Dic 23, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
a cura di Yves Semen – Edizioni ARES, 2017
È curioso constatare come la Chiesa Cattolica abbia sempre preteso di affermare la propria voce in merito a tematiche che parrebbero non essere di propria pertinenza. Così come Leone XIII, con la pubblicazione della lettera enciclica Rerum Novarum nel 1891, introdusse la Chiesa Cattolica nella riflessione sulla cosiddetta “questione sociale”, segnando un netto scarto rispetto alla narrazione social-comunista, pure Giovanni Paolo II impostò il proprio magistero secondo una linea che potremmo definire “interventista” nei confronti della contemporaneità. In particolare, il pensiero di Karol Wojtyla si concentrò notevolmente sul “corpo” e sulla “sessualità”. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa un papa, che vive la disciplina del celibato, possa affermare di veramente originale su tali questioni. Tuttavia, tale riflessione fu così centrale in Giovanni Paolo II che egli vi dedicò quasi tutte le udienze generali dei primi cinque anni del pontificato (dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984). Per ben 129 mercoledì il papa polacco propose un percorso catechetico che prese successivamente il nome di Teologia del Corpo. Questo enorme materiale documentario nel 2016 è stato nuovamente riorganizzato e riassunto in un breve e agile compendio curato dal professore Yves Semen, tra i principali studiosi del magistero wojtyliano, ed edito nel 2017 in Italia per i tipi di Ares.
Come gli altri compendi, anche il libro di Semen è pensato principalmente per i non addetti ai lavori, senza tuttavia “annacquare” il pensiero di Giovanni Paolo II. Pur nel rispetto dell’impostazione generale delle udienze, il Compendio è arricchito di uno schema dettagliato dei temi proposti e da un lungo ma semplice glossario dei concetti fondamentali e delle espressioni chiave presenti nel volume. Quest’ultimo è infine diviso in due grandi capitoli, che riflettono sulla visione cristologica e sacramentale della corporeità. Con un continuo richiamo ai testi evangelici, in particolare al «discorso della Montagna» (cfr Mt. 5, 1-7, 29) e alla lettera paolina agli Efesini (cfr. Ef. 5, 21-33), papa Wojtyla propone una cosiddetta “redenzione del corpo” che, dalla concezione tipicamente manichea di sede del peccato originale, diventa il luogo in cui l’uomo e la donna hanno la possibilità di costruire la propria identità. Secondo la riflessione wojtyliana infatti, l’essere umano si distingue dagli altri viventi per la capacità di donarsi con dignità da «persona alla persona» (cfr. pag. 63). Riallacciandosi al magistero precedente, in particolare alla costituzione pastorale Gaudium et Spes e alla lettera enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (di cui le udienze di Wojtyla paiono una sorta di “commento approfondito”), Giovanni Paolo II afferma con solennità che la sessualità vissuta in verità è il più profondo atto dell’amore sponsale di una coppia, in cui la continenza (cfr. pag. 82 e 83), la genitorialità responsabile (cfr. pag. 143) e la sottomissione reciproca all’amato/a (cfr. pag. 99) rappresentano non una rinuncia della propria libertà, ma un’affermazione dell’amore nei confronti della propria dignità in relazione al proprio corpo (cfr. pag. 57). In quanto padrone di sé, afferma il pontefice, l’uomo e la donna possono infine donarsi in libertà nei confronti dell’altro/a e potersi concedere in questo modo all’amore coniugale.
Giovanni Paolo II condanna tutte quelle «mercificazioni del corpo», con particolare riferimento alla pornografia, in cui non solo è minata l’intimità personale del soggetto ma, ancora più profondamente, è violata la «regolarità del dono e del reciproco donarsi» (cfr. pag. 64). Per correggere tali deviazioni, infine, il papa consiglia di investire le energie su una pedagogia del corpo, che possa istruire l’uomo e la donna contemporanei a riconoscere nel corpo il «segno della persona» e, in un certo senso, accompagnarli a maturare un’adeguata «spiritualità del corpo» (cfr. pag. 61). L’obiettivo più profondo dell’insegnamento di Giovanni Paolo II sulla sessualità è infatti quello di indicare ai fedeli cattolici, a genitori e a educatori un orizzonte pedagogico che permetta di instaurare una relazione piena e vera con la propria corporeità e, in questo modo, poter amare sinceramente anche il prossimo.
Le tematiche qui brevemente proposte sono un semplice saggio dei numerosi percorsi di riflessione che le udienze di Giovanni Paolo II hanno in qualche modo inaugurato e approfondito. Il Compendio è sicuramente uno degli strumenti più adatti non solo per comprendere la Teologia del Corpo ma anche per indagare nel dettaglio l’insegnamento di Karol Wojtyla, ancora estremamente attuale sotto molti aspetti.
Concludo questa breve recensione al Compendio citando le parole di Giovanni Paolo II che, almeno in parte, rispondono alle domande che ci ponevamo in apertura, in merito alla “legittimità di una Teologia del Corpo”. Scrive il papa:
«Il fatto che la teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare né sorprendere. Tanti uomini nel matrimonio cercano il compimento della loro vocazione e la via della salvezza e della santità. Cristo conduce l’uomo, maschio e femmina, sulla via della “redenzione del corpo”, che deve consistere nel ricuperare questa dignità in cui si compie il vero significato del corpo umano» (pag. 27-28).
Stefano Sasso
Dic 23, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste sono le domande alle quali l’autrice, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, cerca di rispondere, tenuto conto del contesto venutosi a creare negli ultimi tempi a causa della pandemia, che ha reso il ricorso alle nuove tecnologie nel campo dell’insegnamento particolarmente pervasivo.
Domande guida
Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste domande definiscono la cornice delle riflessioni che seguono, su cui il momento attuale induce a interrogarsi con un’urgenza forse impensabile fino a un paio d’anni fa. Le misure poste in atto a seguito dell’emergenza pandemica sembrerebbero aver dimostrato che i dispositivi digitali sono alternative accettabili alla comunicazione didattica che si svolge con la presenza contemporanea di docenti e studenti nello stesso luogo fisico.
Ma è davvero così? Nei mesi in cui siamo stati costretti a mantenere attiva la scuola e l’università attraverso la cosiddetta DAD (didattica a distanza) le voci polemiche di psicologi e pedagogisti che segnalavano i gravi rischi per la formazione di bambini, adolescenti e giovani presenti nell’utilizzo intensivo dei dispositivi digitali si sono alternate a quelle dei promotori di una sorta di nuovo paradigma comunicativo, in cui il digitale garantisce più funzionalità ed economia di tempo e risorse. Quali sono i criteri con cui leggere il momento presente e guardare al futuro che si prefigura non solo possibile ma probabile, per i contesti professionali in generale e in particolare per quello dell’educazione e della formazione? Se è evidente che molte sono le questioni in gioco e che non sarà possibile ripristinare la situazione pre-pandemia ma solo decidere sensatamente come vivere nelle nuove condizioni createsi e quale orientamento dare alle scelte nei vari ambiti della vita professionale e relazionale in genere, nelle righe che seguono propongo alcuni spunti di riflessione sul lavoro educativo, in particolare quello che si svolge a scuola o per quanto mi riguarda in università, vivaio degli adulti di domani.
La prospettiva antropologica
L’educazione che si realizza nelle istituzioni scolastiche e universitarie ha come focus principale i processi di apprendimento-insegnamento e saperi di diverso genere, cioè un patrimonio culturale. Sembra scontato affermare tutto ciò, ma ritengo valga la pena precisarlo, perché ci richiama al fatto che parlarne richiede di assumere più o meno consapevolmente una certa visione dell’essere umano, visto che – come peraltro la quasi totalità delle attività in cui le persone sono a vario titolo impegnate – si tratta di processi e temi che coinvolgono esseri umani in relazione con altri esseri umani, a loro affidati. D’altra parte, in gioco c’è anche una certa idea di che cosa significhi apprendere e insegnare. In questa sede non è possibile esplorare esaustivamente né l’una né l’altra di queste due premesse e neppure argomentare le soluzioni che propongo per entrambe. Forse ci saranno ulteriori occasioni per soffermarsi più ampiamente su queste. Qui basti dire che dal modo in cui concepiamo l’essere umano dipende il modo in cui intendiamo l’apprendimento e l’insegnamento. E ancora, proprio l’essere umano, o meglio la visione che ne abbiamo, ci consente di fornire qualche itinerario di risposta alle domande iniziali.
La cultura occidentale ha elaborato negli ultimi secoli letture riduttive o riduzioniste dell’essere umano, cioè ne ha alternativamente esaltato l’una o l’altra delle sue dimensioni a discapito delle restanti, offuscate, svalorizzate o deprivate. La filosofia moderna ha identificato l’essere umano con la sua ragione, la sua capacità produttiva, la sua libertà di scelta, le sue pulsioni. Il pensiero postmoderno ha messo in discussione queste concezioni, ma non ne ha rimosso l’errore di fondo, ossia appunto la semplificazione della struttura complessa e pluridimensionale della persona umana. Soprattutto ha estremizzato la tendenza – già presente dall’Illuminismo in poi – a subordinare la realtà, potremmo dire “le cose come sono”, al pensiero, ossia “le cose come le vedo io”, o alle possibilità operative di cui si dispone su di essa, cioè “quello che sono in grado di fare”. Per questo, ultimamente sempre con maggior insistenza – e direi violenza – non si parla né si ritiene possibile parlare di “natura umana” e non si commisura ciò che si può tecnicamente fare “con le persone” alla “verità della persona”, perché non ci si domanda più “chi sia una persona”, che cosa connoti un essere umano e quindi quali caratteristiche debbano avere le azioni che lo riguardano. Parafrasando Dostoevskij, si potrebbe dire che “se la natura umana non esiste più, qualsiasi azione verso l’uomo è ammissibile e adeguata”.
Le persona che apprende, la persona che insegna
Che cosa c’entra tutto ciò con l’apprendimento e l’insegnamento? Come accennato sopra, dalla concezione dell’essere umano che assumiamo dipende il modo di intendere i processi educativi e formativi. Se la persona è una totalità complessa, in cui la dimensione fisica, psico-affettiva e spirituale sono inseparabilmente costitutive della sua identità, tutte e ciascuna di queste dimensioni sono in gioco nelle azioni umane, compreso appendere e insegnare. E d’altra parte, la persona è un essere strutturalmente relazionale, ossia proviene da relazioni, genera relazioni ed esige relazioni. Non solo: nelle relazioni che attiva investe, o meglio per star bene “ha bisogno” di investire, tutte le dimensioni del suo essere. Apprendere e insegnare, allora, sono atti relazionali che coinvolgono non solo la dimensione cognitiva, ma anche quella fisica e psico-affettiva.
Propongo qualche esempio, sia dalla prospettiva del docente, sia da quella dello studente. Per insegnare è sicuramente necessario possedere un sapere e conoscere tecniche e strumenti adeguati a veicolarlo efficacemente; è innegabile che la tecnologia può offrire opportunità interessanti, per visualizzare contenuti, per coinvolgere in modo interattivo gli studenti, per rendere fruibili attività ed esercizi che promuovano autonomia, autoregolazione, autocorrezione degli errori, potenziamento strategico, etc. Tuttavia da sempre – e tantopiù nel momento attuale – le modalità comunicative, ossia i metamessaggi veicolati con la prossemica, le inflessioni della voce, lo sguardo, la gestualità non solo contribuiscono, ma spesso determinano l’efficacia del messaggio. Ancora: l’interesse, la passione, il coinvolgimento che un docente trasmette per ciò che sta insegnando e in generale per il suo lavoro costituiscono un driver motivazionale ineguagliabile per i suoi studenti. Spesso mi capita di cogliere in adolescenti e giovani una correlazione molto stretta tra l’atteggiamento di un certo docente nei confronti del lavoro e degli studenti e la loro disponibilità a impegnarsi nello studio della disciplina che egli insegna. Al contrario, l’assenza di motivazione negli studenti spesso origina dalla percezione dell’assenza di “intelligenza emotiva” o “competenza empatica” negli insegnanti.
La stessa implicanza multicomponenziale è presente nei processi di apprendimento che – come segnalano da tempo Cornoldi, De Beni e colleghi – vedono l’intersecarsi di fattori cognitivi, ossia “freddi” ed emotivi e affettivi, cioè “caldi”. Può essere utile richiamare le varie dimensioni dell’intelligenza individuate da Gardner, tra cui sono presenti oltre a quelle più facilmente e intuitivamente riconoscibili come la logico-matematica e la linguistica, anche la musicale, la spaziale, la cinestetica, la interpersonale e la intrapersonale. Benché alcuni ritengano in parte superata la teoria di Gardner, mi sembra interessante e sempre valida la consapevolezza a cui incoraggia, ossia che l’essere umano entra in rapporto con la realtà non solo mediante l’intelligenza, ma anche tramite la fisicità e la sensibilità emotiva e affettiva. Gli studi sul valore della psicomotricità per l’apprendimento nei primi anni di vita, nonché l’esperienza almeno decennale in questo senso ne sono una testimonianza. Altrettanto si dica per tutte le metodologie di “didattica attiva”, in cui gli studenti sperimentano come veicolo di apprendimento efficace modalità più dinamiche di vivere gli ambienti (l’aula o altri spazi interni o esterni alla scuola) o il confronto in piccoli gruppi di lavoro, che movimentano le relazioni e le emozioni a esse connesse, sia positive sia negative. Molto altro si potrebbe considerare, soprattutto rispetto agli adolescenti e ai giovani universitari, riguardo alla connessione tra affettività e apprendimento, a quanto quella può promuovere o inibire questo: sempre più spesso lo stare bene o male a scuola dipende dal vissuto emotivo profondo dei giovani e questo è manifestazione della qualità delle loro relazioni, del fatto che ci siano o meno relazioni significative nella loro vita.
Un nuovo paradigma formativo?
Che cosa ha modificato il nuovo assetto relazionale e comunicativo determinato dalla reazione alla pandemia? Sicuramente l’aspetto più evidente è una sorta di virtualizzazione dell’esperienza in generale, il che sembra aver ridefinito le modalità di relazionarci – da febbraio 2020 le relazioni sono diventate insieme un pericolo e un’esigenza intensa, potentissima – e aver drasticamente ridotto le possibilità espressive della componente fisica delle persone, ossia del corpo e delle emozioni che la gestualità e la mimica veicolano. Ciò ha segnato tutti, anziani, adulti, giovani e bambini; certamente la sofferenza fisica ed emotiva è stata più acuta nelle persone che stanno vivendo fasi più delicate della vita o le cui condizioni rendono più delicato vivere. Tra le figure professionali, quella dei docenti è stata particolarmente provata dalle conseguenze della pandemia, anche perché ha fatto i conti non solo con la propria fatica e sofferenza ma anche con quella degli studenti. Per quanto non si possa dire che questa fase storica sia conclusa, certamente, rispetto a un anno e mezzo fa, oggi si guarda con maggiore distanziamento e consapevolezza a quanto accaduto nei mesi scorsi e ancora in corso. Molti sostengono che la digitalizzazione o virtualizzazione del lavoro e delle attività umane in generale, tra queste anche la formazione scolastica e universitaria, siano il futuro, che vadano cavalcate le opportunità dei dispositivi tecnologici e che si sia entrati in un nuovo paradigma in cui i modelli e metodi di apprendimento-insegnamento precedenti risultano ormai superati o da superarsi a breve.
Non credo che la strada del ripristino della situazione precedente sia percorribile; penso piuttosto che vada esplorato, sia nella ricerca accademica sia nell’esperienza diretta di chi insegna in tutti i livelli di studio, che cosa può significare l’esigenza di un nuovo paradigma formativo. Proprio l’esperienza della didattica digitale o integrata – cioè in cui parte degli studenti sono nello stesso luogo fisico, magari con il docente, e parte sono collegati su una piattaforma online – ha posto in luce con forza la mancanza di relazione e di vicinanza fisica, una comunicazione di qualità inferiore in cui non era possibile incrociare gli sguardi e percepire il clima emotivo instaurato dal rapporto tra docente e studenti e dagli studenti tra loro. E tale mancanza e i tentativi di colmarla hanno denunciato che è falsa la concezione dell’apprendimento-insegnamento come dispositivo funzionale.
Pertanto, o le istituzioni educative tornano a essere luoghi di comunicazione profonda, di scambio relazionale e di cura o non avranno più futuro: infatti, se il compito della scuola è solo trasmettere informazioni, in effetti la soluzione digitale è più funzionale ed economica. Ma se desideriamo che la scuola e l’università restino luoghi in cui si edifica l’essere di tutti coloro che ne sono protagonisti, studenti e docenti, in un reciproco scambio di beni relazionali, allora i dispositivi digitali non potranno essere “la” risposta al bisogno di nutrimento di tutte le dimensioni costitutive della persona – corpo, cuore, mente – ma dovranno avere collocazione e utilizzo tali da consentire prima di tutto e sopra tutto il contatto diretto e autentico con la realtà vera e le persone concrete.
Alessandra Modugno
*Alessandra Modugno è ricercatrice di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova ed è studiosa del pensiero di Michele Federico Sciacca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensare criticamente. Verità e competenze argomentative, Carocci editore, 2018
Dic 23, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Intervista ad Agnese Checchinato – dott.ssa in Scienze Psicologiche dello Sviluppo e dell’Educazione, Insegnante di Massaggio Infantile Shantala
L’educazione di un bambino riguarda tante realtà. In primis, senz’ombra di dubbio, la famiglia. Anche il ruolo della scuola è indiscutibile così pure le attività pomeridiane quali, ad esempio, lo sport.
Uno dei corsi che riscuote sempre più interesse e che vede un numero sempre maggiore di bambini iscritti è la psicomotricità; la sua importanza e peculiarità si è resa evidente quando, nei primi mesi del 2021, mentre tutte le attività sportive venivano sospese, una delle poche a proseguire è stata proprio la psicomotricità. Il nome ci richiama il fatto che l’attività fisica influisca non solo sul benessere del corpo ma anche della mente.
- È così? Che cosa si insegna ai bambini in un corso di psicomotricità? A quali bambini è particolarmente adatto? A quali fasce d’età?
Vorrei iniziare con un ringraziamento per avermi dato la possibilità di parlare di questo tema importante e molto attuale. Come appena ricordato, infatti, nei primi mesi di questo anno particolare una delle attività a non essere sospesa è stata quella della psicomotricità che, infatti, non rientra fra le attività sportive ma è una disciplina a sé che coinvolge il corpo, lo schema corporeo, il movimento, il pensiero e le emozioni. Quindi, a differenza di un’attività sportiva, in cui l’insegnante o l’istruttore insegna delle tecniche specifiche di movimento, oppure strategie di azione o di collaborazione con i compagni, all’interno di un incontro di psicomotricità il conduttore non “insegna” nulla, per così dire, ma predispone l’ambiente in modo tale che il bambino possa sperimentarsi sia individualmente (seguendo i propri interessi e la propria curiosità) sia in gruppo (sperimentando dinamiche di socialità e di interazione).
Corpo e mente sono strettamente legati e in Psicomotricità lo si coglie immediatamente, infatti il ben-essere del corpo influenza positivamente anche il pensiero e le emozioni e viceversa. Spesso piuttosto che ricercare un movimento particolare, fatto in un certo modo, cerchiamo di far trovare il desiderio del movimento, la motivazione al movimento che infatti è strettamente legata al ben-essere. Tutto questo può portare a grandi soddisfazioni e miglioramenti. La psicomotricità, a livello preventivo, è utile a tutti i bambini ma anche agli adulti perché permette di rafforzare il collegamento mente – corpo con tutte le sue meravigliose potenzialità.
- Che formazione deve avere l’insegnante?
Per quanto riguarda la formazione specifica dello Psicomotricista, per esercitare questa professione è necessario aver conseguito il Certificato di Competenza Professionale di Psicomotricista dopo aver concluso l’iter triennale in una delle Scuole di Psicomotricità presenti sul territorio italiano o europeo. A Verona, ad esempio, troviamo la Scuola Professionale di Psicomotricità C.I.S.E.R.P.P. Scuola convenzionata con l’Institut Supérieur de Rééducation Psychomotrice di Parigi – Accreditata presso la FFP (Féderation française Psychomotriciens), l’APPI (Associazione professionale psicomotricisti italiani), l’AIFP (Associazione Italiana Formatori in Psicomotricità). La Scuola ha il Patrocinio del Comune e della Provincia di Verona e dell’ULSS 20 – Veneto Membro FISSPP (Federazione Italiana Scuole Superiori Professionali di Psicomotricità).
Per chi volesse proseguire gli studi, nell’ambito della ricerca, a Verona è presente anche il Master Universitario Internazionale in Psicomotricità di durata biennale.
Ci tengo a fare, poi, una piccola precisazione: chi conduce un percorso di Psicomotricità solitamente non viene chiamato “Insegnante” ma semplicemente Psicomotricista, proprio perché, come ho appena accennato nella domanda precedente, l’obiettivo non è quello di insegnare qualcosa ma è quello di predisporre l’ambiente e la relazione con il bambino, in modo tale che quest’ultimo possa esprimersi al meglio delle proprie capacità grazie alla spinta della curiosità e al desiderio di sperimentare e sperimentarsi.
- Come si svolge una lezione di psicomotricità? Servono particolari attrezzature?
Non c’è una regola precisa per svolgere un incontro di psicomotricità, ci sono più che altro delle fasi, potremmo dire.
Si può partire da un momento di condivisione iniziale (un saluto in cerchio o l’occasione per raccontare ciò che i bambini desiderano agli altri o allo Psicomotricista), poi c’è un momento di attività motoria globale che potrebbe consistere nell’ideazione e creazione di percorsi motori per sperimentare la coordinazione, l’equilibrio, lo spazio, il tempo, il ritmo e cosi via…
C’è sicuramente un momento dedicato al gioco simbolico per riprodurre situazioni conosciute e sperimentare vari ruoli e vari personaggi differenti.
Grande importanza avrà anche l’attività di coordinazione fine o di coordinazione oculo-manuale come le costruzioni o la sperimentazione grafica, che rientrano nell’attività grafomotoria (ad es. disegno) per poi concludere con un momento di rilassamento e di condivisione finale.
Per svolgere un incontro di psicomotricità non sono necessarie attrezzature particolari (a parte materassoni, moduli morbidi di forme e dimensioni differenti); ciò che viene privilegiato è materiale non strutturato che permetta al bambino di ingegnarsi, di creare e di provare esperienze nuove e differenti, uscendo dalla modalità conosciuta al di fuori della palestra di psicomotricità. Ciò a cui tiene molto il professionista di questa disciplina è la suddivisione dei materiali in aree specifiche dello spazio e dell’ambiente in cui si svolge l’attività, questo prende il nome di Setting Psicomotorio.
Il Setting risulta fondamentale allo psicomotricista per condurre l’incontro e per far si che le esperienze e le attività abbiamo obiettivi e modalità coerenti e funzionali.
- Quali risultati ci si può aspettare?
Questa domanda richiederebbe una risposta lunga e complessa perché i risultati dipendono da una molteplicità di fattori, ma anche dalla tipologia di soggetti che partecipano all’attività.
In linea generale, però, si può certamente dire che seguendo un percorso di psicomotricità il bambino andrà ad affinare e a rafforzare le sue competenze motorie per quanto riguarda la coordinazione generale e quella fine, la gestione dello spazio e del tempo (sia nella pratica che a livello astratto), la sua conoscenza del ritmo (da quello musicale a quello corporeo ma anche di altri tipi di ritmo come quello quotidiano che regola le nostre giornate). Tutti questi aspetti insieme concorreranno nel rafforzare lo schema corporeo del bambino e anche la sua l’immagine corporea, cioè l’immagine che ha di sé stesso e quindi l’autostima. Ovviamente per qualcuno questi risultati potranno sembrare impercettibili mentre per altri estremamente evidenti. Ogni storia è a sé ma se si avrà la pazienza di aspettare e di lasciarsi stupire i risultati arriveranno!
Miriam Dal Bosco
Dic 23, 2021 | Home
Parlare di arrampicata in un’associazione che si occupa di educazione, può creare perplessità.
L’arrampicata è un’arte? In che senso? Cosa c’entra l’arrampicata con l’educazione?
Senza togliere nulla alla sua necessaria professionalità, l’educatore deve avere anche delle doti “artistiche”. Mi riferisco, per esempio, alla capacità di relazione che l’insegnante deve sviluppare con ogni studente, necessaria perché i ragazzi siano aperti a ciò che noi insegniamo. È importante anche la capacità di passare all’educato ciò che non è previsto dal programma, ma che è necessario, perché riguarda la sua vita; si pensi al rispetto per le persone e le cose, che sta alla base di qualsiasi tipo di relazione e apprendimento. È un’arte anche la capacità d’insegnare a “sognare cose belle e grandi”. Una volta ho accompagnato in gita degli alunni di IV Primaria, che, arrivati in piazza Dante a Verona, autonomamente, senza che l’insegnante dicesse qualcosa, si sono messi ai piedi della statua del poeta a recitate a memoria il XXXIII canto dell’Inferno, quello del Conte Ugolino, che avevano studiato a scuola. Si correggevano tra loro quando sbagliavano, ma con un entusiasmo incredibile, tanto che erano additati e applauditi dai ragazzi delle scuole superiori lì presenti. Dante li aveva conquistati.
Cos’è, dunque, che fa di qualsiasi attività un’arte? Credo sia il fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di bello e grande, più grande delle nostre immediate possibilità forse, ma che fomenta la sua contemplazione e il suo servizio, anche se non ci sentiamo del tutto adeguati. In fondo è quello che succede a chi s’innamora e che vede nell’amato/a qualcosa di più grande di lui/lei, ma che lo spinge alla sua contemplazione e al suo servizio… per amore.
L’arte non si possiede solo in modo innato, nel senso che c’è chi l’ha e chi non l’ha. È il sogno che forma l’artista, come succede a chi impara a costruire una nave perché vuole vedere il mare infinito. L’artista è un artigiano che sogna con il suo lavoro.
Ecco cosa vedo in comune tra l’insegnamento e l’arrampicata, senza per questo negare legami tra l’insegnamento e tante altre discipline: l’unità tra sogno e tecnica.
A me piace arrampicare e vedo molti che si appassionano e imparano.
Scuola e arrampicata hanno bisogno di un approccio laboratoriale, cioè non solo teorico (“Io ti spiego e poi tu esegui”), ma anche pratico: ti faccio vedere come si fa a “scrivere” e attraverso vari passaggi (a volte anche insegnando fisicamente a impugnare la matita) ti aiuto a raggiungere l’obiettivo…
Se io “amo ciò che ti voglio insegnare”, posso aprirti orizzonti d’apprendimento molto belli.
Molti bambini diventano “tifosi” della squadra che “tifa” papà! E rimangono fans della stessa squadra anche nel periodo adolescenziale, quando spesso entrano in contrasto con i genitori e rifiutano molte delle cose che propongono. Il tifo non è arte, ma ci dice che è condividendo ciò che si ama che si trasmette appieno.
Quali sono i legami tra scuola e arrampicata?
Una volta un amico mi chiese: “ Che provi quando “chiudi una via” e raggiungi l’obiettivo?”. Non so perché gli ho risposto: “E cosa prova un ballerino, quando finisce di danzare?” Certo, c’è la soddisfazione per aver danzato bene e il sentire un pubblico che l’applaude, ma prova molto di più nella danza stessa: mentre l’esegue, ne percepisce, nel fisico e nella mente, l’armonia e bellezza.
Qualche esegeta interpreta il rapporto con Dio come una danza, dove a ballare sei tu con Lui…
Io credo che ci sia una “musica” anche nell’arrampicata.
In una salita provo piacere anche durante il suo sviluppo, sebbene ansimi; il mio fisico e la mia mente apprezzano il movimento ben fatto, l’armonia dei passaggi e la loro fluidità. E poi c’è salita e salita: alcune sono più belle di altre proprio per l’eleganza con cui possono essere interpretate. Arrampicare è come risolvere un’equazione col corpo.
In un articolo, in cui s’intervistava una forte scalatrice che aveva ottenuto una grande performance, alla domanda “Come hai fatto a prepararti per “aprire” quella via?” essa, prima di parlare di allenamento e studio del precorso, ha risposto “Sapendo che potevo fallire”. Per me è stata un’illuminazione. L’arrampicata è come la vita: è costituita anche da fallimenti, ma spesso è attraverso di essi che cresciamo. Dapprima perché diveniamo realisti, impariamo a conoscerci, e poi perché le cadute possono divenire una rampa di lancio per decollare: è anche attraverso i fallimenti che s’impara. In arrampicata chi vuole “aprire una via” difficile lo fa, oltre che con un allenamento specifico, tentandola decine e decine di volte, e ogni volta “volando”, cioè cadendo (con la corda ovviamente), finché non riesce a “liberarla”, cioè la conclude.
Anche a scuola l’importante non è mettersi a confronto con gli altri, ma ragionare sui margini di miglioramento personali.
“Difficile” spesso vuol dire “superiore al mio livello”. Questa è una condizione normale per chi arrampica cercando di superare il proprio livello, ma lo è anche per chi studia.
Possiamo convincere i nostri ragazzi che una cosa può essere difficile, ma non impossibile, predisponendo un valido piano inclinato che permetta loro di raggiungere l’obiettivo con gradualità, ma anche facendoli “innamorare” della cosa che devono imparare, e insegnando loro a vedere i fallimenti come un mezzo per crescere.
Un istruttore, che t’insegna ad arrampicare, deve, prima di tutto, saper scalare. Non solo, ma deve aver provato anche lui la fatica e i fallimenti che si provano esercitando quest’arte. Anche lui deve aver avuto le braccia “ghisate”, cioè dure e pesanti come la ghisa, inefficaci perché piene di acido lattico. Così può mettersi nei panni del suo allievo, capire le difficoltà che sta provando, di volta in volta, e dargli dei validi suggerimenti per superarle. Pure nell’insegnamento non basta conoscere la materia e le tecniche per insegnarla, occorre anche saper percepire le difficoltà che provano gli alunni in ogni momento dell’apprendimento, perché le abbiamo provate anche noi.
Di solito si arrampica in coppia: c’è chi sale per primo e chi lo “assicura” tenendo la corda, rimanendo in basso. Ovviamente il “primo” ogni tanto “infila” la corda nei chiodi allineati lungo la parete, per evitare di cadere fino in fondo. Il primo è chi rischia di più, e si deve fidare di chi lo assicura, che a sua volta deve stare molto attento per frenare l’eventuale caduta.
Ho visto ragazzini, pur sotto l’occhio attento degli istruttori, arrampicare e assicurare in questo modo. È una grande scuola di responsabilità: la tua vita sta nelle mie mani.
Ultimamente rimango stupito nel vedere i ragazzini della squadra sportiva, di dodici anni, fare delle salite che io mi sogno: è incredibile vedere la dinamicità dei loro gesti e le difficoltà che, con apparente naturalezza, superano. Certo non si può chiedere a un ultracinquantenne di correre i 100 m alle Olimpiadi, e così bisogna ragionare anche nell’arrampicata, ma si può capire che l’obiettivo principale per un bravo insegnante è rendere i suoi alunni migliori di lui.
Ho visto un padre e un giovane figlio che arrampicavano. A salire da “primo” era il figlio, mentre il padre, pur essendo un bravo scalatore, lo “assicurava” da sotto, tenendo la corda. Questo, secondo me, può essere il paradigma dell’educazione. Se un padre vuole educare in profondità, non risolve solo le questioni al figlio, ma, oltre ad insegnargli come si fa, lo spinge ad affrontare le difficoltà “da primo”, pur proteggendolo con l’equivalente di una corda. Credo che anche noi insegnanti possiamo agire così.
Michael Dall’Agnello
Dic 23, 2021 | Newsletter, Rassegna stampa
Il 29 ottobre 2021 è stato conferito al filosofo francese Fabrice Hadjadj il Premio Internazionale alla Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, giunto alla sua 39ma edizione.
Con l’occasione abbiamo voluto riportare il testo integrale della conferenza Perché dare la vita a un mortale? Essere genitori alla fine del mondo, tenuta dall’autore nel 2016 a Verona, presso l’auditorium Bisoffi, organizzata dalle scuole Gavia, Braida e ABiCi (ora pubblicata nel volume Perché dare la vita a un mortale & altre lezioni italiane, Edizioni ARES, 2020).