Set 5, 2021 | Appuntamenti, Conferenze
In concomitanza con la ripresa dell’anno scolastico, riprendono anche gli incontri del Centro Studi per l’Educazione!
Il prossimo 22 settembre presso l’Istituto Virgo Carmeli di Verona si svolgerà l’incontro con Alessandro Anderloni che presenterà la voce educatrice di Dante
Mercoledì 22 settembre 2021 alle ore 17.00 presso Istituto Virgo Carmeli di Verona, via Carlo Alberto 26
per eventuali informazioni – segreteria@centrostudieducazione.it
per esigenze organizzative, segnalare la propria presenza all’incontro
Giu 26, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Recensione di François-Xavier Bellamy (Itaca, Castel Bolognese 2019)
Chiunque abbia avuto la fortuna di poter vivere l’esperienza di un pellegrinaggio a piedi, tra tutti il celebre Cammino di Santiago, può confermare con il sottoscritto quanto sia necessario, durante l’itinerario, fare memoria della destinazione. Solo fissando, nella mente e nel cuore, la méta del proprio peregrinare si può scansare il pericolo sempre incombente del vagabondaggio.
Lo sapevano bene quei cavalieri che, marchiando i propri scudi con una croce, si mettevano in viaggio verso il Santo Sepolcro, senza la garanzia di giungere a destinazione e armati del solo desiderio di poter calpestare la stessa terra del Cristo; lo sapeva bene quel folle di Ulisse, ramingo per il Mediterraneo ma con il cuore sempre rivolto a Itaca e alla sua famiglia amata; lo sapeva bene Seneca, il quale ci rammenta che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
Qualsiasi movimento è disastroso se non si pianifica la meta e, consecutivamente, se non si sa da dove si sta venendo. Questa è la tesi che viene argomentata da François-Xavier Bellamy in Dimora. Per sfuggire all’era del movimento perpetuo, apparso in Francia nel 2018 e pubblicato in Italia per i tipi di Itaca l’anno successivo, correlato dalle magistrali prefazioni di Lorenzo Malagola, segretario generale della Fondazione De Gasperi, e Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle Associazioni famigliari.
Un saggio, quello di Bellamy, denso, disarmante, semplicemente bello. Era da aspettarselo in effetti dalla stessa penna che nel 2016 aveva dato alle stampe il best-seller I Diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere, che destò notevole scalpore nell’attenta ed esigente società francese. Dimora è in primis una straordinaria parabola sull’esperienza filosofica dell’Occidente europeo, dalla dicotomia Eraclito-Parmenide sino a Galileo Galilei, passando per Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso. In secondo luogo, Bellamy procede con una raffinata fotografia dello stato di salute del mondo occidentale, reso fragile dal mito del «movimento perpetuo» e dall’utopia dell’eterna evoluzione, anestetizzato dalle leopardiane «magnifiche sorti progressive» e dal sogno di un progresso imperituro.
L’autore non si limita tuttavia a una fin troppo facile diagnosi delle fragilità del nostro mondo. Rimarrà deluso chi in Dimora desideri trovare il manifesto di un conservatorismo reazionario e fissista, nostalgico di un passato ormai tramontato. Bellamy infatti non è semplicemente un affermato filosofo e un abile insegnante nei licei della banlieue parigina. Nel 2008, a soli 23 anni, è stato eletto vicesindaco di Versailles e, nel 2019, è “sbarcato” all’Europarlamento in quota Partito Repubblicano francese.
Un buon politico è cosciente che alla diagnosi deve succedere necessariamente una prognosi. Bellamy propone quindi il concetto di “dimora”, intesa come riscoperta di «un luogo da abitare dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi» (p. 141) . Mettere radici, in poche parole, coltivare una quotidianità che possa divenire un argine alla “gassosità” di cui il nostro amato Occidente sembra essere sempre più assuefatto. Reinventare luoghi di incontro, di prossimità, di complicità, che facciano da contraltare a tutti quei non-luoghi (secondo la nota definizione di Marc Augé) che pervadono la nostra esistenza.
Ogni capitolo e ogni pagina del saggio invitano costantemente il lettore a compiere questo lavoro su se stesso, a interrogarsi su dove sia la propria Itaca e, come Ulisse, a non avere timore di solcare i mari per poterla raggiungere.
Stefano Sasso
Giu 26, 2021 | Newsletter, Spazio cinema
Paese: Italia, Francia, Spagna (2006) – Durata: 110 minuti – Regia: Paolo Virzì
Recensione
Tra i numerosi film su Napoleone, N. (Io e Napoleone) si segnala non per essere l’ennesima trasposizione cinematografica delle imprese militari del geniale comandante, ma per essere un tentativo di cogliere il lato intimo e privato dell’uomo.
Liberamente ispirato al romanzo N. di Ernesto Ferrero, Premio Strega 2000, il film è ambientato sull’Isola d’Elba, durante il primo esilio di Napoleone. Il protagonista è un giovane maestro elementare, Martino Papucci, infervorato dagli ideali di libertà, che nutre verso il Corso un grande desiderio di vendetta per le molti morti causate dalle sue campagne militari, e che vuole approfittare della sua presenza sull’isola per ucciderlo. Tale proposito lo ossessiona a tal punto da fargli trascurare completamente il lavoro nell’impresa di famiglia. Egli non condivide il grande entusiasmo suscitato negli abitanti dell’isola per l’arrivo di un così celebre ospite, che, al contrario considera un tiranno, come non apprezza il servilismo mostrato dalle autorità civili.
Il destino vuole che Napoleone abbia bisogno di un bibliotecario e scrivano personale, che stia a stretto contatto con lui per raccoglierne i pensieri e le riflessioni. Martino viene scelto per questo compito, avendo in tal modo l’occasione di ricevere le confidenze e i ricordi personali dell’uomo che ha fatto tremare l’Europa.
Egli ha modo così di incontrare Napoleone nella parte finale e meno gloriosa della sua parabola esistenziale, e di conoscerne il lato più privato e personale, scoprendo con sorpresa gli aspetti di debolezza e fragilità. Come quando in un’accesa discussione il giovane gli rinfaccia, quantificandole, le numerose vite sacrificate in nome della sua ambizione, e ricevendo dal generale, visibilmente addolorato, la risposta di non aumentare il suo dolore con l’aritmetica.
La frequentazione fra i due provoca un cambiamento nello sguardo che Martino ha su Napoleone, e per questo i tentativi messi in atto per assassinarlo, non risultando molto decisi, falliscono. Il rapporto tra il protagonista e Napoleone è la parte sicuramente più interessante e riuscita del film. Sebbene si trovi di fronte un uomo sconfitto, Martino non può non subire il fascino magnetico di quell’uomo, che prima di lui aveva entusiasmato masse intere; e a questo riguardo il Napoleone del film si pone questa domanda: “È Napoleone che ha scelto le moltitudini o sono le moltitudini che hanno scelto Napoleone?”.
La frequentazione alla fine si interrompe bruscamente con la fuga dall’isola e il ritorno in Francia con i cento giorni terminati sulle colline di Waterloo. Come la storia ci insegna, il Napoleone autentico che fa i conti con la storia della sua vita, che è emerso nel film, lo si vedrà soprattutto nel secondo e definitivo esilio, dove tra l’altro si riavvicinò alla fede, come testimonia il memoriale di Sant’Elena.
Alessandro Cortese
Giu 26, 2021 | Newsletter, Rassegna stampa
di Valerio Capasa (fonte: Il Sussidiario.net – 18.06.2021)
Se è vero che la Dad non ha creato, ma semmai aumentato la disaffezione dei ragazzi per la scuola, anche quella in presenza, urge ripartire dal desiderio di felicità.
Cala il sipario sull’anno scolastico più farsesco di cui abbia memoria. L’occhio casca sugli Europei di calcio proprio in coda agli scrutini, e il cervello finisce per intrecciare i fili: “povera Turchia! Sta perdendo 3 a 0 alla prima partita. Peccato però, anche loro si sono allenati, e hanno viaggiato fino a Roma. Dài, questo 0 passa a 3. Tutti d’accordo?”. Il calcio è così giusto, irrimediabile, mentre nel regno dell’irrealtà tutto si può truccare. Meno male che gli scrutini devono rimanere segreti…
Riavvolgiamo il nastro. L’ammutinamento pugliese non è uno spartiacque epocale? Dopo 14 mesi di Dad, alla domanda se volessero tornare in classe, circa il 98% dei liceali ha risposto di no. Più o meno è come non avere il pallone né il campo né le porte. Ci arrangiamo: due pietre per terra e un po’ di scotch attorno a quattro fogli di giornale. Man mano però la palla di carta comincia a sfaldarsi, e quando provvidenziale appare il miraggio di un campo in erba e di un pallone di cuoio, scopri che a mancare, in realtà, era la voglia di giocare. L’impressione è di chattare d’amore per un anno e mezzo con una ragazza, invitarla a uscire e sentirsi rispondere che domani no, deve studiare, dopodomani nemmeno perché c’è la prima comunione della nonna, e intanto sai per certo che esce con un altro; però la mattina dopo chatta con te, sempre sull’amore, con citazioni favolose.
Uno si immagina pianti, analisi, riflessioni… Niente, tutto come prima. Spiegazioni, verifiche. Verifiche, spiegazioni. Forse abbiamo un problema (vox clamantis in deserto), mica sarà colpa solo della politica scellerata o dell’adolescenza balorda: magari va cambiato qualcosa. Non abbiamo tempo per disquisizioni sui massimi sistemi. Incapaci non dico di una visione, ma almeno di una lacrima, di un urlo, di un abbraccio, preoccupati solo di tirare avanti la carretta. Perché non siamo zona rossa né arancione né gialla né bianca: siamo “zona grigia” (così Primo Levi chiamava il mostro della complicità).
Terza scena: un’ordinanza impone di chiudere gli scrutini entro il termine delle lezioni. Ergo, tutti i voti e le assenze vanno inserite non oltre il 31 maggio. Tradotto: dall’1 giugno ritiratevi tutti. E giustamente, se non mi punti alla tempia la pistola scolastica, nemmeno mi collego. Perché io e l’impiegato della posta non abbiamo altro da spartire se non la bolletta; col panettiere almeno si scambiano quattro chiacchiere; fra insegnanti e studenti, invece, neppure quelle. Un legame quasi quotidiano di uno o più anni, l’educazione come compito, la potenza della tradizione in mezzo, la vita come sfondo di ogni parola: eppure, messi i voti e le assenze, a giugno cala un gelo che nemmeno con l’impiegato o con il panettiere. Niente da dirsi, niente da condividere. Distanziamento.
Ti guardi intorno – lo scrive ancora Primo Levi – “sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate”. Troppi amici e colleghi, obnubilati da un ottimismo oppiaceo, non appaiono turbati dai fiori che appassiscono. Forse non ne coltivano, forse si consolano che morto un fiore se ne fa un altro, forse i loro sono di plastica. Pontificano che la Dad non ha creato il problema ma l’ha svelato. E hanno ragione. Tuttavia è come dire che le armi non sono la causa della violenza ma portano a galla quella già latente: se però diamo le armi in mano a chiunque, non aumentiamo la violenza? Idem la Dad: non ha creato il problema: l’ha svelato, e l’ha anche aumentato. Il contesto può aiutare oppure ostacolare, non è ininfluente.
Ora, dopo quasi un anno e mezzo, tiriamo le somme. Quanti morti di Covid fra gli adolescenti? Quasi nessuno. In compenso dispersione scolastica fuori controllo, problemi psicologici, psichiatrici, oculistici e fisici in aumento, deficit di attenzione alle stelle, ossia molta più fatica ad ascoltare, a leggere, a relazionarsi. Dovremo farci i conti, con la fase post-traumatica, altro che ritorno alla normalità! Esiste per fortuna un vecchio antidoto: la superficialità, che “ogni stento, ogni danno, / ogni estremo timor subito scorda”, come insegnano le pecore del Canto notturno.
Per questo, adesso, tutti al mare! Covid free. School free. Aveva visto giusto Leopardi quando scriveva che “mali veri” e “mille negozi e fatiche” distraggono gli uomini dal “conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità”. Fra Covid, compiti e vacanze, ci dimentichiamo quello che davvero abbiamo da condividere: il desiderio della felicità.
A meno che martedì 8 giugno non vivi tre ore consecutive di italiano, con 9 studenti in presenza e 13 collegati da casa, liberamente, solo per finire le Ultime lettere di Jacopo Ortis; o che mercoledì 9 un alunno che non ha propriamente la sensibilità di un poeta possa dispiacersi perché un sanguinamento della bocca gli impedisce di collegarsi; o che sempre il 9 un’altra alunna ti aspetti sotto casa mezz’ora dopo la fine delle lezioni per confrontarsi con te sulla sua estate; o che, dopo 15 mesi senza vedersi, l’11 giugno ti ritrovi al parco con una classe, un pallone, una chitarra, parole e sguardi veri; o che il 14 giugno vai al mare con loro, per condividere la vita: non è una rivoluzione? non è l’annientamento della farsa?
Alla fine dell’anno c’è chi si produce in post tronfi di “grazie a tutti” e “resilienza”, chi si fa una pizza insieme, chi si augura buone vacanze, chi si regala cornici, bracciali, dediche e complimenti. Ma qui c’è da regalare il proprio tempo, la propria estate. Più chiaramente: c’è da regalare se stessi.Perché in questi mesi qualcuno ha combattuto strenuamente, come un eroe greco: un duellante su vaso a figure rosse, un Achille in primo piano che sfida Ettore, con i mirmidoni e i troiani sullo sfondo. Eppure viviamo una stagione in cui più che mai il potere si è buttato a mordere sui legami, e allora urge una res publica, da eroi romani, che combattono insieme per fondare una città.
Valerio Capasa
Giu 26, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Aprile 1796, è in pieno svolgimento la prima campagna d’Italia del Gen. Bonaparte che, a capo dell’Armée d’Italie, dopo aver sbaragliato gli Austriaci a Dego, Millesimo e Montenotte e i Piemontesi a Mondovì e Cherasco, si scontra nuovamente con l’esercito austriaco a Lodi riportando un’epica vittoria che gli consentirà il 13 maggio di entrare trionfalmente a Milano da Porta Romana e di prendere possesso della città. Ma a Bonaparte questo non basta, vuole inseguire gli austriaci che si stanno ritirando e il 30 maggio li affronta a Valeggio sul Mincio. Dopo un duro combattimento gli austriaci in ritirata ripiegano verso Mantova.
Il giorno successivo, 1 giugno 1796, il Gen. Antoine Balland alla testa di 12.000 soldati entra per la prima volta a Verona.
Lo stesso Napoleone prende alloggio nella casa del Conte Francesco Emilei e ancora oggi questo soggiorno viene ricordato da una targa su cui si legge: “NAPOLEONE BUONAPARTE GENERALE DELLA REPUBBLICA FRANCESE TRIONFATORE A MONTENOTTE A MILLESIMO A DEGO A MONDOVI ENTRATO LA PRIMA VOLTA IN VERONA IL 1 GIUGNO 1796 ALBERGÒ IN QUESTO PALAZZO”.
Verona, fedele roccaforte di terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia, è costretta ad ospitare questi soldati stranieri che si sistemano nelle loro case e requisiscono tutte le riserve alimentari.
Va considerato che nella guerra tra francesi e austriaci Venezia, fin dall’inizio, ha adottato la politica della neutralità nella speranza di non essere coinvolta nel conflitto. Tuttavia, nonostante la dichiarata neutralità, i francesi, appena entrati a Verona, agiscono in modo autoritario nell’impossessarsi di Castelvecchio, dei forti militari, di alcuni edifici e di alcune chiese che vengono utilizzate come ospedali militari.
All’epoca Verona contava circa 55.000 abitanti che vivevano dignitosamente grazie ad una fiorente attività commerciale. Quanto sta accadendo in città coglie di sorpresa i cittadini che non comprendono il modo di agire arrogante e irrispettoso dei francesi che vengono visti più come invasori che come ospiti. Nessuno sa spiegarsi il perché di questo comportamento. Ma la spiegazione c’è e va ricercata in vecchi rancori che si erano venuti a creare tra Verona e la Repubblica Francese.
Verona dal 1794 al 1796 ha accolto il Principe Luigi Stanislao Saverio di Borbone, Conte di Lille, fratello del Re di Francia Luigi XVI. Il Conte durante il periodo del terrore, per evitare la ghigliottina, era fuggito da Parigi e si era rifugiato a Verona ospite dell’amico Conte Gianbattista Gazola. Durante il soggiorno, informato della morte di Luigi Carlo, legittimo erede di Luigi XVI, il Conte di Lille si autoproclama Re di Francia con il nome di Luigi XVIII e lo comunica ai francesi e a tutte le monarchie d’Europa. Questa presenza ingombrante imbarazza il Senato Veneto che teme un deterioramento dei rapporti diplomatici con la Francia, così nell’aprile 1796 decreta in fretta e furia l’espulsione del Conte dai territori della Serenissima Repubblica di Venezia. Questo alla Francia non basta, Verona ha manifestata inimicizia nei confronti della Repubblica, dunque merita una punizione.
Inevitabile che questa atmosfera rendesse i rapporti tra veronesi e francesi sempre più difficili; la diffidenza degli uni verso gli altri era così evidente che il Conte Augusto Verità, nella speranza di raffreddare gli animi, decide di compiere un passo diplomatico. Approfittando dei suoi buoni rapporti con il Gen. Balland, lo incontra e lo invita a mantenersi neutrale in caso di scontri tra cittadini veronesi fedeli a Venezia e cittadini veronesi che hanno abbracciato la causa giacobina. Il Generale conferma la sua intenzione di non intromettersi negli affari interni della Serenissima.
La Francia, ancora una volta, non è d’accordo e vede nell’occupazione militare della città la giusta punizione. Per attuare questo piano serve un valido pretesto che viene presto trovato. Gli stessi francesi progettano, scrivono, fanno stampare e affiggono ai muri della città un manifesto incitante i veronesi ad insorgere in armi contro gli invasori francesi e nella notte fra il 16 il 17 aprile vengono affissi dai francesi numerosi manifesti in cui si legge: “Noi Francesco Battaia per la Serenissima Repubblica di Venezia Provveditore Estraordinario in Terra Ferma…. contro questi nemici eccitiamo i fedelissimi cittadini a prendere in massa le armi e dissiparli e distruggerli, non dando quartiere a chichessia, ancorchè si rendesse prigioniero….. Invitiamo pertanto i Cittadini rimasti fedeli alla Repubblica a cacciare i Francesi dalla città e dai castelli che, contro ogni diritto, hanno occupato.”
La provocazione è fin troppo evidente, non resta che aspettare la reazione dei cittadini veronesi, che non tarda ad arrivare. Alle ore 14.00 del 17 aprile, lunedì dell’Angelo, in un’osteria nei pressi delle case Mazzanti si sviluppa una violenta zuffa, senza esclusione di colpi, tra veronesi e francesi; quest’ultimi hanno la peggio e vengono brutalmente malmenati.Contemporaneamente in Piazza Bra, tra i soldati dalmati, disposti a presidio dela piazza, ed alcuni giacobini locali si verificano alcuni scontri a fuoco. In tale circostanza il Gen. Balland, che nella piazza aveva disposto dei picchetti di guardia, per mantenere fede all’impegno preso e per non inasprire ulteriormente gli animi, ordina ai suoi di non intervenire. Alle 17.00 quando la calma sembra essere ritornata, molti veronesi prendono coraggio, escono dalle case e a gruppi, attraversando Piazza dei Signori, si incamminano verso le chiese per recarsi a Messa. Questa apparente situazione di cessato pericolo viene improvvisamente interrotta dalla caduta di alcune palle di cannone infuocate che, oltre a generare panico, provoca il ferimento di cittadini inermi e incolpevoli.
La decisione dei francesi di intervenire utilizzando l’artiglieria disposta su Castel San Pietro e sul forte San Felice induce la violenta reazione dei veronesi, come riporta la cronaca dell’epoca di un anonimo, conservata presso la Biblioteca Comunale di Verona: “A misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case […], correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, le quali si videro obbligate a cercare sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli… Non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città: Viva S. Marco… Tanta era la furia, l’impeto, la collera, l’odio che si era acceso contro questa gente che più non si conosceva ragione, né pietà, né religione….Fu riferito che erano stati veduti ragazzi con coltelli inveire contro i cadaveri di Francesi…. I francesi, che non riescono a raggiungere i forti o Castelvecchio, vengono rincorsi, catturati, uccisi e gettati nell’Adige.”
Inizia così una intensa attività di guerriglia urbana caratterizzata da duri e sanguinosi corpo a corpo. I francesi rispondono sparando da Castelvecchio cannonate sulle case circostanti che provocano devastanti incendi. Sarà il provvidenziale arrivo del Conte Augusto Verità con i suoi soldati a neutralizzare i cannoni francesi permettendo alla giornata di terminare favorevolmente. I veronesi controllano le porte di accesso alla città: Porta Vescovo, Porta San Giorgio, Porta Nuova e Porta San Zeno, mentre i Francesi restano asserragliati nei forti. Il giorno dopo, 18 aprile, i rappresentanti del Senato Veneto, resosi conto che le forze in campo erano nettamente favorevoli ai francesi, si precipitano a Venezia per chiedere l’invio di truppe a sostegno di Verona. Nei giorni successivi, 19-20-21 aprile, i combattimenti proseguono senza tregua e si fanno sempre più cruenti. Da una parte i soldati francesi che fanno pesare la loro superiorità numerica e la loro maestria nell’uso dell’artiglieria e dall’altra, gli eroici cittadini di Verona, che, pur sfiniti e allo stremo delle forze, combattono con coraggio fino all’ultimo respiro. Per le strade si contano centinaia di morti e feriti. La situazione non è più sostenibile senza aiuti da Venezia. E il 22 aprile gli aiuti arrivano: un anziano generale al comando di 400 fanti, 800 contadini e 8 cannoni da campagna. Una beffa! Venezia ha abbandonato Verona al suo destino.
È la fine, i veronesi non possono resistere oltre. Per le strade della città e dalle case distrutte dagli incendi si sentono solo grida di dolore, lamenti e il pianto angosciante di madri, figlie e spose che hanno perso i loro cari. Verona è in ginocchio. Non resta che arrendersi.
I rappresentanti del Senato Veneto, assieme alle autorità cittadine, sono costretti ad accettare la “resa incondizionata” che prevede:consegna ai francesi di 16 autorità come ostaggi e tra questi il Vescovo Avogadro, confisca di importanti opere d’arte, pagamento di 2.000.000 di lire, requisizione di tutto l’argento delle chieseconsegna delle riserve di cibo e vestiario.
I francesi hanno vinto e rivendicano il diritto di saccheggio. Vengono assaltate e depredate le case dei nobili veronesi, la Biblioteca Capitolare, il Museo Lapidario e il Monte di Pietà.
Dalle chiese vengono prelevate importantissime opere d’arte:
– La Sacra Conversazione, trittico di Andrea Mantegna (San Zeno)
– Martirio di San Giorgio di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)
– San Barnaba di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)
– Deposizione di Cristo di Paolo Veronese (S. Maria Della Vittoria, successivamente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oggi l’opera è conservata nel museo di Castelvecchio)
– Assunzione della Madonna di Tiziano (Cattedrale)
– otto formelle bronzee del monumento funebre Della Torre di Andrea Briosco, detto il Riccio (S. Fermo Maggiore)
Parte di queste opere verranno restituite nel 1816.
Sono rimaste In Francia le predelle del trittico del Mantegna (Louvre e Museo di Tours), il San Barnaba del Veronese (Museo di Rouen) e i bronzi di San Fermo (Louvre). Finito il saccheggio della città, inizia il processo ai presunti responsabili dell’insurrezione cittadina.
Alla barra degli imputati compaiono:
- Conte Francesco degli Emilei di anni 45
- Conte Augusto Verità di anni 45
- Giovanni Battista Malenza di anni 30
- Frate cappuccino Luigi Maria da Verona al secolo Domenico Flangini di anni 72
- Agostino Bianchi, oste Alla Rosa di anni 43
- Stefano Lanzetta, parrucchiere di anni 39
- Pietro Sauro, calzettaio di anni 45
- Andrea Pomari, cavapietre in Avesa di anni 42
Il processo, per lo più sommario, decreta la colpevolezza di tutti gli imputati che vengono condannati a morte mediante fucilazione. La sentenza verrà eseguita nei giorni 16 maggio, 8 e 18 giugno 1797 nel vallo di Porta Nuova.
Il sussulto d’orgoglio dei cittadini veronesi è stato soffocato dal sangue dei martiri.
Una laconica scritta incisa su la lapide posta nella Piazzetta delle Pasque Veronesi, già “Piazzetta delle case abbruciate” ricorda per sempre: “IL NOME DI QUESTA PIAZZA RAMMENTA LA INVASIONE FRANCESE I LIBERI SENSI CITTADINI L’ULTIMO GIORNO DI VENEZIA REPUBBLICA” – APRILE 1797
Dott. Maurizio Bonciarelli