri con i volti noti e meno noti della filosofia, della letteratura e anche del sapere scientifico, Nuccio Ordine riesce a legare le “riflessioni sparse” (così le cita nella Nota all’edizione italiana del 2022) da una tesi di fondo: per fronteggiare il rischio che la nostra società degeneri nella “dittatura del profitto”, del possesso, dell’avere e, soprattutto, dell’utile, occorre coltivare un sapere che sia disinteressato, gratuito e, appunto, inutile. Probabilmente all’homo oeconomicus del XXI secolo, che si tratti di un alunno, di un impiegato, di un operaio o un dirigente, questi temi possono sembrare degni di una chiacchierata di nicchia tra pochi intellettuali. Insomma: nella società dei consumi, della produzione e della velocità, solo il “canto delle sirene” del possesso e dell’utile sembra essere in grado di ammaliare l’uomo, distraendolo dalla contemplazione della propria dignità. 

A che serve, in effetti, studiare latino, filosofia o letteratura? Oppure, a cosa giova spendere immensi capitali per finanziare la ricerca astronomica? In periodo di crisi, inoltre, non sarebbe utile finanziare prevalentemente le attività produttive? Insomma: a cosa serve la cultura “inutile”? Dà da mangiare? Non sarebbe più utile finanziare la ricerca scientifica applicata e mirata al raggiungimento di specifici obiettivi? Domande e dubbi legittimi, in quanto “nell’universo dell’utilitarismo – ironizza l’autore – un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro”, ma se volgiamo lo sguardo al quadro della storia della civiltà e ai suoi progressi immateriali, non si può negare indubbiamente il ruolo che il sapere disinteressato ha avuto per la creazione non solo di un orizzonte civile, ma anche del pensiero critico! I temi dell’amore, della bellezza, della verità e della tolleranza, per esempio, non possono affermarsi se non grazie a quei saperi che molti, purtroppo, continuano a snobbare, perché, forse, meno utili di una chiave inglese.  Oggi spesso si parla di crisi, tuttavia sappiamo che essa è una costante nella storia dell’uomo, e come insegna la parola stessa (κρίνω significa “distinguere”, “giudicare”), in tali momenti occorre fare delle “scelte”. Molto probabilmente la mente pragmatica e utilitaristica dell’uomo moderno in queste situazioni pensa a tutto ma non alla cultura disinteressata, eppure già nel 1848 un celebre scrittore (Victor Hugo), rivolgendosi all’Assemblea Costituente, spese parole che oggi suonano attuali: per uscire da una crisi non si devono fare scelte orientate solo al benessere “materiale” ma soprattutto ad accendere le “fiaccole delle menti”. Lo scrittore francese, battendosi contro i tagli alla cultura, usa espressioni eloquenti, come “pane del pensiero” e “dello spirito”, in riferimento all’istruzione che, proprio in tempo di crisi, pur se apparentemente inutile e non di prima necessità, deve essere coltivata per uscire dall’ignoranza, dalle logiche utilitaristiche del profitto e del potere e “risollevare lo spirito dell’uomo”, educandolo al bello e alla consapevolezza della propria dignità di essere umano (interessanti, a tal riguardo, i riferimenti non solo ai classici, come Seneca, ma anche ai grandi umanisti italiani, quali Giovanni Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti). 

A questo punto, però, occorre fare una precisazione: in tali riflessioni non si insinua affatto l’idea di contrapporre le humanae litterae ai saperi scientifici. Anzi! Tale dicotomia è superata in quanto, anche grazie al contributo di un illuminante saggio di Abraham Flexner del 1937 e riportato in appendice, la ricerca scientifica apparentemente “inutile” (ispirata alla curiositas e non a obiettivi meramente utilitaristici) ha prodotto con il tempo e in modo inaspettato grandi risultati. Forse molti non sanno, per esempio, che le invenzioni di Guglielmo Marconi hanno un grosso debito nei confronti delle ricerche sulle onde elettromagnetiche svolte da James Clerk Maxwell e Heinrich Rudolf Hertz, i quali erano lontani dall’idea pratica di costruire una radio! Diciamo che Marconi è stato un abile tecnico che ha sfruttato delle conoscenze pregresse per fini pratici. Alcune grandi scoperte, quindi, affondano le loro radici in ricerche scientifiche che sono state alimentate solo dall’apparente inutilità dell’indagine. 

A cosa serve la cultura, allora? Per servire a qualcosa, non deve essere utile. 

A tal riguardo penso a una famosa sequenza del film “Quo vado” del 2016 che narra la bizzarra storia di un uomo ancorato al posto fisso. In una scena ambientata durante la fanciullezza del protagonista, un insegnante rivolge a lui e ai suoi compagni la classica domanda “Che vuoi fare da grande?” (si badi al verbo “fare”, oggi predominante rispetto ad “essere”). Le risposte sono quelle che noi, genitori e non, ci possiamo immaginare: chi il veterinario, chi il musicista, chi lo scienziato, fino a quando Checco, il protagonista, con ingenuità risponde di volere il posto fisso. Ho volutamente riportato questo episodio in quanto penso che rispecchi una parte della nostra società, la cui istruzione spesso è intesa esclusivamente come strumento atto a creare futuri lavoratori (si pensi alla terminologia che la scuola sta importando dal modo aziendalistico, come “competenze”, “strategie”, “obiettivi”, per non parlare degli infiniti acronimi). Tuttavia, come ricorda Nuccio Ordine, “far coincidere l’essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo”, in quanto “in qualsiasi uomo c’è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere”. Questo “qualcosa di essenziale” consiste nel raggiungimento del “bene comune”, che può essere garantito solo uscendo dalla dimensione individualistica e rivendicando principi universalmente validi, come la solidarietà, la libertà, la giustizia, che solo da un sapere disinteressato possono essere generati.

Per usare una formula non mia ma di Edmondo De Amicis, la scuola permette all’uomo di vincere contro la barbarie e la vittoria consiste, per l’appunto, nella civiltà umana.

Carlo Giallombardo

Reparto C / Padiglione cancro (1967)  – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Reparto C / Padiglione cancro (1967) – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)

Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.

Se, come dice l’autore, “Gli unici sostituti di una esperienza che non abbiamo mai vissuto in prima persona sono l’arte e la letteratura”, questo è uno dei libri che vanno letti.

Si tratta di un romanzo ambientato in un ospedale dove curano il cancro, malattia per la quale lo stesso Solzenicyn è stato curato. Pur essendo un vero romanzo, il libro è cosparso senz’altro di sfumature autobiografiche, di esperienze che lui stesso ha vissuto. Ci sono tanti personaggi, che rivelano in fondo ognuno di noi di fronte all’ineluttabilità della vita e della morte.

Magistrale è il cap. XXX nel quale una donna medico, primaria del reparto, scopre di essere a sua volta malata di cancro e va a trovare il suo vecchio insegnante. In quel colloquio traspare, attraverso pennellate magistrali, ciò che più conta e per cui viviamo… e accettiamo di morire: le relazioni umane.

Michael Dall’Agnello

Una giornata di Ivan Denisovic (1962)  – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Una giornata di Ivan Denisovic (1962) – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)

Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.

Il libro racconta con stile semplice, senza enfasi, una qualunque giornata di un detenuto qualsiasi all’interno di uno dei tanti campi di concentramento stalinisti sparsi per la Siberia. Solzenicyn narra le “gesta” di Ivan, che cerca, come tutti gli altri 364 giorni dell’anno, di non morire di fame o di freddo, ma soprattutto di restare un uomo e come ciò sia necessario proprio per non morire di fame o di freddo. Un episodio di particolare rilievo narra di come gli stessi internati siano costretti a costruire, con temperature proibitive e pochi strumenti, un muro inutile. Per rimanere uomini e in un certo modo “liberi”, questi hanno fatto di tutto, anche ciò che non era consentito, per compiere un lavoro ben fatto, correndo pure il rischio di essere puniti.

In questo testo, come in tutti i suoi scritti, traspaiono l’umanità e la profondità dell’autore, anche da un punto di vista educativo, e ci ricorda che ogni uomo, anche il più cattivo, rimane pur sempre un uomo, idea indispensabile anche oggi.

Michael Dall’Agnello

Il “paradiso in terra” – La Sala Morone in San Bernardino  – (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

Il “paradiso in terra” – La Sala Morone in San Bernardino – (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

Quando ci si trova di fronte ad un’opera d’arte, si è chiamati a raccogliere l’invito implicito dell’artista di “leggerne” il significato. Per questa prima newsletter del nuovo anno vogliamo farci guidare nella lettura di un opera d’arte

Chiamata “la Cappella Sistina” di Verona perché tutta ricoperta di affreschi, la Sala Morone è un manufatto rinascimentale straordinario, ma purtroppo non molto conosciuto.

Si trova all’interno del convento francescano di San Bernardino, a pochi passi da Castelvecchio. Deve il suo nome al pittore Domenico Morone che, con i pittori della sua bottega, la affrescò nell’anno 1503.

La sala costituiva la biblioteca del convento e conteneva quasi quattromila volumi che, dopo le soppressioni napoleoniche, furono trasferiti alla Biblioteca Civica.

La sala non ha l’aspetto di un’antica biblioteca, con le pareti coperte da scaffali di legno scuro. Al contrario è priva di mobilio, ha le pareti ricoperte di coloratissimi affreschi ed è inondata di luce grazie alle 10 ampie finestre.

Per essere un luogo di studio e di silenzio è in un certo senso piuttosto affollato e rumoroso: il programma iconografico infatti, sviluppato da fra’ Ludovico Della Torre, prevede più di 60 figure di santi e beati, tutti in dialogo fra loro. 

Le pareti laterali rappresentano frati minori che hanno scritto libri di filosofia, teologia e spiritualità: le loro figure erano intese come etichette parlanti, poiché sotto a ciascuna immagine si trovavano alcuni bassi mobili con ante contenenti le loro rispettive opere.

Tutti i frati indossano lo stesso saio, ma in diverse gradazioni di grigio, bianco, beige, marrone ed ocra, e portano calzari di foggia diversa. Ogni figura si intrattiene con l’altra in un dialogo fitto ma sereno. Questa sala ci mette davanti agli occhi una folla di individui unici e diversi tra loro, tutti gioiosamente in relazione. Le figure esprimono il “pace e bene”, cioè il tradizionale saluto francescano. L’atmosfera emotiva che traspare è quella della beatitudine: una “perfetta letizia” che per Francesco non sarà solamente in Paradiso, ma è possibile già oggi su questa terra.

La parete di fondo è il punto focale dell’intera stanza: se dalle pareti la gioia ci è comunicata attraverso la diversità umana e l’essere in relazione, qui decisamente la “perfetta letizia” passa attraverso la rappresentazione della natura. Domina la scena un brillante colore azzurro lapislazzulo, che continua a riempire gli occhi per molto tempo dopo la fine della visita. 

Azzurro è il cielo, limpido e con graziose nuvole bianche; azzurra è l’acqua del lago (è il lago di Garda, familiare e molto vicino). Perfino le montagne che saldano cielo e terra sono di un brillante colore azzurro! 

Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole…

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo…

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua…

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra..

Francesco trova il Paradiso già in questo mondo: egli “viveva…in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (Laudato Sii, 10)

Domenico Morone, che in quel momento ha 61 anni ed è pittore affermato e maturo, usa il colore, il movimento delle figure e la rappresentazione di una natura serena e pacificata per esprimere la vitalità e la forza della fede francescana.

Nella parete di fondo organizza lo spazio in modo tripartito, mostrando di padroneggiare la lezione di Mantegna nella pala della vicina basilica di San Zeno. Davanti al meraviglioso paesaggio naturale, dispone i personaggi: la Madonna con un volto dolcissimo, quasi adolescenziale, al suo fianco molti angeli, uno diverso dall’altro, i due colti e ricchi committenti Lionello Sagramoso e la moglie Anna, i santi Francesco e Chiara. Ai lati, santi dell’ordine francescano tra cui i cinque martiri del Marocco, che ispirarono la conversione di Sant’Antonio da Padova, anch’egli qui raffigurato.

Sapiente arte rinascimentale generosamente finanziata e colta committenza collidono in questo luogo per dare corpo e colore al dirompente e sempre attuale messaggio francescano che il Paradiso è già in terra, basta saperlo vedere.

.

Valeria Biasi

Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza  – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Paola Mastrocola, Luca Ricolfi – La nave di Teseo, 2021

La scuola democratica, quella che intende garantire il diritto all’istruzione a tutti gli studenti, anche a quelli privi di mezzi, ma capaci e meritevoli, come recita l’art. 34 della Costituzione (citato non a caso all’inizio del testo), insomma la scuola “progressista”, è diventata, al contrario, una fonte di disuguaglianza. Detto con le parole degli autori, la scuola (e in questo termine è ricompresa anche l’università) è divenuta, almeno negli ultimi vent’anni, “classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale, non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza, non fa che certificare e riprodurre privilegi e differenze”.

Questa è la tesi, provocatoria e paradossale, che i due autori, nella vita marito e moglie, intendono sostenere, portando a sostegno non solo la loro lunga esperienza di insegnamento, liceale per lei e universitario per lui, ma documentandola con l’analisi di dati statistici sulla mobilità sociale messi a disposizione dall’ISTAT.

La ragione principale che ha reso la scuola pubblica incapace di essere strumento efficace di emancipazione sociale è individuata dagli autori nel progressivo calo della preparazione e dell’impegno richiesti a scuola. Insomma, avere abbassato l’asticella ha permesso certamente di avere un alto numero di diplomati e laureati, ma nello stesso tempo ha comportato una netta diminuzione della qualità delle competenze possedute soprattutto dagli studenti appartenenti ai ceti popolari, confermando i privilegi di quelli delle classi medio-alte. Questa posizione non è nuova per Paola Mastrocola, che l’aveva sostenuta già in diversi libri precedenti, tra cui il fortunato La scuola raccontata al mio cane del 2004. Da ultimo, nel 2017, era tornata sull’argomento con il saggio Ipotesi sulla disuguaglianza apparso sul sito della Fondazione Hume, di cui Luca Ricolfi, sociologo ed editorialista per grandi quotidiani, è fondatore e presidente. La novità del presente libro è che quella che veniva definita un’ipotesi, ossia che l’abbassamento scolastico danneggiasse i ceti popolari, sarebbe ora pienamente confermata dai dati, di cui il capitolo quarto fornisce una esposizione non priva di alcuni tecnicismi (che sono compiutamente presentati in appendice), ma comprensibile anche ai non addetti ai lavori.

In base a tale analisi, l’autore ritiene si possa stabilire che “sul destino sociale di un ragazzo, non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione”. La responsabilità maggiore è attribuita alla cultura progressista, soprattutto di matrice sessantottina, che ha scambiato la scolarizzazione di massa, ossia la democratizzazione dell’accesso agli studi (ideale in se stesso più che condivisibile) con il “diritto al successo formativo” e la rinuncia a ogni ideale meritocratico, e il conseguente abbassamento del livello qualitativo dell’istruzione impartita ha privato gli studenti dei ceti bassi dell’unico strumento per competere con quelli delle classi più elevate.

La conclusione degli autori è pessimistica, ritenendo difficile invertire la rotta, anche a causa del fatto che questa situazione non riguarda solamente l’Italia, ma più in generale il mondo occidentale. La speranza è che i genitori, a cui è indirizzata una lettera aperta in chiusura del volume, si accorgano di questa situazione, e pretendano una scuola dove si trasmetta seriamente la conoscenza, al riparo da tutte le mode didattiche degli ultimi tempi.

Alessandro Cortese

Giovanni Paolo II, Compendio della Teologia del corpo (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Giovanni Paolo II, Compendio della Teologia del corpo (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

a cura di Yves Semen – Edizioni ARES, 2017

È curioso constatare come la Chiesa Cattolica abbia sempre preteso di affermare la propria voce in merito a tematiche che parrebbero non essere di propria pertinenza. Così come Leone XIII, con la pubblicazione della lettera enciclica Rerum Novarum nel 1891, introdusse la Chiesa Cattolica nella riflessione sulla cosiddetta “questione sociale”, segnando un netto scarto rispetto alla narrazione social-comunista, pure Giovanni Paolo II impostò il proprio magistero secondo una linea  che potremmo definire “interventista” nei confronti della contemporaneità. In particolare, il pensiero di Karol Wojtyla si concentrò notevolmente sul “corpo” e sulla “sessualità”. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa un papa, che vive la disciplina del celibato, possa affermare di veramente originale su tali questioni. Tuttavia, tale riflessione fu così centrale in Giovanni Paolo II che egli vi dedicò quasi tutte le udienze generali dei primi cinque anni del pontificato (dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984). Per ben 129 mercoledì il papa polacco propose un percorso catechetico che prese successivamente il nome di Teologia del Corpo. Questo enorme materiale documentario nel 2016 è stato nuovamente riorganizzato e riassunto in un breve e agile compendio curato dal professore Yves Semen, tra i principali studiosi del magistero wojtyliano, ed edito nel 2017 in Italia per i tipi di Ares.

Come gli altri compendi, anche il libro di Semen è pensato principalmente per i non addetti ai lavori, senza tuttavia “annacquare” il pensiero di Giovanni Paolo II. Pur nel rispetto dell’impostazione generale delle udienze, il Compendio è arricchito di uno schema dettagliato dei temi proposti e da un lungo ma semplice glossario dei concetti fondamentali e delle espressioni chiave presenti nel volume. Quest’ultimo è infine diviso in due grandi capitoli, che riflettono sulla visione cristologica e sacramentale della corporeità. Con un continuo richiamo ai testi evangelici, in particolare al «discorso della Montagna» (cfr Mt. 5, 1-7, 29) e alla lettera paolina agli Efesini (cfr. Ef. 5, 21-33), papa Wojtyla propone una cosiddetta “redenzione del corpo” che, dalla concezione tipicamente manichea di sede del peccato originale, diventa il luogo in cui l’uomo e la donna hanno la possibilità di costruire la propria identità. Secondo la riflessione wojtyliana infatti, l’essere umano si distingue dagli altri viventi per la capacità di donarsi con dignità da «persona alla persona» (cfr. pag. 63). Riallacciandosi al magistero precedente, in particolare alla costituzione pastorale Gaudium et Spes e alla lettera enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (di cui le udienze di Wojtyla paiono una sorta di “commento approfondito”), Giovanni Paolo II afferma con solennità che la sessualità vissuta in verità è il più profondo atto dell’amore sponsale di una coppia, in cui la continenza (cfr. pag. 82 e 83), la genitorialità responsabile (cfr. pag. 143) e la sottomissione reciproca all’amato/a (cfr. pag. 99) rappresentano non una rinuncia della propria libertà, ma un’affermazione dell’amore nei confronti della propria dignità in relazione al proprio corpo (cfr. pag. 57). In quanto padrone di sé, afferma il pontefice, l’uomo e la donna possono infine donarsi in libertà nei confronti dell’altro/a e potersi concedere in questo modo all’amore coniugale.

Giovanni Paolo II condanna tutte quelle «mercificazioni del corpo», con particolare riferimento alla pornografia, in cui non solo è minata l’intimità personale del soggetto ma, ancora più profondamente, è violata la «regolarità del dono e del reciproco donarsi» (cfr. pag. 64). Per correggere tali deviazioni, infine, il papa consiglia di investire le energie su una pedagogia del corpo,  che possa istruire l’uomo e la donna contemporanei a riconoscere nel corpo il «segno della persona» e, in un certo senso, accompagnarli a maturare un’adeguata «spiritualità del corpo» (cfr. pag. 61). L’obiettivo più profondo dell’insegnamento di Giovanni Paolo II sulla sessualità è infatti quello di indicare ai fedeli cattolici, a genitori e a educatori un orizzonte pedagogico che permetta di instaurare una relazione piena e vera con la propria corporeità e, in questo modo, poter amare sinceramente anche il prossimo.

Le tematiche qui brevemente proposte sono un semplice saggio dei numerosi percorsi di riflessione che le udienze di Giovanni Paolo II hanno in qualche modo inaugurato e approfondito. Il Compendio è sicuramente uno degli strumenti più adatti non solo per comprendere la Teologia del Corpo ma anche per indagare nel dettaglio l’insegnamento di Karol Wojtyla, ancora estremamente attuale sotto molti aspetti. 

Concludo questa breve recensione al Compendio citando le parole di Giovanni Paolo II che, almeno in parte, rispondono alle domande che ci ponevamo in apertura, in merito alla “legittimità di una Teologia del Corpo”. Scrive il papa:

«Il fatto che la teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare né sorprendere. Tanti uomini nel matrimonio cercano il compimento della loro vocazione e la via della salvezza e della santità. Cristo conduce l’uomo, maschio e femmina, sulla via della “redenzione del corpo”, che deve consistere nel ricuperare questa dignità in cui si compie il vero significato del corpo umano» (pag. 27-28).

Stefano Sasso