Reparto C / Padiglione cancro (1967)  – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Reparto C / Padiglione cancro (1967) – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)

Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.

Se, come dice l’autore, “Gli unici sostituti di una esperienza che non abbiamo mai vissuto in prima persona sono l’arte e la letteratura”, questo è uno dei libri che vanno letti.

Si tratta di un romanzo ambientato in un ospedale dove curano il cancro, malattia per la quale lo stesso Solzenicyn è stato curato. Pur essendo un vero romanzo, il libro è cosparso senz’altro di sfumature autobiografiche, di esperienze che lui stesso ha vissuto. Ci sono tanti personaggi, che rivelano in fondo ognuno di noi di fronte all’ineluttabilità della vita e della morte.

Magistrale è il cap. XXX nel quale una donna medico, primaria del reparto, scopre di essere a sua volta malata di cancro e va a trovare il suo vecchio insegnante. In quel colloquio traspare, attraverso pennellate magistrali, ciò che più conta e per cui viviamo… e accettiamo di morire: le relazioni umane.

Michael Dall’Agnello

Una giornata di Ivan Denisovic (1962)  – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Una giornata di Ivan Denisovic (1962) – (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Aleksandr Isayevich Solzenicyn (1918 – 2008)

Dissidente russo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma che ha vissuto per circa vent’anni negli Stati Uniti.

Il libro racconta con stile semplice, senza enfasi, una qualunque giornata di un detenuto qualsiasi all’interno di uno dei tanti campi di concentramento stalinisti sparsi per la Siberia. Solzenicyn narra le “gesta” di Ivan, che cerca, come tutti gli altri 364 giorni dell’anno, di non morire di fame o di freddo, ma soprattutto di restare un uomo e come ciò sia necessario proprio per non morire di fame o di freddo. Un episodio di particolare rilievo narra di come gli stessi internati siano costretti a costruire, con temperature proibitive e pochi strumenti, un muro inutile. Per rimanere uomini e in un certo modo “liberi”, questi hanno fatto di tutto, anche ciò che non era consentito, per compiere un lavoro ben fatto, correndo pure il rischio di essere puniti.

In questo testo, come in tutti i suoi scritti, traspaiono l’umanità e la profondità dell’autore, anche da un punto di vista educativo, e ci ricorda che ogni uomo, anche il più cattivo, rimane pur sempre un uomo, idea indispensabile anche oggi.

Michael Dall’Agnello

Il “paradiso in terra” – La Sala Morone in San Bernardino  – (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

Il “paradiso in terra” – La Sala Morone in San Bernardino – (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

Quando ci si trova di fronte ad un’opera d’arte, si è chiamati a raccogliere l’invito implicito dell’artista di “leggerne” il significato. Per questa prima newsletter del nuovo anno vogliamo farci guidare nella lettura di un opera d’arte

Chiamata “la Cappella Sistina” di Verona perché tutta ricoperta di affreschi, la Sala Morone è un manufatto rinascimentale straordinario, ma purtroppo non molto conosciuto.

Si trova all’interno del convento francescano di San Bernardino, a pochi passi da Castelvecchio. Deve il suo nome al pittore Domenico Morone che, con i pittori della sua bottega, la affrescò nell’anno 1503.

La sala costituiva la biblioteca del convento e conteneva quasi quattromila volumi che, dopo le soppressioni napoleoniche, furono trasferiti alla Biblioteca Civica.

La sala non ha l’aspetto di un’antica biblioteca, con le pareti coperte da scaffali di legno scuro. Al contrario è priva di mobilio, ha le pareti ricoperte di coloratissimi affreschi ed è inondata di luce grazie alle 10 ampie finestre.

Per essere un luogo di studio e di silenzio è in un certo senso piuttosto affollato e rumoroso: il programma iconografico infatti, sviluppato da fra’ Ludovico Della Torre, prevede più di 60 figure di santi e beati, tutti in dialogo fra loro. 

Le pareti laterali rappresentano frati minori che hanno scritto libri di filosofia, teologia e spiritualità: le loro figure erano intese come etichette parlanti, poiché sotto a ciascuna immagine si trovavano alcuni bassi mobili con ante contenenti le loro rispettive opere.

Tutti i frati indossano lo stesso saio, ma in diverse gradazioni di grigio, bianco, beige, marrone ed ocra, e portano calzari di foggia diversa. Ogni figura si intrattiene con l’altra in un dialogo fitto ma sereno. Questa sala ci mette davanti agli occhi una folla di individui unici e diversi tra loro, tutti gioiosamente in relazione. Le figure esprimono il “pace e bene”, cioè il tradizionale saluto francescano. L’atmosfera emotiva che traspare è quella della beatitudine: una “perfetta letizia” che per Francesco non sarà solamente in Paradiso, ma è possibile già oggi su questa terra.

La parete di fondo è il punto focale dell’intera stanza: se dalle pareti la gioia ci è comunicata attraverso la diversità umana e l’essere in relazione, qui decisamente la “perfetta letizia” passa attraverso la rappresentazione della natura. Domina la scena un brillante colore azzurro lapislazzulo, che continua a riempire gli occhi per molto tempo dopo la fine della visita. 

Azzurro è il cielo, limpido e con graziose nuvole bianche; azzurra è l’acqua del lago (è il lago di Garda, familiare e molto vicino). Perfino le montagne che saldano cielo e terra sono di un brillante colore azzurro! 

Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole…

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo…

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua…

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra..

Francesco trova il Paradiso già in questo mondo: egli “viveva…in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (Laudato Sii, 10)

Domenico Morone, che in quel momento ha 61 anni ed è pittore affermato e maturo, usa il colore, il movimento delle figure e la rappresentazione di una natura serena e pacificata per esprimere la vitalità e la forza della fede francescana.

Nella parete di fondo organizza lo spazio in modo tripartito, mostrando di padroneggiare la lezione di Mantegna nella pala della vicina basilica di San Zeno. Davanti al meraviglioso paesaggio naturale, dispone i personaggi: la Madonna con un volto dolcissimo, quasi adolescenziale, al suo fianco molti angeli, uno diverso dall’altro, i due colti e ricchi committenti Lionello Sagramoso e la moglie Anna, i santi Francesco e Chiara. Ai lati, santi dell’ordine francescano tra cui i cinque martiri del Marocco, che ispirarono la conversione di Sant’Antonio da Padova, anch’egli qui raffigurato.

Sapiente arte rinascimentale generosamente finanziata e colta committenza collidono in questo luogo per dare corpo e colore al dirompente e sempre attuale messaggio francescano che il Paradiso è già in terra, basta saperlo vedere.

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Valeria Biasi

Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza  – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Paola Mastrocola, Luca Ricolfi – La nave di Teseo, 2021

La scuola democratica, quella che intende garantire il diritto all’istruzione a tutti gli studenti, anche a quelli privi di mezzi, ma capaci e meritevoli, come recita l’art. 34 della Costituzione (citato non a caso all’inizio del testo), insomma la scuola “progressista”, è diventata, al contrario, una fonte di disuguaglianza. Detto con le parole degli autori, la scuola (e in questo termine è ricompresa anche l’università) è divenuta, almeno negli ultimi vent’anni, “classista, ben poco democratica, non fa da ascensore sociale, non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza, non fa che certificare e riprodurre privilegi e differenze”.

Questa è la tesi, provocatoria e paradossale, che i due autori, nella vita marito e moglie, intendono sostenere, portando a sostegno non solo la loro lunga esperienza di insegnamento, liceale per lei e universitario per lui, ma documentandola con l’analisi di dati statistici sulla mobilità sociale messi a disposizione dall’ISTAT.

La ragione principale che ha reso la scuola pubblica incapace di essere strumento efficace di emancipazione sociale è individuata dagli autori nel progressivo calo della preparazione e dell’impegno richiesti a scuola. Insomma, avere abbassato l’asticella ha permesso certamente di avere un alto numero di diplomati e laureati, ma nello stesso tempo ha comportato una netta diminuzione della qualità delle competenze possedute soprattutto dagli studenti appartenenti ai ceti popolari, confermando i privilegi di quelli delle classi medio-alte. Questa posizione non è nuova per Paola Mastrocola, che l’aveva sostenuta già in diversi libri precedenti, tra cui il fortunato La scuola raccontata al mio cane del 2004. Da ultimo, nel 2017, era tornata sull’argomento con il saggio Ipotesi sulla disuguaglianza apparso sul sito della Fondazione Hume, di cui Luca Ricolfi, sociologo ed editorialista per grandi quotidiani, è fondatore e presidente. La novità del presente libro è che quella che veniva definita un’ipotesi, ossia che l’abbassamento scolastico danneggiasse i ceti popolari, sarebbe ora pienamente confermata dai dati, di cui il capitolo quarto fornisce una esposizione non priva di alcuni tecnicismi (che sono compiutamente presentati in appendice), ma comprensibile anche ai non addetti ai lavori.

In base a tale analisi, l’autore ritiene si possa stabilire che “sul destino sociale di un ragazzo, non influiscono solo l’origine sociale, il contesto economico, la lunghezza degli studi, ma anche altri due elementi cruciali: la qualità dell’istruzione ricevuta e il grado di indulgenza nella valutazione”. La responsabilità maggiore è attribuita alla cultura progressista, soprattutto di matrice sessantottina, che ha scambiato la scolarizzazione di massa, ossia la democratizzazione dell’accesso agli studi (ideale in se stesso più che condivisibile) con il “diritto al successo formativo” e la rinuncia a ogni ideale meritocratico, e il conseguente abbassamento del livello qualitativo dell’istruzione impartita ha privato gli studenti dei ceti bassi dell’unico strumento per competere con quelli delle classi più elevate.

La conclusione degli autori è pessimistica, ritenendo difficile invertire la rotta, anche a causa del fatto che questa situazione non riguarda solamente l’Italia, ma più in generale il mondo occidentale. La speranza è che i genitori, a cui è indirizzata una lettera aperta in chiusura del volume, si accorgano di questa situazione, e pretendano una scuola dove si trasmetta seriamente la conoscenza, al riparo da tutte le mode didattiche degli ultimi tempi.

Alessandro Cortese

Giovanni Paolo II, Compendio della Teologia del corpo (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Giovanni Paolo II, Compendio della Teologia del corpo (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

a cura di Yves Semen – Edizioni ARES, 2017

È curioso constatare come la Chiesa Cattolica abbia sempre preteso di affermare la propria voce in merito a tematiche che parrebbero non essere di propria pertinenza. Così come Leone XIII, con la pubblicazione della lettera enciclica Rerum Novarum nel 1891, introdusse la Chiesa Cattolica nella riflessione sulla cosiddetta “questione sociale”, segnando un netto scarto rispetto alla narrazione social-comunista, pure Giovanni Paolo II impostò il proprio magistero secondo una linea  che potremmo definire “interventista” nei confronti della contemporaneità. In particolare, il pensiero di Karol Wojtyla si concentrò notevolmente sul “corpo” e sulla “sessualità”. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa un papa, che vive la disciplina del celibato, possa affermare di veramente originale su tali questioni. Tuttavia, tale riflessione fu così centrale in Giovanni Paolo II che egli vi dedicò quasi tutte le udienze generali dei primi cinque anni del pontificato (dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984). Per ben 129 mercoledì il papa polacco propose un percorso catechetico che prese successivamente il nome di Teologia del Corpo. Questo enorme materiale documentario nel 2016 è stato nuovamente riorganizzato e riassunto in un breve e agile compendio curato dal professore Yves Semen, tra i principali studiosi del magistero wojtyliano, ed edito nel 2017 in Italia per i tipi di Ares.

Come gli altri compendi, anche il libro di Semen è pensato principalmente per i non addetti ai lavori, senza tuttavia “annacquare” il pensiero di Giovanni Paolo II. Pur nel rispetto dell’impostazione generale delle udienze, il Compendio è arricchito di uno schema dettagliato dei temi proposti e da un lungo ma semplice glossario dei concetti fondamentali e delle espressioni chiave presenti nel volume. Quest’ultimo è infine diviso in due grandi capitoli, che riflettono sulla visione cristologica e sacramentale della corporeità. Con un continuo richiamo ai testi evangelici, in particolare al «discorso della Montagna» (cfr Mt. 5, 1-7, 29) e alla lettera paolina agli Efesini (cfr. Ef. 5, 21-33), papa Wojtyla propone una cosiddetta “redenzione del corpo” che, dalla concezione tipicamente manichea di sede del peccato originale, diventa il luogo in cui l’uomo e la donna hanno la possibilità di costruire la propria identità. Secondo la riflessione wojtyliana infatti, l’essere umano si distingue dagli altri viventi per la capacità di donarsi con dignità da «persona alla persona» (cfr. pag. 63). Riallacciandosi al magistero precedente, in particolare alla costituzione pastorale Gaudium et Spes e alla lettera enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (di cui le udienze di Wojtyla paiono una sorta di “commento approfondito”), Giovanni Paolo II afferma con solennità che la sessualità vissuta in verità è il più profondo atto dell’amore sponsale di una coppia, in cui la continenza (cfr. pag. 82 e 83), la genitorialità responsabile (cfr. pag. 143) e la sottomissione reciproca all’amato/a (cfr. pag. 99) rappresentano non una rinuncia della propria libertà, ma un’affermazione dell’amore nei confronti della propria dignità in relazione al proprio corpo (cfr. pag. 57). In quanto padrone di sé, afferma il pontefice, l’uomo e la donna possono infine donarsi in libertà nei confronti dell’altro/a e potersi concedere in questo modo all’amore coniugale.

Giovanni Paolo II condanna tutte quelle «mercificazioni del corpo», con particolare riferimento alla pornografia, in cui non solo è minata l’intimità personale del soggetto ma, ancora più profondamente, è violata la «regolarità del dono e del reciproco donarsi» (cfr. pag. 64). Per correggere tali deviazioni, infine, il papa consiglia di investire le energie su una pedagogia del corpo,  che possa istruire l’uomo e la donna contemporanei a riconoscere nel corpo il «segno della persona» e, in un certo senso, accompagnarli a maturare un’adeguata «spiritualità del corpo» (cfr. pag. 61). L’obiettivo più profondo dell’insegnamento di Giovanni Paolo II sulla sessualità è infatti quello di indicare ai fedeli cattolici, a genitori e a educatori un orizzonte pedagogico che permetta di instaurare una relazione piena e vera con la propria corporeità e, in questo modo, poter amare sinceramente anche il prossimo.

Le tematiche qui brevemente proposte sono un semplice saggio dei numerosi percorsi di riflessione che le udienze di Giovanni Paolo II hanno in qualche modo inaugurato e approfondito. Il Compendio è sicuramente uno degli strumenti più adatti non solo per comprendere la Teologia del Corpo ma anche per indagare nel dettaglio l’insegnamento di Karol Wojtyla, ancora estremamente attuale sotto molti aspetti. 

Concludo questa breve recensione al Compendio citando le parole di Giovanni Paolo II che, almeno in parte, rispondono alle domande che ci ponevamo in apertura, in merito alla “legittimità di una Teologia del Corpo”. Scrive il papa:

«Il fatto che la teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare né sorprendere. Tanti uomini nel matrimonio cercano il compimento della loro vocazione e la via della salvezza e della santità. Cristo conduce l’uomo, maschio e femmina, sulla via della “redenzione del corpo”, che deve consistere nel ricuperare questa dignità in cui si compie il vero significato del corpo umano» (pag. 27-28).

Stefano Sasso

Il Signore degli Anelli  – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Il Signore degli Anelli – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

J. R. R. Tolkien (1954 – 1955)

Quanti avranno già visto il film o letto il libro?

Ciò che vi proponiamo oggi e di rileggerlo anche da un punto di vista educativo, e magari consigliarlo ai nostri ragazzi. Non è forse vero che nei racconti, più che nei ragionamenti, i ragazzi spesso, grazie all’immedesimazione, scoprono anche il valore e la bellezza del bene?

Oltre all’avvincente trama, nasconde molti insegnamenti. Eccone uno dove Gandalf il mago correggere il giudizio di morte che aveva fatto dire a Frodo che sarebbe stato meglio che Bilbo, suo zio, avesse ucciso Gollum, l’essere spregevole che si era impossessato del malefico anello:

Merita la morte! Eccome! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca a essere curato rima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che, prima della fine di questa storia, l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà la Pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo.

Eccone un altro, dove Gandalf intravvede una sorta di provvidenza/destino che opera anche quando ci capitano pesi gravosi, come quello di dover distruggere un anello malefico. Così parla dell’anello malefico che abbandona Gollum per stare con Bilbo e finire in mano a Frodo:

… esso abbandonò Gollum, e capitò in mano alla persona più incredibile: Bilbo della Contea! Dietro a questo incidente c’era una forza in gioco che il creatore dell’anello [Sauron, il signore del male] non avrebbe mai sospettata. È difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante.

Oppure quello di non smettere mai di essere aperti con le persone, perché fino in fondo non si conosce mai nessuno:
Mio caro Frodo! — esclamò Gandalf —. Gli Hobbit sono veramente esseri stupefacenti, come ho sempre sostenuto. Puoi imparare tutto sui loro usi e costumi in un mese, e tuttavia dopo cento anni riescono a meravigliarti ed a stupirti.

E questo, un meraviglioso dialogo, quasi filosofico, tra due “maghi”, in cui uno, Saruman il bianco, ormai pervertito, cerca di convincere Gandalf il grigio a passare dalla sua parte, e dove si contrappongono due idee di conoscenza: la prima che la vede come un modo per ottenere il potere, l’altra per raggiungere la vera sapienza:

Lo guardai, e vidi che le sue vesti non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista.

“Preferivo il bianco”, dissi.

“Bianco” sogghignò. “Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta”.
“Nel qual caso non sarà più bianca” dissi. “E colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza”.

E poi ancora, come a dire che non si dialoga con il male, rappresentato dall’anello:

Si avvicinò posando una lunga mano sul mio braccio. “E perché no, Gandalf?”, bisbigliò. “Perché no? L’Anello Dominante? Se potessimo comandarlo la potenza passerebbe nelle nostre mani”. Dicendo così non riuscì a nascondere la brama che gli brillò improvvisamente negli occhi.

“Saruman”, dissi allontanandomi da lui, “una mano sola alla volta può adoperare l’Unico, e lo sai bene; non darti la pena di dire noi!

Eccone un altro, pronunciato da un Elfo di nome Haldir:

Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.

Ecco un discorso di Sam a Frodo:

– Sam: È come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale. Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire il perché. Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso so. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto. Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa


– Frodo: Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– Sam: C’è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo

E poi: È il lavoro che non è mai iniziato che impiega più tempo a finire.

– Dama Galadriel: Anche la più piccola persona può cambiare il corso del futuro.

– Gildor: Il vasto mondo è tutto intorno a te: puoi recintarti, ma non puoi recintarlo per sempre.

Buona lettura.

Michael Dall’Agnello