Non giudicare ma comprendere (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Non giudicare ma comprendere (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Una seria riflessione sulla didattica della storia non può prescindere da una più profonda analisi dell’utilità della storia come disciplina scolastica.

Nelle mie prime lezioni di storia in una nuova classe ho sempre posto agli studenti questa domanda: «A cosa serve secondo voi la storia?». Non nasconderò che la maggioranza rispondeva con un semplice «niente» e, sarò sincero, una parte di me si trova in accordo. In un’epoca segnata dalla “dittatura della tecnica” e da un insegnamento ultra-specializzante, basato spesso su progetti fine a sé stessi, materie come la storia sembrerebbero inutili. Quale senso ha, in effetti, investire due o addirittura tre ore alla settimana per studiare eventi, date, nomi, luoghi legati a un passato più o meno remoto ma apparentemente slegato dalle esigenze del presente? Nessun senso, potremmo dire.

Altri studenti rispondono che la storia è “maestra di vita”: in altre parole, «si studia la storia per conoscere gli errori del passato e per evitare di commetterli nuovamente». Forse sarò brutale, ma questo approccio rende ancora più noioso lo studio della storia. Mi spiego meglio: molti dei nostri giudizi sulle scelte compiute nel passato, oltre ad essere anacronistici perché totalmente decontestualizzati, ci fanno credere di essere “migliori” del nostro passato. «Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo da separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai dannati?», si chiedeva magistralmente Marc Bloch, il padre degli studi storici moderni.

Troppo frequentemente infatti, e io ho subito da studente questa esperienza, l’insegnante di turno ha piegato la narrazione storica a una riflessione faziosa e ideologizzata, contrassegnata da un moralismo feroce. Non ci si può lamentare del disinteresse degli studenti se la lezione di storia si trasforma in un’aula di tribunale o, ancora peggio, in una tribuna elettorale.

Sembra una contraddizione ma solo adottando un atteggiamento non-giudizioso, e quindi comprensivo, nei confronti del passato possiamo rendere il passato stesso appassionante e avvincente. Se nella nostra didattica riusciremo a lasciare fuori dalla porta la “mania del giudizio” la storia diventerà viva perché scopriremo che chi ci ha preceduto, seppur in situazioni sociali ed economiche diverse, non era tanto diverso da noi. Non sto quindi affermando che si possa insegnare la storia in maniera totalmente oggettiva, ogni insegnante infatti è figlio di un’epoca o comunque portatore di una determinata visione del mondo e quindi del passato. La storia non è un libro già scritto da ripetere annualmente.

Ho sempre pensato che la lezione di storia non debba essere tanto diversa da uno studio di anatomia: seppur con strumenti diversi, tra le pieghe della storia l’insegnante dovrebbe far emergere gli uomini e le donne in carne e ossa, con i loro sentimenti e le loro speranze. In questo senso ogni scelta del passato, che secondo la nostra lettura contemporanea potrebbe sembrare irrazionale, assume un significato perché dietro ad essa si cela la vita di un essere umano. Per spiegare meglio la necessità della riscoperta di questo lato umanistico della storia, farò un esempio forse drastico, nella speranza di non urtare la sensibilità di qualcuno: è scorretto affermare a priori che Hitler fosse un pazzo; è necessario invece riflettere e comprendere perché quasi 20 milioni di tedeschi nel 1933 decisero di votare il partito nazionalsocialista. La differenza è sostanziale, nel metodo di insegnamento e nei risultati attesi. La scelta si riassume in due parole: giudicare o comprendere. Vorrei precisare che non sto affermando che l’atto di giudicare sia in sé negativo, poiché nella nostra quotidianità siamo costantemente chiamati a giudicare e scegliere una posizione. Sono convinto tuttavia che l’astensione da facili giudizi non solo accenda nello studente il desiderio di comprendere più approfonditamente il proprio passato, ma lo possa aiutare anche a porsi le giuste domande e, soprattutto, a non accontentarsi di risposte semplici e banali, magari imposte dall’alto.

Insegnare a porsi le giuste domande, questo è il grande obiettivo dell’insegnamento della storia a scuola, a qualsiasi ordine e grado. In questo senso, la storia diventa uno strumento utilissimo per lo studente al fine di affinare quelle abilità che potrà poi spendere nella sua vita professionale e nella società civile.

Stefano Sasso

Stefano Sasso è il curatore di un podcast di storia “History on Air – Scuola di storia” presente su Spotify

La storia è un bene per tutti. Insegnare storia in una prospettiva umanistica –  (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

La storia è un bene per tutti. Insegnare storia in una prospettiva umanistica – (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Intervista al professor Andrea Caspani

Riportiamo l’intervista condotta al prof. Andrea Caspani, già docente di storia e dirigente scolastico, direttore della rivista online LineaTempo – Itinerari di ricerca storica e letteraria (http://www.lineatempo.eu). Ha svolto per vari anni il coordinamento del tirocinio e il laboratorio di didattica della storia per le SSIS, ha tenuto corsi di Storia contemporanea e di Didattica della storia all’Università Cattolica. Ha pubblicato vari studi di didattica della storia e di storia moderna e contemporanea, fra cui Memoria storica e insegnamento della storia (2003); La storia italiana: una questione d’identità (2005), Storie scelte. Elementi e pratiche di una didattica della storia (2008) L’Italia di Manzoni (2011), La prima follia mondiale chiamata guerra (2014). Ha curato la mostra storica del Meeting di Rimini: Testimoni della verità nell’Italia in guerra. La resistenza cancellata (2007).

In una nostra precedente newsletter (n. 10 del giugno 2021) era apparsa una sua intervista sul bicentenario napoleonico che potete leggere cliccando qui.

Citando March Bloch e il suo “Apologia della storia o mestiere dello storico”, certamente uno dei testi classici della riflessione sul senso e sul metodo della storiografia, vorrei partire chiedendole “A cosa serve la storia?”.

Questa bellissima domanda colpisce il problema dell’attuale disaffezione nei confronti della storia soprattutto da parte dei giovani. Il punto di partenza per una risposta esistenzialmente adeguata è comprendere che la storia, intesa come consapevolezza dello svolgersi dell’io nel tempo, è una dimensione costitutiva dell’umano, è ciò che permette la formazione dell’identità di una persona, perché ci apre alla realtà a 360 gradi,mettendoci in contatto con il mondo da cui veniamo, e aiutandoci a contrastare la mentalità di oggi tendenzialmente individualistica, che sembra teorizzare che ognuno si fa da solo o decide da solo il senso di tutte le cose. La storia invece ci insegna che noi non ci facciamo da soli, come si può notare semplicemente guardando il proprio ombelico (immagine che di solito viene utilizzata per dire che ognuno pensa solo a sé ed è responsabile solo di sé stesso), perché proprio l’ombelico indica che ciascuno di noi viene da altri.

In questo senso la storia serve ad aprirsi ragionevolmente al futuro e a combattere il presentismo attuale, perché fa comprendere che l’attesa e l’apertura al futuro non è connessa solo all’immediato presente, ma che questo è frutto e sviluppo di un passato, che va ricompreso, rielaborato ed assimilato criticamente se non si vuole vivere in modo squilibrato.

Il compito della storia è aiutarci a comprendere le nostre radici: acquisire la consapevolezza che, se vogliamo guardare realisticamente in avanti, occorre prendere coscienza che veniamo da lontano. Faccio un parallelo con quanto ci insegna la psicoanalisi sull’importanza di una equilibrata memoria personale (che superi cioè le lacune e le ferite del passato che hanno condotto alle rimozioni di cui tante volte non siamo neanche consapevoli) per la formazione di una personalità adulta responsabile: ebbene la storia, che è la nostra memoria sociale, svolge la stessa funzione terapeutica della psicoanalisi su un piano più generale, infatti se non ripercorriamo bene il nostro passato, con le sue luci ed ombre, come popolo, come umanità, rischiamo di non riuscire a guardare in modo realistico al presente. Chi non fa questo dà ragione a quel detto che dice che chi non conosce la storia è destinato a ripeterla, e aggiungerei, a ripeterla soprattutto nelle sue ombre

“Historia magistra vitae” diceva Cicerone. Cosa pensa di questa celebre definizione? Ce n’è una che si sente di dare o a cui si sente più vicino?

Questo giudizio di Cicerone è molto interessante, ma è solo parzialmente vero: perché normalmente porta a considerare la storia come un catalogo di episodi, strutture e concezioni da utilizzare per non ripetere gli errori del passato. In questo senso non è vero che la storia è magistra vitae, tanto è vero che molti oggi sostengono essere evidente l’esatto contrario, ovvero che dal passato non si può imparare niente, visto che si continuano a ripetere gli stessi errori del passato, come ad esempio mostra il continuo ripresentarsi delle guerre viste come l’unico modo per risolvere i problemi drammatici dei popoli e dell’umanità.

Occorre riconoscere che la storia non ci insegna come evitare gli errori del passato. Da questo punto di vista io ritengo più vera l’affermazione di Umberto Eco, che in un passo famoso diceva che la storia insegna a capire come si è arrivati a questo punto, ma non dove si va. Anzi, lui aggiungeva che, se qualcuno ti dice che la storia insegna come andranno le cose è o un ingenuo o un mascalzone. Al di là della battuta, la storia, secondo me, è magistra vitae nel senso che ci permette di contestualizzare il nostro passato, e attraverso di esso di cogliere ed incontrare il tesoro dell’esperienza umana dei nostri predecessori, che è fatta non solo delle ombre della violenza e delle guerre, ma anche di aspirazioni ideali, di slanci eroici, di affermazioni di valori, di realizzazioni ed opere che hanno segnato un progresso reale nella vita dell’umanità.

Conoscere tutto questo ci permetterà di trarre ispirazioni positive dal passato, ma non ci permetterà mai di dire che direzione prenderà la storia. Perché la direzione che prenderà la storia dipende dall’atteggiamento, dalla visione, dal sogno ideale che ciascuno di noi ha, e che non è deducibile dalla somma dei fattori del passato che ci condizionano. 

Se ci basiamo sulla classica distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura, la storia viene ricondotta alle prime, attribuendole la funzione di comprendere o interpretare, piuttosto che di spiegare alla maniera delle scienze naturali. Se questo è vero, a quale grado di oggettività può aspirare la verità storica?

È pienamente accettabile la distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura, e l’inserimento della storia nelle prime, perché l’oggetto precipuo della storia è l’uomo, anzi come diceva Marrou, la storia è proprio la conoscenza del passato umano in quanto umano. Questo non vuol dire che la storia studia l’uomo in generale, ma che si studiano gli uomini così come concretamente sono, nella loro avventura lungo la linea del tempo alla ricerca di un significato, che permetta loro la costruzione di una polis strutturata e in grado di affrontare le avversità e le sfide della realtà.

Da questo punto di vista il compito della storia è quello di comprendere il senso dello svolgimento delle azioni degli uomini e il filo sotteso che li motiva all’agire, non quello di spiegare tramite l’individuazione di leggi oggettive (come quelle della fisica) i rapporti tra le cose, tra gli enti.

L’oggetto della storia, infatti, non sono gli enti, ma gli eventi, cioè l’intreccio tra i fattori strutturali del reale, l’intenzionalità dell’agire dell’uomo e gli elementi casuali che interferiscono con questi.

In questo senso il fine della ricerca storica è la comprensione del senso degli eventi, non la loro spiegazione tramite leggi o costanti, né tanto meno la pretesa di giudicare moralisticamente gli eventi o i periodi storici. La storia non coincide con il giudizio morale sul passato, altrimenti non potremmo studiare realtà profondamente disumane come, ad esempio, il nazismo. 

Ogni evento o periodo, siccome è sempre implicato l’agire umano, che è cangiante e oscillante tra l’aspirazione ai grandi ideali e il rischio della disumanità perfino nel segreto del proprio cuore, va studiato con un “oggettivo” atteggiamento di empatia verso il tentativo dell’uomo di quel tempo di trovare un significato ideale e una conseguente strutturazione della polis, ma con la consapevolezza che non si giungerà mai ad uno sguardo onnicomprensivo e totalizzante del passato, cosa che può fare solo Dio. Questo spiega perché nella scienza storica permanga sempre un margine di incertezza su diversi aspetti particolari, e sia inesauribile la possibilità di un miglioramento della comprensione dell’umano del passato da parte della ricerca storica.

Questo, però, non toglie che la storia sia una scienza che raggiunge certezze, perché il metodo storico-critico, se applicato bene, ci permette di accertare che certi eventi sono realmente accaduti, ed anche, sia pur con un’approssimazione prospettica, il perché e il come sono accaduti.

Infatti, l’obiettivo della storia non è la verosimiglianza, (che è l’obiettivo del romanzo storico o della fiction televisiva seria), ma la certezza provata sugli eventi del passato e sul senso del loro accadere. Facciamo solo un esempio molto semplice: si può discutere, e infatti lo si sta ancora facendo, sulle interpretazioni della caduta del muro di Berlino e sulle cause della fine della Guerra Fredda, ma nessuno può negare che il muro di Berlino sia caduto e che questo abbia cambiato l’orizzonte della storia europea e mondiale. 

A volte può succedere di ascoltare lamenti circa un diffuso disinteresse degli studenti per la storia insegnata a scuola. Dall’altra parte, il successo, anche presso i giovani, di noti storici (come Alessandro Barbero tanto per citarne uno) e di canali di storia su internet fa pensare che l’interesse per la storia sia ancora forte, ma forse bisogna saper trovare il modo giusto per parlarne. Ha qualche riflessione da offrirci in proposito?

Certamente il contesto sociale del mondo occidentale che oggi non considera più importante la dimensione storica per la realizzazione della persona è un fattore demotivante, ma sono convinto che molte volte il problema della disaffezione o del disinteresse dei ragazzi dipende proprio dal modo di insegnare. La conferma ce la danno proprio gli storici citati sopra, che oggi richiamano l’attenzione di giovani e grandi per la loro capacità affabulatoria che evidenzia l’aspetto esistenziale dell’avventura degli uomini del passato.

Nella misura, infatti, in cui uno storico riesce a narrare, cioè a mostrare l’interazione fra l’agire e le intenzioni degli uomini con il contesto naturale e le strutture socio-economiche di un periodo dato, immediatamente si supera quell’estraneità che un ragazzo oggi vive verso ogni tipo di passato, fosse anche l’attentato alle Torri Gemelle; tutto ciò che non è nell’orizzonte del suo presente, per lui è storia “archeologica”, lontanissima da quel che sente come reale.  

Passando a parlare in modo più specifico della didattica della storia, quali indicazioni generali di metodo consiglierebbe ai docenti per suscitare negli studenti l’interesse per la disciplina permettendo a quest’ultimi di raggiungere un buon livello di competenza storica? E al contrario, secondo lei, quali possono essere gli errori più comuni o le pratiche didattiche meno efficaci, ma magari ancora oggi molto diffuse tra gli insegnanti? 

Il punto fondamentale è comprendere che l’insegnante di storia ha un compito diverso da quello del ricercatore. Mentre lo storico mira all’accertamento dei fatti, alla ricostruzione complessiva di un contesto e di un periodo, l’insegnante di storia ha come compito fondamentale quello di introdurre il ragazzo a immedesimarsi nella dimensione storica, a pensare e immaginare storicamente, a incontrare l’umanità degli uomini del passato. Questo richiede una prospettiva di metodo che è diversa da quella dello storico. Per questo sono falliti tanti tentativi in buona fede di cambiare la didattica tradizionale, perché hanno puntato ad esempio ad approfondire la ricerca delle fonti o il confronto tra le interpretazioni, puntando a educare il ragazzo a diventare uno piccolo storico. Di fatto mentre solo alcuni ragazzi diventeranno magari dei futuri storici, tutti possono appassionarsi alla dimensione storica nella misura in cui comprenderanno che pure in contesti ed epoche diverse gli uomini si sono posti lo stesso problema del senso della vita, dello strutturarsi della vita associata ecc. che è il problema che esistenzialmente vive anche il ragazzo d’oggi. Sono questi gli spunti che favoriscono l’immedesimazione esistenziale di un ragazzo d’oggi con le problematiche degli uomini del passato, purché naturalmente l’insegnante stia ben attento a non cadere nell’anacronismo, cioè nel presentare gli antichi come se ragionassero o avessero gli stessi ideali della nostra epoca, e ad utilizzare con accortezza i risultati delle più serie ricerche storiche.

Che la storia continui a rivestire un’importanza non secondaria, lo dimostra sicuramente l’uso pubblico della storia, con i rischi connessi di ideologizzazione e strumentalizzazione. Quale posto potrebbe avere nella didattica della storia una riflessione su tale dimensione?

La storia ancora oggi ha un grande ruolo sul piano pubblico, anche internazionale. Lo dimostra il fatto che Putin ha predisposto (attraverso anche una serie di interventi sui libri di testo) negli anni precedenti all’attacco contro l’Ucraina del febbraio del 2022, una versione della storia della Russia come di una realtà monolitica, con il principato di Moscovia quale unico erede della Rus di Kiev e il mondo ucraino strutturalmente connesso alla Grande Russia. Questa ricostruzione falsificante della storia russa (come affermano gli storici più autorevoli sul tema) è stata utilizzata come supporto “oggettivante” alle pretese russe verso l’Ucraina e purtroppo appare ancora convincente per tanti russi.

Questo significa che la storia viene usata oggi non soltanto per un discorso ideologizzato su questo o quel nodo storico (come accade da noi su tanti temi del nostro passato novecentesco), ma può essere utilizzata addirittura come fondamento per costruire una prospettiva politica di lungo periodo che condizioni lo svolgimento stesso della storia mondiale. In questo senso, a mio avviso, è molto importante sul piano culturale lavorare perché l’insegnamento della storia ritorni ad essere un asse portante della formazione scolastica.

E poi occorre un insegnamento attento a ripulire la storia da queste falsificazioni, ma questo non lo si può fare in prima battuta mettendo in luce tutti gli errori delle posizioni ideologiche, ma impostando un metodo di lavoro centrato sulla problematizzazione delle origini dei problemi storici attuali. Questo aiuterebbe subito a mostrare che la storia non è fatta tutta di luci per un soggetto e di ombre per un altro, qui il riferimento che mi viene immediato è alla drammatica situazione che sta vivendo la Terrasanta oggi: la storia delle origini della questione israelo-palestinese ad esempio permetterebbe di andare oltre agli atteggiamenti ideologici che guidano gran parte delle reazioni ai drammatici fatti che si succedono dal 7 ottobre ad oggi, favorendo una riflessione più comprensiva delle ragioni dei diversi soggetti storici coinvolti ed insieme delle ombre ma anche delle luci che hanno caratterizzato lo svolgersi degli eventi nel corso di più di un secolo di storia del Medio Oriente.

In questo senso un insegnamento storico criticamente fondato può svolgere una funzione positiva sul piano della formazione umana dei ragazzi, allontanandoli dall’idea che la storia (e soprattutto la sua interpretazione) debba sempre dividere i popoli.

Infine, un’ultima parola sulla rivista on line da lei diretta “LineaTempo – Itinerari di storia, letteratura, filosofia e arte” (www.lineatempo.eu) e rivolta agli insegnanti. Cosa vuole essere e quali scopi si propone?

LineaTempo è una rivista che è nata nel 1997 da un gruppo di docenti di storia che volevano andare a fondo del senso della storia e del suo insegnamento e da un gruppo di docenti universitari attenti alla divulgazione dei risultati della ricerca storica nel mondo della scuola. È una rivista di alta divulgazione che vuole essere di aiuto e di supporto a chi fa un lavoro di insegnamento della storia. Nel corso degli anni l’orizzonte della rivista si è arricchito ed allargato a tutta la dimensione umanistica, grazie anche al fatto che siamo divenuti una rivista online e abbiamo aperto un nostro sito dedicato.

Così sul sito, oltre alla rivista, si trovano diverse sezioni, una ad esempio sull’Ucraina, che abbiamo aperto dopo lo scoppio della guerra, per cercare di illuminare le radici storiche del conflitto, e documentare le luci di umanità che sono apparse. Recentemente abbiamo aperto un’altra sezione, intitolata “Mappe”, che vuole presentare, con testi molto brevi, libri di poesia e di letteratura significativi per la crescita dell’umano. 

La rivista, che ha una periodicità quadrimestrale, è caratterizzata in ogni numero da un ampio Dossier dedicato ad un tema culturale di rilievo: per es. l’ultimo dossier è sui sentieri della pace, ossia come l’esperienza storica del Novecento non sia stata solo una storia di violenza, genocidi e guerre, ma abbia visto anche lo svilupparsi di nuove forme di lotta per la pace, dall’emancipazione non violenta di popoli oppressi all’obiezione di coscienza, tutti riferimenti che potrebbe essere utile riprendere anche in questo periodo di “terza guerra mondiale a pezzi” e che convergono con lo sviluppo della visione della pace che papa Francesco sta portando avanti sulla scia della riflessione dei pontefici precedenti.

Un’altra sezione importante della rivista sono poi i Segmenti, con articoli di docenti ed esperti di storia, letteratura, arte, filosofia e perfino di storia della musica, che illustrano o rivisitano di volta in volta diversi aspetti delle discipline umanistiche in una forma facilmente utilizzabile per chi svolge un lavoro educativo. Completano il quadro i Percorsi culturali che presentano in modo originale e sintetico autori o temi storico-culturali e le Recensioni.

Alessandro Cortese

Insegnare musica, oggi, nella scuola dell’obbligo – sfide ed opportunità (Newsletter n.18 marzo-giugno 2023)

Insegnare musica, oggi, nella scuola dell’obbligo – sfide ed opportunità (Newsletter n.18 marzo-giugno 2023)

Insegnare musica, come avviene per ogni cosa che si desidera trasmettere ad altri, richiede un desiderio profondo di condividere qualcosa di bello e di grande, con la disponibilità ad impegnarsi per questa causa. Tutto questo viene solitamente concentrato in un’espressione molto più  affascinante, anche se un po’ fuori moda: “vocazione” all’insegnamento. 

Negli ultimi anni questa vocazione deve essere più convinta rispetto al passato. Non mi riferisco tanto ad un passato remoto, quando chi voleva imparare a fare il musicista si metteva volontariamente alla “scuola” di un altro musicista, un po’ come facevano altri giovani con qualsiasi altro artigiano, per apprendere le tecniche del mestiere, i segreti, le innovazioni, la capacità di risolvere i problemi legati alla pratica dell’arte… Nel nostro passato più prossimo, invece, da diversi anni, la musica si insegna anche nella scuola dell’obbligo, per cui l’unico tipo di approccio proponibile, a mio avviso, è quello di chi si gioca ogni giorno la sua vocazione all’insegnamento tentando di incuriosire, destare un interesse, far provare bambini e ragazzi ad avvicinarsi al complesso ed inquieto oceano della musica per assaggiarne qualche goccia.

Nella scuola dell’obbligo, questa è sicuramente un grande opportunità: credo che la musica possa avere un ruolo importantissimo nel nostro sistema educativo/scolastico, come disciplina e come forma d’arte

Come disciplina la musica insegna, soprattutto attraverso la pratica, le grandi virtù della costanza, della pazienza, della fatica per arrivare ad ottenere un risultato concreto ed oggettivo; bisogna sottoporsi ad un lavoro intellettivo/manuale che può essere quantitativamente più o meno fruttuoso a seconda del talento e della predisposizione di ogni persona (che non è uguale per tutti, come, del resto, avviene con ogni altra disciplina); fatica imprescindibile per chiunque, se si vuole ottenere un livello di soddisfazione via via maggiore, che giustifichi e rimotivi a sua volta la necessità dell’impegno. La pratica musicale, specie quella in gruppo, favorisce una miriade di facoltà che sono tipiche della nostra umanità: il coordinamento oculo/manuale e spazio/temporale sono i cardini. La capacità di leggere ed articolare una melodia correttamente richiede la comprensione e la gestione di molti parametri contemporaneamente: altezza, intensità, ritmo e misurazione delle durate di suoni e silenzi, e così via. Per molti ragazzi si tratta di un primo approccio un po’ serio al mondo della musica pratica. Poco importa il mezzo impiegato; può essere uno strumento a fiato come il tradizionale flauto, piccoli strumenti a tastiera o a percussione (ovviamente il problema del costo e della praticità negli spostamenti, non è un problema da sottovalutare). L’educazione musicale nella scuola non ambisce certo a formare dei musicisti; molti ragazzi, però, grazie a questo primo approccio, hanno pensato poi di coltivare un loro talento al di fuori della scuola, in gruppi musicali giovanili, in bande musicali, gruppi corali, ecc. Un po’ di soddisfazione di questo tipo arriva sempre!!

Ma la musica è anche (e soprattutto) una forma d’arte e, come tale, è un linguaggio dello spirito umano. Eliminarla dall’educazione di un giovane vorrebbe dire eliminare una finestra verso il cielo, una delle vie che il buon Dio ha concesso agli uomini per poter elevare il loro spirito alla ricerca del Trascendente. Questa parte si coltiva sicuramente molto di più attraverso l’ascolto delle grandi produzioni musicali che oggi chiamiamo “classiche”; termine che, nel suo significato più ampio, riguarda tutte le epoche del passato e tutti i generi musicali. Parliamo della musica (forse, in realtà, solo una piccola parte di quella prodotta) che ha subito quella selezione, spregiudicata a volte ma efficace, che solo il tempo riesce a fare in modo veramente onesto.

La musica del passato, la più sconosciuta e quindi la più difficile da avvicinare, ha molto da insegnare alle nuove generazioni. A volte i ragazzi si stupiscono che da un insegnante di cinquant’anni possa arrivare qualche proposta musicale interessante, forse a volte vogliono anche compiacermi un po’; magari il mio entusiasmo desta in loro un po’ di tenerezza… I momenti in cui li ho sempre visti molto coinvolti sono quelli in cui la musica è ispirata (e quindi associata) ad un testo, come avviene nei musical, nelle canzoni di musica leggera, nel melodramma, nei lied, anche nella musica sacra. Conoscere il testo di partenza è sempre una leva molto efficace per far breccia nella curiosità di chi ascolta ed ottenere poi l’apprezzamento di quella musica che ne amplifica il significato.

Dobbiamo però riuscire a far breccia nel loro mondo, il mondo dei nostri ragazzi di oggi. Talvolta per riuscire a farlo dobbiamo accettare anche di dover imporci; ci stupiamo sempre come alcune cose belle possano non venire accolte con disponibilità! 

Riuscire ad affacciarsi su questo mondo un po’ blindato, che caratterizza da sempre tutti gli adolescenti e trovare un minimo di accoglienza, è una grandissima sfida! 

Gli adolescenti con cui lavoriamo oggi, purtroppo, sono spesso sazi di diverse cose, magari a nostro avviso futili, ma per loro appaganti. Credo che non ci sia niente di più difficile che proporre un qualsiasi piatto prelibato, cucinato con tutto l’amore possibile, ad una persona già sazia di altri cibi più insipidi. Spesso la sazietà e la semplice ignoranza, ovvero la non conoscenza, fanno sì che non si senta nemmeno la curiosità di scoprire altro. Sicuramente anche noi insegnanti non sempre riusciamo a testimoniare l’entusiasmo che alcune grandi espressioni artistiche riscuotono in noi.

Così ogni tanto frugo nei miei ricordi, chiedendomi quali fossero i segreti degli insegnanti (molti, fortunatamente) che ho ritenuto più significativi nel mio percorso scolastico. Ebbene, il comune denominatore di tutte le loro qualità umane e professionali era sempre lo stesso: sono stati molto esigenti con me. Mi chiedevano molto, a tutti chiedevano molto! Sapevano anche toccarci il cuore, ma non per vie accomodanti o concedendo sconti. A volte forse ci sembravano “poco umani”, ma questa parte più negativa oggi è stata quasi completamente cancellata dai ricordi.

Dobbiamo aver più coraggio di fare lo stesso; ecco la prima convinzione che sto maturando sempre di più. Una seconda convinzione è molto legata alla prima. Abbiamo un prezzo più alto da pagare rispetto al passato: spiegare, dialogare, convincere i genitori di oggi che questo tipo di approccio “esigente” ai loro figli è quello più giusto; ossia quello che richiede a noi insegnanti più amore e più dedizione, ma anche più stima e più fiducia nei confronti delle nuove generazioni.

Prof. Damiano Ceschi

La Musica con la M maiuscola è Bellezza – intervista al maestro Paolo Facincani (Newsletter n.18 marzo-giugno 2023)

La Musica con la M maiuscola è Bellezza – intervista al maestro Paolo Facincani (Newsletter n.18 marzo-giugno 2023)

Nel centro di Verona, all’interno del prestigioso chiostro di Sant’Eufemia, troviamo la sede di una preziosa realtà, che della musica ha fatto il suo fulcro: si tratta dell’Accademia Lirica Verona, un’istituzione che opera nel territorio veronese da più di vent’anni. Nella città conosciuta nel mondo per l’anfiteatro tra i più suggestivi ancora in uso, l’Accademia ha certo occasione di mettere alla prova i suoi talenti più giovani. Per permettere, però, a questi ragazzi di scoprire e coltivare la loro passione, ALiVe propone una vera e propria scuola, con appuntamenti e impegni che richiedono grande organizzazione, costanza e spirito di sacrificio; ma lo fanno volentieri! Abbiamo avuto la possibilità di porre qualche domanda al maestro Paolo Facincani, ideatore e fondatore e guida musicale di ALiVe.

 Maestro, prima di tutto posso chiederle di presentare la sua attività e i bambini e ragazzi che vengono in esse coinvolti?

L’attività che svolgo come musicista in A.LI.VE. (Accademia Lirica Verona) è con i bambini del coro di voci bianche, formato da bambini e bambine in età compresa tra i 7 e i 12 anni che esegue vario repertorio (dal gregoriano all’opera lirica, dall’oratorio sacro a brani didattici) e collabora con la Fondazione Arena di Verona in produzioni lirico-sinfoniche sia al teatro Filarmonico che in Arena.

In Accademia è operante anche un coro giovanile formato da ragazzi e ragazze in età compresa tra i 13 e i 25 anni che esegue il repertorio polifonico sacro e profano (rinascimentale, barocco, romantico e tardo romantico e contemporaneo).

Seguo inoltre la crescita e la formazione di giovani solisti, sia voci bianche che voci di tessitura ‘adulta’ sia nel repertorio lirico che pop.

Parimenti seguo bambini e giovani nel percorso strumentale coadiuvato da maestri di chiara fama.

Rispetto all’educazione musicale a scuola, i ragazzi che vengono da lei scelgono volontariamente di approfondire una disciplina musicale, mostrando quindi la passione come ingrediente di partenza. Oltre a questo amore per la musica, quali altre qualità sono necessarie per far sì che la passione si trasformi in arte? Quali invece sono gli aspetti che maggiormente vengono educati da un percorso di studi di tipo musicale?

Il bambino che canta nel coro riceve un’educazione varia, fondamentalmente migliora la sua capacità di concentrazione. Sviluppa inoltre una sensibilità all’ascolto (proprio e degli altri), acquisisce un metodo di studio i cui risultati dimostra nelle esecuzioni pubbliche, si crea un senso estetico rivolto al ‘bello’ e pratica una solida disciplina personale e di gruppo.

Per ottenere tutto ciò ci vuole costanza, nel caso degli allievi di ALIVE è una cosa quasi naturale perché i bambini e i giovani che frequentano il coro si divertono a mettere in pratica tutto ciò.Per trasformare la passione in arte gli allievi hanno bisogno di un maestro, di una guida sicura che li sappia condurre, stimolandoli e affascinandoli.

Oggi la musica, di vari generi, è nelle orecchie di tutti. A suo modo di vedere, tutta la musica è arte ed è in grado di comunicare qualcosa? Quali autori del presente o del passato consiglierebbe, in particolare al mondo educativo?

Oggi la musica viene ‘consumata’ velocemente da chiunque lo voglia, è di facile reperibilità e riproduzione. Non tutta la musica è arte, c’è da distinguere tra bella e brutta musica. Questo distinguo vale per tutti i generi musicali di tutte le epoche. La musica dei nostri giorni rispecchia il mondo in cui viviamo. Come si riesce a capirne il valore? Studiando, praticando, eseguendo, provando e riprovando. Il consiglio che mi sento di dare agli insegnanti è sul ‘modus operandi’: la musica non va consumata, va fatta praticare, va spiegata, contestualizzata, va colta nel suo aspetto più affascinante.

Così facendo gli insegnanti potranno scegliere il repertorio più adatto ai loro alunni e alla loro preparazione culturale. In questo modo potranno scegliere consapevolmente tra Bach e Gaber, tra Puccini e Rino Gaetano.

“La bellezza salverà il mondo” è una delle citazioni di Dostoevskij più celebri e ripetute. Come ritiene che la musica possa inserirsi in questo processo e contribuire al riscatto dell’umanità?

La Musica con la M maiuscola è Bellezza. Per i bambini e i giovani d’oggi è necessario prendere le distanze dalla tecnologia e ritornare alla relazione tra esseri vivi che sanno immaginare. Solo così si potrà ripartire e dare un vero senso alla vita.

Miriam Dal Bosco

La Philosophy for Children – Aiutiamo i piccoli a ragionare (Newsletter n.17 gennaio – febbraio 2023)

La Philosophy for Children – Aiutiamo i piccoli a ragionare (Newsletter n.17 gennaio – febbraio 2023)

Intervista a Massimiliano Badino

Come è nata la Philosophy for Children?

La Philosophy for Children nasce da un problema che potremmo definire sociale, prima che pedagogico. La sensazione che alcuni pionieri hanno avuto, tra i quali Matthew Lipman stesso – l’ideatore della Philosophy for Children –  era che il sistema educativo non fosse al passo con la società. Tale pratica nasce in un contesto che è in primo luogo quello della logica dell’argomentazione e, dunque, anzitutto come una precisa forma di pensiero, prima ancora che essere collegato a problemi etici o metafisici. Nasce dalla sensazione che Lipman ha – e che ha sperimentato con i suoi figli – che la stessa materia che lui insegnava, cioè la logica e l’argomentazione, avesse un potenziale educativo inespresso. Vide quindi necessario individuare delle metodologie più adatte da un punto di vista pedagogico, affinché le potenzialità insite nella logica venissero sfruttate appieno. Lipman si rese conto che esisteva la possibilità di insegnare la logica e l’argomentazione, discipline apparentemente estremamente astratte, in un modo che potesse essere utile ai bambini della scuola primaria. Ha pescato da tante tradizioni: alcune vengono dall’Unione Sovietica come Vygotskij; alcune vengono dal pragmatismo americano, come Dewey; altre ancora vengono addirittura dal Sud America come Freire.

Quale ruolo gioca il critical thinking nella Philosophy for Children? Come questo filone prende le distanze dalla pedagogia piagetiana?

Il critical thinking è una nozione attualmente molto diffusa. Ad oggi infatti è normale parlare di pensiero critico, specialmente nei documenti ufficiali a livello istituzionale. È diventata quasi una parola d’ordine, ma non è stata tale fin dall’inizio. Anzi, ha avuto una genesi abbastanza complicata. Il concetto di pensiero critico nasce negli anni Sessanta, non nel contesto della logica, ma in un ambito  differente; non nell’ambito della scuola primaria, ma in quello universitario, dove  di nuovo alcuni autori pionieristici cominciarono a riflettere sulle stesse discipline che insegnavano e si resero conto nuovamente che la logica e l’argomentazione erano degli ottimi strumenti, che avrebbero potuto essere di grande aiuto per capire il mondo circostante, mai ai ragazzi e alle ragazze che andavano in università venivano insegnate in un modo poco utile.  Tutto questo è avvenuto In circostanze particolari, ovvero durante la ribellione generazionale degli anni ‘68, in un brodo culturale adatto a mettere in discussione schemi di pensiero già consolidati, e tra questi anche la pedagogia. E qui arriviamo a Piaget. La pedagogia di Piaget si basa sul concetto delle fasi di sviluppo del pensiero, e quindi definisce lo sviluppo del bambino in funzione di momenti specifici in cui emergono, attraverso l’interazione con il mondo, certe abilità cognitive ben determinate. È noto che secondo il pedagogista svizzero la capacità del pensiero astratto sia l’ultima. Questo ovviamente pone il problema nel momento in cui si vuole insegnare la filosofia o la logica ai bambini della scuola primaria. Tuttavia questo problema si fonda su un fraintendimento generale. Perché quando parliamo di Philosophy for Children, non dobbiamo pensare alla filosofia accademica fatta dai bambini. Una distinzione cruciale che dobbiamo assimilare è che una cosa è la filosofia come disciplina, con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi schemi, il suo linguaggio, che spesso è molto tecnico, ostico, distanziante, una cosa è il filosofare, cioè la pratica filosofica. Kant diceva che non si può insegnare la filosofia, ma si può insegnare a filosofare. Questa è l’idea che è stata presa in carico dalla Philosophy for Children, ovvero non quella di fare in modo che i bambini facciano I filosofi adulti seppure in scala minore, ma cercare di stimolare nei bambini un pensiero che è genuinamente filosofico, e che quindi ha certe caratteristiche, ad esempio è aperto, si pone problemi che sono significativi, e significativi significa esistenziali, importanti per noi, ma allo stesso tempo familiari e vicini. Quindi il bambino e la bambina non saranno filosofi nel senso che useranno termini come “transustanziazione” e “trascendentale”, ma saranno filosofi nel senso che partono da storie, personaggi, vicissitudini, vicende a loro familiari e vicine che però sollevano delle genuine questioni. Questo può avvenire in tanti modi. Tendenzialmente avviene attraverso la lettura di testi strutturati in un certo modo e che presentano certe caratteristiche, ad esempio sono testi aperti, o che cominciano nel mezzo della vicenda e non si concludono e che già per il semplice fatto di avere questo tratto di frammento sollevano dei dubbi e dei quesiti: perché i personaggi si trovano in queste condizioni? Che cosa è successo? Che cosa succederà dopo? Questo è un modo per cominciare a porsi dei problemi che poi diventeranno sempre più significativi. Questo lavoro sul testo è un lavoro genuinamente filosofico. Certo non si parlerà di teoria delle idee platoniche o di categorie aristoteliche, però gradualmente possono emergere questioni sempre più dense che possono riguardare l’amicizia, emozioni importanti, la vita, la morte, l’idea di virtù. Nel rispetto della teoria di Piaget, questo non è in contraddizione. Non si tratta di far pensare i bambini come degli adulti, ma di dare loro la possibilità, all’interno del loro universo, del loro perimetro di discorso, all’interno delle loro categorie e del loro modo di affrontarle, la possibilità di porsi dei quesiti che sono aperti, non chiusi, non monologici e non destinati ad avere un’unica risposta, ma che aprano la possibilità del dialogo.

Il tutto avviene in un contesto educativo ben preciso che è la comunità dialogica o comunità di ricerca. Quali sono le caratteristiche di questo contesto? 

Il tutto avviene in un contesto ben studiato, ben determinato. La Philosophy for Children ha indubbiamente un aspetto di spontaneità e di imprevedibilità che va conservato. Però, allo stesso tempo, non deve essere un caos. Questo perché è fondamentale che la comunità di ricerca, all’interno della quale questa attività si svolge, si ponga degli obiettivi ben chiari. Certamente i bambini non sono coscienti fin da subito del contenuto di tali obiettivi; questi ultimi devono essere chiari nella testa di chi organizza la comunità di ricerca, ovvero il facilitatore o la facilitatrice, che ha un ruolo estremamente difficile e sottile, perché deve guidare la comunità di dialogo, però lasciando ad essa la possibilità di esporsi e di esprimersi nel modo più spontaneo ed imprevedibile possibile. Quindi la comunità di ricerca si svolge con delle tappe ben definite: c’è la lettura del testo che deve essere scelto molto accuratamente; c’è una fase in cui dal testo si comincia a lavorare sulle domande; in seguito i bambini vengono divisi in gruppi all’interno dei quali cominciano a ragionare su quali domande vengono suggerite da questo testo. In questa prima fase i bambini devono andare a scegliere una domanda particolarmente significativa. Poi, in plenaria, si presentano le domande dei gruppi e si sceglierà la domanda sulla quale si lavorerà e qui si imposta il piano di discussione. Spesso queste domande sono definite in modo incompleto, spesso parziale, possono esserci domande che si equivalgono, ma che sono formulate in modo diverso, per cui al facilitatore spetta anche il compito di far ragionare i bambini sulle somiglianze e sulle differenze, verso quelle che si chiamano piste euristiche (chi? come? perchè?). Poi c’è un momento di discussione vera e propria e infine di valutazione, ovvero il momento in cui i bambini valutano come si sono sentiti e anche come il facilitatore si è comportato, come li ha fatti sentire, se hanno sentito la possibilità di esprimersi. Per arrivare a questo punto, e quindi ad una sessione di Philosophy for Children produttiva e soddisfacente, bisogna lavorare prima sulla costruzione della comunità di ricerca. Per cui ci sono degli aspetti a cui porre attenzione. Lipman suggerisce alcune caratteristiche fondamentali: Il favorire una partecipazione che però non sia troppo invadente, perché la comunità di ricerca richiede chiaramente la partecipazione di tutti e di tutte, però non la può pretendere, nel senso che i bambini hanno i loro tempi, qualcuno può sentirsi subito pronto a partecipare, qualcuno invece può sentirsi un po’ titubante. Quindi è essenziale, per mantenere un funzionamento omogeneo, che si rispettino i tempi di tutti i bambini e di tutte le bambine, che a volte possono essere molto diversi. Un’altra caratteristica importante, che distingue la comunità di ricerca da altri lavori di gruppo, è il focus sulla deliberazione, che va distinta dalla decisione. La comunità di ricerca non deve decidere una risposta, ma deve deliberare una risposta, il che significa che il focus è più sul processo che sul prodotto. Proprio per la peculiarità dei problemi che si affrontano, non è tanto importante che la risposta sia giusta o sia sbagliata, o magari decisa dalla maggioranza, quanto piuttosto che venga deliberata e che sia espressione di tutto il gruppo. Chiaramente questo è un concetto astratto, ideale, che solo in certe condizioni può essere raggiunto. La comunità di ricerca tra le sue funzioni ha anche quella di smussare certe relazioni di potere e di prevaricazione che si possono  creare all’interno dei gruppi. È un processo che richiede sempre di riflettere sulle ragioni per cui si fa una certa affermazione.

Dal momento che stiamo parlando di deliberazione, mi viene spontaneo chiedere  quale sia il legame della Philosophy for Children con l’approccio relativista…

Si potrebbe pensare che il fatto che i problemi siano aperti, il fatto che i testi suggeriscano varie interpretazioni, automaticamente legittimi l’idea per cui ogni opinione sia uguale all’altra. Per questo il ruolo del facilitatore è difficile, perché c’è il rischio che la discussione finisca in un numeroso affastellarsi di idee. Quindi come si fa a tenere in piedi l’idea dell’apertura della comunità di ricerca evitando il rischio di un approccio relativista? Fondamentale è fornire delle ragioni, delle argomentazioni. Stiamo parlando di problemi che non sono risolvibili e decidibili una volta per tutte. Questo però non significa che ogni opinione sia equivalente ad un’altra. Nel momento in cui i bambini e le bambine sono in grado di trovare delle ragioni alle opinioni anche più bizzarre, lo scopo, in un certo senso, è già raggiunto, perché sono stati posti di fronte alla necessità di motivare quanto stanno sostenendo.  Poi chiaramente le opinioni più bizzarre saranno sostenute dalle regioni più deboli e quindi verranno facilmente attaccate dagli altri e messe in questione dai compagni.  Dunque centrale della Philosophy for Children non è trovare una risposta, ma fornire le ragioni delle proprie opinioni. Quindi, di fronte a qualsiasi opinione, anche la più bizzarra, anche la più provocatoria, bisogna pretendere una motivazione, una giustificazione, un’argomentazione. La discussione indubbiamente può arrivare a dei vicoli ciechi, per cui la bravura del facilitatore sta nel tenere viva la discussione incoraggiando i bambini ad andare a fondo sulla questione. 

I parallelismi con Socrate, così come anche le divergenze, appaiono evidenti. Potrebbe delinearli?

È chiaro che quando parliamo di Philosophy for Children il personaggio che ci viene in mente è evidentemente Socrate, perché come dicevo prima la Philosophy for Children insiste di più sulla pratica filosofica che sulla filosofia accademica e nell’immaginario collettivo il filosofo che va in giro e fa domande scomode è sempre stato Socrate. Infatti Lipman si è ispirato alla filosofia socratica, che porta con sé il concetto di maieutica, ovvero tirare fuori ciò che le persone si portano dentro. Tuttavia ci sono delle differenze fondamentali. Tanto per cominciare parliamo di contesti temporali totalmente differenti. Lipman ha un obiettivo, che è quello di riformare l’educazione, soprattutto alla scuola primaria. Questo significa che ha come target ragazzini e ragazzine dell’età compresa tra i 6 e gli 11 anni e che frequentano una scuola, cioè un sistema organizzato e istituzionalizzato. Socrate si rivolge ad un altro target, ovvero quello degli adolescenti, o meglio, quelli che noi oggi chiameremmo adolescenti, ma che all’epoca erano uomini e donne fatti. Il suo rapporto con queste persone era molto più informale, in contesti pubblici o privati e non c’era alcuna velleità di funzionalità. Questa pratica nasce e muore con Socrate, nel senso che quando Platone ne fa protagonista dei suoi dialoghi sta essenzialmente dicendoci che nessun altro è come Socrate, che nessun altro era un maestro come lo era Socrate. Dall’altra era un maestro per modo di dire, perché in ultima analisi spesso ne usciva protagonista, che non è esattamente quello che dovrebbe fare un facilitatore o una facilitatrice. In più il contesto è molto diverso anche da un punto di vista politico e sociale. In Lipman l’argomentazione ha un valore fortemente etico e anche politico. Il contesto generale è quello della democrazia liberale statunitense, ma lo troviamo anche nel contesto in cui operava Freire, che non è quello della democrazia.  Lo ritroviamo più o meno anche nell’Unione Sovietica di Vygotskij. Socrate invece si muove in un contesto totalmente diverso. Chiaramente pensiamo alla Atene di Pericle come la culla della democrazia, ma la Atene di Pericle aveva pochissimo in comune con quella che noi chiamiamo oggi democrazia. Quindi Socrate e Lipman sicuramente si sono posti obiettivi differenti. D’altro canto l’idea generale per cui la filosofia sia anzitutto una pratica che va vissuta, che va esperita prima ancora che raccontata, prima che proposta con un linguaggio gergale tecnico,  questa idea Lipman l’ha presa e l’ha calata in un contesto istituzionalizzato, che è quello della scuola e ne ha fatto un metodo, prima ancora che una pratica.

Quali sono i risvolti educativi della Philosophy for Children nella società attuale, soprattutto in riferimento al cosiddetto pensiero multidimensionale? Perché ad oggi è importante educare alla logica?

Ancora adesso, dopo tanti anni di Philosophy for Children, la logica è per così dire localizzata, segregata e ghettizzata tra le discipline matematiche. E in parte è corretto, perché la logica, tra le discipline in ambito umanistico, è quella meno recente e al contempo quella che di gran lunga ha avuto uno sviluppo più impetuoso e sorprendente. Quindi è chiaro che la logica venga collocata nell’ambito della matematica, però dobbiamo ricordarci che per più di duemila anni non è stato così, perché la logica non si è sviluppata sostanzialmente dopo Aristotele e dobbiamo ricordarci che, quando è nata, la logica era fortemente intrecciata con la politica e la retorica. Per Aristotele non c’è affatto una opposizione tra le due cose, quindi la logica ha una valenza sociale. Lipman vuole recuperare l’idea che la logica, come abito del pensare in modo corretto e argomentare in modo corretto, è la via principale per una vita democratica sana, funzionale alla vita in comune, al dialogo, alla tolleranza. Il collegamento tra la logica e la cittadinanza è particolarmente significativo. Ad oggi siamo esposti a semplificazioni, teorie cospiratorie, fake news, in generale ad una degradazione del clima linguistico e argomentativo che ha la tendenza a diventare tossica. Siamo dunque in un momento storico che richiede una maggiore consapevolezza su come si utilizza il linguaggio. Abbiamo bisogno di cittadini e di cittadine che sappiano confrontarsi e sappiano argomentare attraverso ragioni e non attraverso sentimenti o emozioni che possono portare fuori strada. Questo non significa che la logica sia nemica delle emozioni o della creatività, e qui arriviamo al pensiero multidimensionale. La grande intuizione di Lipman, e in questo sì che è andato un po’ oltre Dewey, è stato comprendere che i pensieri, per la loro intrinseca significatività, necessariamente mettono in gioco la vita emozionale. Lipman ha accolto il valore educativo delle emozioni, un elemento ad oggi abbastanza consolidato. Dagli anni ‘90 in poi gli studi di psicologia hanno sottolineato che le emozioni hanno un valore educativo e cognitivo, cioè che noi pensiamo meglio quando siamo coinvolti emozionalmente. Il pensiero multidimensionale prevede che ci siano tre forme di pensiero, ovvero quello critico, quello emozionale-creativo e quello di cura, che possono essere movimentati assieme e ognuna di queste influisce sull’altra. Per molto tempo si è pensato che le emozioni fossero un ostacolo al pensare corretto, invece se vengono indirizzate e guidate possono aiutare a pensare in modo corretto. Per molto tempo si è pensato che il pensiero creativo e divergente fosse contrario al pensiero critico e convergente, ma ad oggi sappiamo che non è così. La costruzione di buone argomentazioni richiede una forma di creatività. Inoltre il pensare bene ci fa anche sentire bene, è anche un modo per prendersi cura di sé e della comunità in cui si è inseriti. Quindi, per riassumere, la messa in campo di tali dimensioni contribuisce ad uno sviluppo organico del bambino.

Michela Spiazzi

La mia esperienza  di  insegnante  di  filosofia (Newsletter n.17 gennaio – febbraio 2023)

La mia esperienza di insegnante di filosofia (Newsletter n.17 gennaio – febbraio 2023)

Le domande della filosofia.  Insegno filosofia da quarant’anni e sono ancora appassionato per il mio lavoro! Perchè? Vedo che gli studenti sono molto interessati, oggi come quarant’anni fa, alle domande della filosofia, che sono quelle di ogni uomo. Studiare il pensiero dei filosofi significa affrontare razionalmente le questioni essenziali: “Da dove vengo?  C’è una vita dopo la morte?  Esiste Dio?  Cos’è il bene e cos’è il male?  Cosa significa amare? Come raggiungere la felicità? Cosa ci sono venuto a fare a questo mondo? …”  

Posso immaginare le obiezioni di uno studente o anche di un collega di fronte a queste domande che sembrano “insolubili”, perché prive di una risposta immediata e concreta.

Prima obiezione: lo scientismo. Oggi viviamo in un mondo impregnato di scientismo, un’ideologia che idolatra la scienza e la tecnica, come se potessero risolvere tutti i problemi. Questa cultura neopositivista è entrata in conflitto con il pensiero metafisico e religioso. Un celebre critico letterario, Natalino Sapegno, diceva che le domande filosofiche e religiose sul senso della vita, sono domande adolescenziali … allora Dante, Beethoven, Goethe, Manzoni … erano tutti adolescenti!   

Invece le domande sopra citate sono tutte ineludibili e l’insegnamento della filosofia aiuta ad affrontarle con ragionevolezza ed equilibrio, evitando le derive del fanatismo ideologico, della superstizione, dello scientismo. Perché come diceva proprio uno scienziato, Einstein: “noi conosciamo molto i mezzi, ma siamo ignoranti sul fine”.  Le discipline scientifiche spiegano i mezzi, la tecnica, ma il fine, il senso non lo sanno e non lo possono dare. L’ha spiegato molto bene Victor Frankl che riconosceva che in ogni uomo c’è una domanda ancora più vasta e profonda di quella del solo piacere o del successo economico. È appunto la domanda sul significato di tutto quello che facciamo. Il nichilismo, la depressione e tutte quelle dipendenze patologiche (tossicodipendenze, alcolismo, ludopatia …) che attanagliano tanti giovani dipendono proprio dal non aver trovato un senso per cui vivere. La filosofia non ha quindi un’utilità immediata, come le tecnologie, o come l’economia, ma ha un’utilità di fondo per la nostra vita: ci suggerisce e ci aiuta a cercare una motivazione. Se manca una motivazione, prima o poi tutto ci annoia. 

Seconda obiezione: la filosofia è disorientante. Uno studente può rimanere disorientato di fronte alla carrellata di pensatori diversi e spesso contrapposti in più di duemila anni. Io direi che comunque, studiando i filosofi, noi studiamo noi stessi e possiamo valutare come hanno dato risposte alle nostre stesse domande. Lo studio di Socrate, di Aristotele, di Sant’Agostino, di Kant o Hegel …  sono altrettante occasioni per riflettere su noi stessi. Per questo chiedo sempre il parere degli studenti, perché mi interessa sapere cosa ne pensano e noto che i ragazzi sono molto coinvolti, perché non si tratta di un discorso astratto e teorico, ma di un discorso che riguarda la loro vita stessa. Tutti siamo interessati a sapere cos’è il bene e cos’è il male, che cos’è la giustizia, che senso ha la preghiera, se c’è un aldilà…  E forse lo studio della filosofia è l’unica occasione che tanti giovani hanno per riflettere su queste tematiche, soprattutto oggi, quando le istituzioni religiose risultano assenti o insignificanti per la maggior parte dei giovani.  Certo, la spiegazione della storia della filosofia può essere talora fuorviante, perché, per onestà intellettuale, dobbiamo soffermarci tante volte su pensatori di cui non condividiamo quasi niente. Ma se io avessi dovuto insegnare la monotonia di un pensiero univoco, l’ora di filosofia sarebbe diventata un indottrinamento a senso unico. Come nei famigerati totalitarismi del Novecento dove erano tutti burattini.  Invece, ho sempre interpretato il mio insegnamento come un aiutare i giovani a confrontare le diverse visioni della vita e del mondo. Nello studio dei vari filosofi, lo studente è sempre stimolato alla riflessione, al confronto, alla valutazione critica. Ho sempre avuto fiducia nel meglio della natura umana che è capace di discernere il bene dal male, l’amore dall’odio, il dialogo dalla violenza.  Non è possibile questo discernimento se il ragazzo non ha gli elementi per poter confrontare e quindi valutare. Proprio in questo consiste, a mio parere, la funzione di un insegnante aperto alla ricerca e non dogmatico. Lo studio dei filosofi permette ai ragazzi di poter sempre confrontare i vari Marx, Freud, Nietzsche … con un messaggio aperto al Sacro e alla trascendenza. È quando un professore spiega solo filosofi atei o agnostici che gli studenti scivolano nell’indottrinamento, perché non viene loro neppure spiegata la ragionevolezza dell’alternativa aperta al Trascendente. Un’educazione non è completa se non garantisce una conoscenza adeguata delle diverse visioni del mondo, da quella immanente a quella trascendente. 

Terza obiezione: l’ora di filosofia non è un’ora di religione. Le domande citate all’inizio sono di tipo non solo filosofico, ma anche, e forse soprattutto, religioso. È vero che anche le religioni ci possono chiarire queste domande esistenziali alla luce di una Rivelazione, ma l’uomo, anche se credente, rimane sempre un “filosofo” perché deve ragionare, deve cercare con la ragione i motivi di credibilità della Rivelazione. Per questo ho sempre dato spazio anche alla filosofia della religione, intesa come ricerca delle motivazioni ragionevoli della Rivelazione cristiana. Mi riferisco al discorso laico sull’autenticità storica dei Vangeli e sui valori morali che hanno introdotto nella storia. Come diceva Massimo Cacciari, la filosofia è inizialmente atea, nel senso che cerca risposte senza presupporre niente di trascendente; ma finisce per collegarsi con la teologia, in quanto questa ricerca si interroga su una Causa prima e indaga laicamente sulla morale. Kant in questo è stato un grande maestro.

Si deve aggiungere che lo studio della filosofia, in quanto impostazione razionale dell’esistenza, aiuta i giovani ad evitare le derive della religione, quali la superstizione, il fanatismo, il fideismo, inteso come fede senza ragione. La filosofia ci libera dal fanatismo, cioè dalla presunzione di avere una verità assoluta da imporre agli altri.  

Quarta obiezione: la filosofia contemporanea favorisce lo scetticismo e l’ateismo. Rispondo che proprio lo studio della filosofia aiuta il giovane a togliere tutte quelle incrostazioni che hanno deformato la morale e il Volto stesso di Dio.  Quando spiego, nelle classi quinte, filosofi come Marx, Nietzsche, Freud … che fanno professione di ateismo, io mi chiedo che tipo di Dio fosse quello che loro respingevano!  Era una caricatura, una deformazione di Dio, che è stato calunniato nella storia. Marx pensava che Dio ci distraesse dalla vita terrena, legittimando lo sfruttamento economico, Freud pensava che Dio inibisse la sessualità, Nietzsche pensava che Dio fosse nemico del piacere e ci mortificasse facendoci vivere da risentiti.  Sono tutte deformazioni, che ricalcano più o meno apertamente la prima grande tentazione della Genesi: “Non è vero quello che Dio vi ha detto, Lui non vuole che voi siate come Lui”. La calunnia su Dio è stata la prima tentazione e studiando filosofia scopriamo che Dio è stato calunniato molte volte. E quindi proprio grazie alla filosofia possiamo recuperare un Volto autentico di Dio, liberato dalle maschere che noi uomini Gli abbiamo imposto.

Una conclusione costruttiva. E se dovessi scegliere un florilegio di filosofi particolarmente costruttivi per la formazione dei giovani?  Direi che per la filosofia antica il più apprezzato, anche dagli studenti, è Socrate, per il suo spirito critico, il suo atteggiamento di domanda, il dialogo, il rifiuto della violenza, la scoperta dell’anima come essenza dell’uomo, la ricerca della verità. Naturalmente anche Agostino e Tommaso sono maestri di vita, il primo anche per la sua esperienza esistenziale, il secondo per la sua impostazione ragionata dell’etica e della metafisica. Poi vedo che è molto apprezzato anche Kant. I giovani riconoscono che, come dice lui, dentro di noi c’è la voce della coscienza. Abbiamo tutti un imperativo categorico che ci dice quello che dobbiamo fare. Un imperativo che impone il primato dell’etica in quanto rifiuto di ogni strumentalizzazione dell’essere umano. E questo è un grande insegnamento laico costruttivo per la formazione di una coscienza morale capace di difendere i diritti umani.

Nella filosofia contemporanea ho scoperto che viene molto apprezzato il pensiero di Max Scheler, che è poco conosciuto, però è il filosofo che sta alla base del pensiero di San Giovanni Paolo II. Questo filosofo sostiene che l’essenza dell’uomo è nella sua capacità di amare. L’uomo si qualifica come ens amans, ente che ama. E Scheler spiega che l’amore ha una stratificazione di profondità: si intensifica a partire dall’amore sensibile, per arrivare poi all’amore spirituale, e via via fino all’amore per il Sacro. Il Sacro è sempre con noi, perché è il fine ultimo della nostra vita. Per cui anche gli atei hanno il loro “sacro”, il loro valore supremo, che può essere il denaro, la famiglia, la politica… Max Scheler ha individuato nell’amore umano una componente egocentrica, l’eros, che tende al dominio, e una componente donativa, l’agape, capace di perdonare, di prendersi cura del prossimo indipendentemente dal tornaconto egoista, addirittura rivolta anche ai nemici. L’amore agapico è stato introdotto nella storia con i Vangeli, che hanno portato la più grande rivoluzione etica della storia, con una rivalutazione irreversibile della donna, del bambino, dello schiavo, del malato, dell’autorità come servizio e non come potere. 

E poi ho visto che è molto apprezzata anche una filosofa donna, che spiego nell’ultimo anno di filosofia: Santa Edith Stein, di origine ebraica, morta ad Auschwitz, a causa del nazismo. Lei sostiene il valore etico del sentimento, il “pensare con il cuore”, e valorizza la dignità della donna, della specificità femminile. Edith Stein integra il primo femminismo, che puntava giustamente sulla parità dei diritti, con il secondo femminismo che difende e valorizza la specificità femminile della donna … ad esempio in tutti i contratti di lavoro viene tutelata la maternità, per cui viene riconosciuta questa specificità femminile. 

Ritornando dunque alle domande iniziali, penso che lo studio delle tematiche etiche, psicologiche e metafisiche siano indispensabili per una crescita completa della persona. In questo mondo così tecnologico e scientifico, l’insegnamento della filosofia potrebbe trovare spazio non solo nei Licei, ma in tutte le scuole superiori, per un futuro più autenticamente umano e rispettoso dei valori etici.

Marco Fasol