Ott 20, 2021 | Cineforum, Studenti
Paese: USA – Durata: 109 minuti – Regia: Chuck Konzelman
“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON: tradotto in italiano significa “non pianificato”, e così è stata anche la mia scelta improvvisata di rispondere ad un invito per un’anteprima al cinema.
Un film che ti rimane “dentro”, che ti interroga, ti fa sussultare intimamente e commuovere per il grande Dono della Vita. Alla fine della proiezione ho pensato immediatamente al volto dei miei bambini e mi sono detta: “Se sono qui su questa poltroncina di teatro è perché Qualcuno mi Ama, mi ha custodito e mi custodisce, anche se io non ne sono cosciente”.
Il film racconta la vita di Abby Jonson, giovane donna americana che sin dalla giovinezza si batte per i diritti delle donne. Ai tempi del college si lascia ammaliare dalle feste giovanili, dallo sballo e s’innamora di un ragazzo più grande di lei con cui intrattiene rapporti sessuali occasionali. Quando scopre di essere incinta, senza averlo “pianificato”, viene assalita dal timore di dover rivelare il tutto ai suoi ignari genitori, che sicuramente non avrebbero approvato questo suo stile di vita. Si lascia consigliare dal ragazzo e padre del bambino che subito le suggerisce di abortire tramite un’agenzia apposita. Viene lasciata sola nella scelta e nella rielaborazione e il tutto si traduce in un’operazione fredda e alienante che la riduce ad uno zombie svuotato che a malapena ricorda ciò che è accaduto.
Dopo qualche mese decide di presentare il ragazzo ai genitori per potersi unire in matrimonio. I familiari non lo trovano la persona giusta, ma lasciano a lei la libertà di scegliere e così si celebrano le nozze.
Il matrimonio non si traduce in un cammino felice e, dopo un periodo di tensioni e tradimenti, si arriva al divorzio. Abby si accorge però di essere incinta proprio di quell’uomo con cui non vuole più avere niente a che fare e ancora una volta, in solitudine e disorientamento, si rivolge alla clinica Planned Parenthood che, con disinvoltura, la consiglia per un aborto chimico, caldamente raccomandato come veloce, indolore ed efficace.In realtà si rivelerà dolorosissimo, lunghissimo e la convincerà di essere sul punto di morire. Si risveglierà infatti dopo ore di travaglio sul pavimento insanguinato del bagno di casa, stravolta e dolorante per diverse settimane. Sempre sola.
Nonostante queste esperienze che la segneranno per sempre e di cui non parlerà ai familiari, Abby vuole battersi per la libertà riproduttiva della donna, pensando che così facendo si possano ridurre gli aborti, attraverso campagne d’informazione e sensibilizzazione. Diventa dapprima una volontaria della clinica Planned Parenthood e, in breve tempo, la più giovane direttrice della principale clinica abortiva del Texas.
“Gli esperti concordano che in questo stadio il feto non sente nulla” queste le parole rassicuranti di Abby per indurre le pazienti ad abortire in tranquillità, per ricominciare la quotidianità senza pensieri.
Saranno però degli incontri a porre le basi per una conversione totale.
In primis i suoi genitori non approvano questo suo lavoro, questa sua passione e il suo totale coinvolgimento e pregano affinché lei possa cambiare idee e licenziarsi; così come il secondo marito che, amandola profondamente, le esprime tutte le sue perplessità, obiezioni e principi. La lascia però sempre libera di decidere, anche quando Abby scopre di essere felicemente in dolce attesa, nonostante non sia stato “pianificato”.
Un altro incontro decisivo sarà con i giovani attivisti pro-life che con dolcezza e costanza la seguono giornalmente fuori dalla clinica per pregare e dissuadere le donne a non abortire.
Infine, non per importanza, avverrà il riavvicinamento a Dio nella preghiera familiare. Da direttrice avrebbe voluto cambiare in meglio la clinica, ma gradualmente inizia a rendersi conto che la libertà che lei voleva difendere era un inganno per donne spaventate, sole e ignare.
Inaspettatamente un giorno le viene chiesto di assistere il chirurgo per un aborto guidato e ciò a cui assiste attraverso un ecografo la renderà cosciente di ciò che è la straziante realtà di un aborto nel grembo materno. Quello che vede cambia la sua vita per sempre, le fa spalancare gli occhi, dandole la forza e il coraggio per intraprendere una delle battaglie più importanti del nostro tempo.
E’ un film che svela i sottili inganni che una comunicazione appositamente studiata può portare, giustificando l’uccisione di un piccolo essere umano innocente nel luogo che lui ritiene il più sicuro e protetto al mondo: il grembo della sua mamma.
E’ un film che porta speranza lì dove il male sembra invincibile tanto è potente, organizzato e radicato, ma che la preghiera e l’amore disinteressato dei semplici smonta in modi che “non abbiamo pianificato”.
La libertà che Abby reclama per sé e crede non venga capita e concessa dai propri familiari ed amici, in realtà nella storia si rivela una falsa libertà, perché disgiunta dal bene, come quella propagandata dalla clinica che, in realtà, fa di tutto per spingere le donne ad abortire a scopo ideologico e di lucro. La vera libertà è quella che il marito e i genitori insegnano ad Abby, amandola sempre e comunque disinteressatamente, ma accompagnandola ad aprire gli occhi al bene, alla vita e alla verità.
“Unplanned” racconta una storia vera che merita di essere raccontata, ascoltata e meditata.
Gemma Dal Bosco
Nov 24, 2020 | Cineforum, Studenti
Paese: Cina – Durata: 102 minuti – Regia: Zhang Yimou
Il maestro Gao, insegnante della scuola elementare di un misero paesino rurale della Cina, deve assentarsi per un mese per assistere la madre ammalata. Il capo villaggio, quindi, assume come supplente Wei Minzhi, una ragazzina tredicenne senza alcuna esperienza, ma unica disponibile della zona, promettendole una ricompensa di 50 yuan. Prima della partenza il maestro, scettico circa le capacità di Wei, raccomanda alla ragazza di badare agli alunni e di sorvegliarli attentamente in modo da ritrovare, al suo ritorno, l’intera classe e non un alunno di meno: in tal caso la ragazza avrebbe ottenuto un ulteriore ricompensa di 10 yuan da parte sua.
Wei, completamente impreparata al compito di supplente affidatole, cerca, come può, di mantenere la promessa. Quando Zhang, il suo alunno più “difficile” perché irrequieto e irrispettoso, non si presenta a scuola poiché costretto ad andare a lavorare in città per saldare i debiti della famiglia, Wei abbandona il resto della classe per andare a ricercare caparbiamente la “pecorella smarrita” e riportarla a scuola.
Il regista ci mostra due volti di un paese di forti contrasti, di diversità, di metropoli e villaggi, di tradizioni e di modernità. Dapprima ci fa conoscere quello rurale, arretrato, poi quello urbano e caotico.
La prima parte del film ci rivela la povertà e la miseria che dominano vaste aree della Cina rurale dove la povertà si riflette anche sulla scuola in cui anche un singolo gessetto è un bene da non sprecare. In questo contesto di povertà e di miseria si inseriscono quindi le piaghe dell’abbandono scolastico e del lavoro minorile di cui sono vittime non solo Zhang, costretto ad andare a lavorare in città, ma anche la stessa supplente che è in possesso della sola licenza elementare.
In questa prima parte si può anche assistere al cambio dell’approccio didattico di Wei, che passa da uno inadatto a coinvolgere la scolaresca (ossia obbligare gli alunni riluttanti a ricopiare dalla lavagna dei testi che lei trascriveva da un libro) a un metodo partecipativo in cui i bambini, pieni di entusiasmo, si impegnano ad aiutare la maestra nel calcolo di come poter guadagnare i soldi per andare in città alla ricerca di Zhang.
La seconda parte del film è invece ambientata nella città in cui Zhang è andato per lavorare ma in cui in realtà si è perso. Lì regna il caos e il ritmo frenetico: ognuno è concentrato solo su se stesso e le persone non hanno nemmeno il tempo per fermarsi a leggere l’annuncio cartaceo con cui Wei ricerca il suo alunno.
L’unico mezzo per catturare l’attenzione della gente è la televisione. Infatti è proprio grazie ad essa che Wei riesce a ritrovare Zhang e a far conoscere al grande pubblico, sensibilizzandolo, la drammatica realtà dell’educazione nelle campagne dove spesso i bambini sono costretti a lasciare la scuola e con essa la possibilità di un futuro migliore.
Giada Faggian
Ott 15, 2020 | Studenti
di Gian Guido Vecchi (fonte: Corriere della Sera – 11.10.20)
Domenica 11 ottobre è stato dichiarato beato Carlo Acutis, lo studente milanese morto a soli 15 anni, primo santo fra i cosiddetti millenials.
Nell’intervista al sacerdote che gli faceva da assistente spirituale nel liceo da lui frequentato, Carlo viene descritto come un ragazzo che oltre a un forte impegno nello studio dimostrava una grande generosità e gentilezza nei confronti dei compagni e delle persone che incontrava ogni giorno. In particolare possedeva, a detta di tutti, una straordinaria, per la sua età, competenza informatica, che ha saputo mettere generosamente a disposizione della scuola per illustrarne le attività di volontariato. Grazie a questa sua passione per il computer, che lo accomuna a tanti suoi coetanei, si è parlato di lui come del futuro patrono di internet. Quello che della vita di questo giovanissimo ha colpito tanti è stata la capacità, certamente sorretta dalla fede, di vivere in profondità e di coniugare in modo armonioso quelle che sono le dimensioni dell’esistenza di ogni normale ragazzo del nostro tempo, famiglia, scuola, amicizie, volontariato, sport e nuove tecnologie. In questo senso la sua testimonianza è un invito per ogni educatore a guardare con fiducia agli adolescenti che incontra nella sua attività e a vivere con ancora più passione la sua missione.
«Aveva una finezza, una signorilità innate… Per dire: c’era il portinaio, Mario, una figura storica del Leone XIII. Carlo, come altri ragazzi, lo salutava ogni mattina all’ingresso. Però capitava che talvolta entrasse dalla piscina, a lato. Mario mi ha raccontato che in quei giorni “il Carlo” andava a salutarlo all’intervallo, quasi scusandosi di non averlo fatto prima». Il padre gesuita Roberto Gazzaniga era assistente spirituale dei liceali in quegli anni, una figura analoga a quella della guida negli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio. E lo ricorda bene, Carlo Acutis, il ragazzo milanese di 15 anni morto nel 2006 di leucemia fulminante che ieri, nella Basilica Superiore di Assisi, è stato proclamato solennemente «beato».
Che ragazzo era Carlo?
«Un ragazzo capace di sorridere e scherzare, una presenza positiva. Una di quelle persone che, quando ci sono, tu stai meglio. Che ti aiutano a vivere, a livello umano e di fede. Lo vedevo e mi veniva da dire: questo è un pezzetto di cielo per gli altri ragazzi».
Si è ripetuto: un ragazzo normale. È così?
«Sì, ma di una normalità, una quotidianità dotata di spessore. Carlo era dotato. Molto. Sia dal punto di vista intellettuale — vidi i suoi libri di informatica: erano testi universitari — sia da quello spirituale. E sa una cosa? A quell’età c’è molta competizione. Si tende a non sopportare chi si distingue. Eppure con Carlo non era così. Aveva carisma. Era anche un bel ragazzo, le compagne lo notavano… Eppure non c’erano invidie. Non ho mai visto nessuno che litigasse con lui. Gli volevano bene. Una capacità rara di coltivare i rapporti umani. Uno dei compagni che a scuola faceva più fatica mi chiese di servire messa al funerale, Carlo lo aveva aiutato».
Già si parla del primo santo dei «millennials» e patrono di internet. Che modello è per i coetanei?
«Il modello di un testimone che evangelizza per come è, con il suo esempio. Non un credente “militante” che fa proselitismo. Parlando con il suo parroco, ho saputo che andava in chiesa ogni giorno, per l’eucaristia e la preghiera personale. Faceva volontariato, aiutava i più poveri e disagiati. Tutto questo si notava perché c’era e si vedeva, ma non era mai ostentato».
La discrezione…
«Sì, uno che vive la sua fede senza nasconderla né gettarla sul banco, che non la fa pesare e non accende nessuna luce su se stesso. Ma i santi sono questi: gente che vive la realtà quotidiana con impegno e una certa disinvoltura. Con il sorriso, con naturalezza. Per lui era come respirare. E non si tirava mai indietro».
Ad esempio?
«Ricordo che gli chiesi di preparare un Powerpoint, lui che era così impegnato nella carità e capace al computer, per illustrare le attività di volontariato del Leone XIII, il doposcuola, la mensa per i poveri, l’insegnamento dell’ italiano agli stranieri… Aveva appena iniziato la quinta ginnasio, era un compito che avrebbe spaventato tanti, da proiettare in tutte le classi. Lui ci si gettò a capofitto. Non ha potuto concluderlo. Il venerdì in classe non c’era. Una brutta febbre, il suo vecchio pediatra capì e disse di portarlo subito al San Gerardo di Monza. Ma non ci fu nulla da fare».
Morì in tre giorni…
«Lo portarono a casa. Era vestito con una tuta semplice. Ricordo che dissi alla mamma: troverà quello che ha scritto. Più tardi mi mostrò un libretto. Carlo, a tredici anni, scriveva che la vita è una cosa bella e impegnativa e non la si costruisce su ciò che è effimero. Aveva elencato una serie di virtù e disegnato una montagna dove si elevavano gradualmente. Un ragazzo di tredici anni, si rende conto?».
Set 13, 2020 | Studenti
Fernando Muraca, Città Nuova Editrice
“La vita può cambiare in un attimo quando meno te lo aspetti”: con queste parole Erika (soprannominata Squillo per i suoi modi emancipati) offre all’amica Veronica – e indirettamente a noi lettori – una delle chiavi interpretative della realtà e di questo libro singolare, scritto dal regista e sceneggiatore Fernando Muraca.
La trama è molto semplice: una ragazza quindicenne decide di raccogliere la sfida lanciata dalla sua prof e di fare l’esperimento di prescindere per trenta giorni dai social, trascrivendo sul suo diario ciò che accade, fuori e dentro di sé. Ne risulta una vicenda intrigante, che ti prende dall’inizio alla fine, ricca di episodi divertenti, di colpi di scena e di cambiamenti, dapprima lievi, poi sempre più profondi.
Attraverso gli occhi e il cuore di questa adolescente non comune e tuttavia normale (è sorprendente la capacità dell’Autore di immedesimarsi nel mondo interiore dei giovani, con le loro visioni, abitudini, legami, paure e aspettative…) il lettore assiste e partecipa a una vera e propria rivoluzione copernicana: gli sembra di “uscire da una bolla”, scoprire la realtà (quella che si tocca e che ha odore), “vedere” le persone, permettendo di conseguenza all’amicizia (quella vera) di fiorire. Emblematici, a questo riguardo, i cambiamenti nei soprannomi che Veronica usa affibbiare alle persone intorno a sé: Squillo diventa semplicemente Erika, mentre Anna (l’amica creduta tale) viene ribattezzata Codardia. E ce n’è per tutti… (compreso LGBT, il compagno verso il quale Veronica si era fatta qualche illusione, prima di scoprirne l’orientamento omosessuale…).
Al rituale dei soprannomi e del loro cambio non sfugge neanche la prof responsabile dell’avvio dell’esperimento: inizialmente chiamata La Balena Bianca, con allusione impietosa alla sua corporatura, si svela progressivamente agli occhi di Veronica, fino a diventare semplicemente La Bianca, un’insegnante non perfetta, con le sue vulnerabilità, ma appassionata dei suoi ragazzi, credibile agli occhi dei giovani. Una prof, come ammette la stessa Veronica, che “ti guarda e ti vede”, capace di spogliarsi degli abiti del docente per mettersi al tuo fianco.
Personaggio, dunque, degno di nota per chi ha fatto della docenza il suo lavoro.
Il libro di Muraca è certamente supportato da una profonda conoscenza dell’influenza dei social sugli stili di vita e i modi di pensare di giovani e adulti (come prova anche la bibliografia che l‘Autore ha posto in appendice), ma l’intento pedagogico non prende mai il sopravvento: Liberamente Veronica non è un saggio, rimane un romanzo e come tale va letto.
Tornando alle parole di Erika citate all’inizio, ciò che colpisce in questa storia è il fatto che dal coraggio di cambiare qualcosa nella propria vita dipendono effetti insospettati, anche nelle persone intorno a noi, la cui vita è inscindibilmente intrecciata alla nostra. Ma non voglio togliere al lettore il gusto di scoprire l’evoluzione dell’intreccio…
Così come non voglio togliere la sorpresa di scoprire chi è veramente Veronica. Confesso che mi sono fatto questa domanda fin dalle prime pagine del libro: la protagonista di questo diario è reale o è una semplice finzione letteraria? A svelare l’enigma è lo stesso Autore nella postfazione al libro. E anche in questo caso la risposta non è scontata…
Set 13, 2020 | Cineforum, Studenti
Paese: Francia – Durata: 96 minuti – Regia: Yvan Attal
Un professore emerito della Parigi benestante, legato alla retorica classica e noto per essere un gran provocatore dai modi burberi, e una giovane ragazza di origini arabe che proviene dai sobborghi parigini e sogna di diventare un avvocato.
Questi i protagonisti di una pellicola divertente e profonda allo stesso tempo, che mette al centro il potere della parola e ha una forte missione pedagogica, trattando tematiche come l’accettazione della diversità e l’integrazione. L’incontro tra i due avviene in maniera brusca durante la prima lezione di diritto in cui Neila, matricola di giurisprudenza, arriva in ritardo e viene pubblicamente umiliata dal professore, Pierre Mazard, che la attacca facendo appello alla sua provenienza etnica. Da questo scontro nascerà un rapporto speciale, non sempre facile, che si rivela prezioso e arricchente per entrambi i protagonisti. Inizialmente il professore si avvicina alla ragazza con un intento tutt’altro che altruista: trovatosi di fronte a una commissione disciplinare a causa del suo comportamento razzista, gli viene offerta la possibilità di redimersi preparando Neila al torneo universitario di retorica.
Dopo un primo momento di diffidenza da parte della ragazza, i due iniziano a conoscersi e a fidarsi l’uno dell’altro. Lei impara a leggere gli atteggiamenti scorbutici del professore come delle provocazioni che servono per metterla alla prova, lui escogita delle strategie alternative per calare i suoi insegnamenti di retorica in contesti pratici, come la metropolitana. Questi stratagemmi rimandano all’importanza, nel processo di insegnamento e apprendimento, di proporre sfide concrete che rappresentano una possibilità di crescita per l’allievo. Tenendo fede alla massima delle lezioni di retorica “la verità non importa, ciò che importa è avere sempre ragione”, Neila vince una gara dopo l’altra qualificandosi alla finale di Parigi. In questa occasione, scopre la verità sul motivo per cui Mazard si è preso cura della sua formazione e decide di non presentarsi all’ultima prova. Grazie alle parole del suo ragazzo, Mounir, che la esorta a non mollare dopo tutto ciò che con fatica ha realizzato, inizia una corsa contro il tempo che porterà Neila a testimoniare per difendere Pierre davanti alla commissione d’inchiesta. Dalle parole della ragazza traspare tutta la sua preparazione retorica nella difesa di un accusato, in un discorso che inizia con una serie di critiche, ma si trasforma in un ringraziamento a colui che le ha permesso di conoscere la sua vocazione di avvocatessa.
È alla fine del film che si scorgono i frutti della relazione educativa tra Pierre e Neila, quando il professore rincorre la giovane per ringraziarla ripetendo una frase pronunciata da lei: “quando si parla bene ci si dimentica come dire le cose in maniera semplice”. Una relazione che ha portato Neila a coronare il suo sogno esercitando la professione di avvocato con consapevolezza e professionalità e che, indubbiamente, ha fatto bene anche al cinico professore, che è diventato più umano. Perché, si sa, la relazione educativa arricchisce entrambi i soggetti che la costituiscono, in un modo o nell’altro. Nonostante i suoi modi, Pierre è riuscito a trasmettere a Neila la passione per la sua materia e la tenacia nell’affrontare le sfide, dandole fiducia e credendo in lei. Caratteristiche, queste, che fanno parte della missione dell’insegnante, chiamato a stare dalla parte degli alunni e a sostenere le loro passioni e inclinazioni perché possano trovare il loro posto nel mondo.
Giu 23, 2020 | Studenti
Traendo spunto dall’incontro con il Prof. Emanuele Balduzzi, Anna Maria Canteri approfondisce il tema della narrazione come fondamento dell’identità personale.
La persona che racconta prende consapevolezza di se stessa; la persona che ascolta coltiva importanti qualità:
consapevolezza, compassione.
Chi ascolta è colui che conduce e chi conduce è colui che rinuncia al suo potere.
Anna Maria Canteri-Fricker