Scuola e teatro – intervista ad Alessandro Anderloni – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Scuola e teatro – intervista ad Alessandro Anderloni – (Newsletter n.8 marzo 2021)

In quest’ultimo anno sono diversi gli ambiti che hanno subito forti limitazioni. Certo la scuola ne sta risentendo, ma anche una forma importante di educazione e formazione: la rappresentazione teatrale.
Ne abbiamo voluto parlare con Alessandro Anderloni, ben conosciuto nel territorio veronese, regista e autore teatrale cui abbiamo voluto porre alcune domande:

 “Scuola e teatro”: due mondi diversi ma le cui strade si intrecciano. Spesso lei ha portato le scuole a teatro e il teatro nelle scuole: quali frutti possono nascere da questo connubio?

Nel marzo del 2020 ho dovuto interrompere, bruscamente e con incredulità, sette laboratori teatrali nelle scuole. Non avrei mai pensato, allora, che a causa del Covid-19 per un anno non avrei più rivisto le aule, le palestre, i cortili dove giocavo al teatro con centinaia di bambini e bambine, adolescenti e giovani. Nel 2020, dopo venticinque anni, per la prima volta, ne mese di maggio non ho portato in scena alcuno spettacolo. Ricordo che in quei giorni mesti ho iniziato a contare i giovani attori e le giovani attrici che ho incontrato nel mio cammino di teatro a scuola: ho superato i 4.500 e poi mi sono fermato. 

C’è una differenza tra il teatro con le scuole e il teatro per le scuole. Le produzioni di teatro per le scuole sono, nel panorama italiano, molte e di buona qualità. Scarseggiano, in vero, spettacoli pensati nello specifico per la fascia d’età dai 16 ai 18 anni. Straripano invece gli spettacoli dedicati alle scuole primarie, spesso con esiti ottimi, altre volte senza grandi risultati artistici. Non ci si improvvisa, come spesso si è portati a pensare, a far teatro per i bambini e gli adolescenti. Non sono una categoria di grado inferiore. Anzi, sono un pubblico esigente, attentissimo, onesto, spietato. E chiunque abbia provato ad andare in scena davanti a un teatro colmo di bambini e ragazzi ne sa qualcosa, e spesso lo ha pagato sulla sua pelle, con grida, risate, perfino rivolte dal pubblico. Dovrebbero imparare dai ragazzi gli adulti, laddove applaudono e lodano spettacoli per piaggeria verso il regista o l’attore o l’attrice di turno, la “diva” della TV, il fenomeno da social network. Ai bambini non ne cale: chiunque tu sia, o sul palcoscenico funzioni o non meriti il tempo e l’attenzione che sono pronti a darti se invece li convinci. Il teatro per le scuole, dove non si riduca a un pacchetto confezionato, è il banco di prova delle storie e di chi le sa raccontare, scava nella professione del teatrante e si confronta con il più esigente dei pubblici, scrive il futuro della fantasia, dell’immaginazione e della coscienza civica degli adulti di domani.

E il teatro con le scuole?

Se assistiamo a un fiorire di compagnie che si propongono con spettacoli per i bambini, spesso con lauti e giustificati (benché spesso squilibrati) finanziamenti pubblici, i professionisti del teatro che scelgano di fare teatro con i bambini, gli adolescenti e i giovani sono pochi. Come sono pochi, sporadici e provvisori i corsi e i laboratori che le scuole, di ogni ordine e grado, riescono a organizzare e a proporre ai loro studenti. E uso la parola “riescono” non senza motivo, ché il teatro a scuola è lasciato in Italia alla buona volontà, al coraggio, alla fantasia, alla capacità manageriale e alla passione di insegnanti, professori (quasi sempre professoresse) e dirigenti.

Per strade le più diverse, inseguendo bandi, industriandosi e lottando per cercare finanziamenti, trovando quasi sempre pochi soldi, le scuole autonomamente organizzano una delle più preziose attività che l’esperienza di studio può offrire. Non è il caso di ricordare qui i benefici personali e di gruppo che il “gioco del teatro” lascia a chi lo abbia praticato a scuola: sono grandissimi, contribuiscono a risolvere situazioni critiche, formano la personalità, accrescono la consapevolezza, abbattono le differenze, ribaltano gli stereotipi, annullano i conflitti. Potrei continuare, potrei citare nomi, fatti, situazioni, dati. Non c’è corso organizzato da compagnie o da teatri, residenza artistica più o meno articolata, attività a iscrizione o a pagamento che scateni liberi l’energia e coinvolga nel profondo quanto lo faccia un laboratorio a scuola. Perché il teatro a scuola è democratico: non ci iscrive, si viene coinvolti e si fa; perché è libero: non si guadagnano giudizi, non si vincono premi, non si cerca la celebrità; perché è naturale: non ci si esibisce e non si scimmiottano gli adulti come colpevolmente, e con danni enormi, assistiamo in raccapriccianti trasmissioni televisive che trasformano i bambini i marionette cantanti o danzanti per compiacere genitori e spettatori spesso colpevolmente inconsapevoli della violenza che stanno compiendo sui loro figli o i figli altrui.

Ma se la scuola è il luogo privilegiato per fare teatro in giovane età, perché allora sono così poche e sporadiche le esperienze di teatro e così pochi i professionisti della scena che vi si dedicano?

Le due circostanze sono l’una concausa con l’altra. Se alcune scuole faticano, senza che nessun progetto o piano di istruzione ministeriale le abbia mai aiutate, a organizzare laboratori di teatro a scuola, altre pigramente o distrattamente nemmeno ci provano. D’altra parte, se drammaturgi, registi, attori e compagnie sono solerti a imbastire spettacoli per le scuole, molto meno si sobbarcano la fatica, il disagio, l’azzardo, il rischio, la tensione di entrare nella gabbia dei leoncini e delle leoncine. Perché il più blasonato regista che varchi la porta della palestra della scuola di periferia dove lo aspettano venti ragazzi di 14 anni che se ne infischiano del suo profilo su Wikipedia o dei Premi Ubu che ha vinto, si troverà a tirar fuori, se ne è capace, non solo il suo “mestiere” di teatrante ma soprattutto la sua sensibilità, la sua capacità empatica, l’umiltà del confronto e la fermezza della disciplina. E non potrà mentire sulle storie.

Molta della sperimentazione, della così detta avanguardia, dei post-realismi, post-modernismi, pre-futurismi e via discorrendo, a scuola non ingannano nessuno. A scuola non ci sono prestigiose platee davanti alle quali pavoneggiarsi, conciliaboli di appassionati ad osannarti, critici pronti con solerzia a incensarti. A scuola c’è da combattere con gli orari, con la disponibilità delle palestre, con la puzza di sudore dell’ora di ginnastica appena terminata, con i volti di tutti i colori e le mille lingue e le mille culture e provenienze e religioni dei giovani attori e attrici.

A scuola c’è da fare tutto con niente, inventarsi costumi, scenografie e trucco senza spendere i soldi che non ci sono, accondiscendere alla mamma iper-apprensiva che teme che il proprio figlio non riesca a fare gli scalini senza farsi male e perdonare padre che si dimentica delle prove generali del figlio, trovare il luogo per lo spettacolo senza che nessuno te lo metta a disposizione a prezzi accessibili, organizzare i piani di sicurezza e ora anche i piani sanitari. Occorre continuare? Ecco perché si fa così poco teatro con le scuole.

A suo modo di vedere, il teatro giova solo ai ragazzi o può essere uno strumento utile anche agli insegnanti o ai giovani che aspirano a diventarlo?

Il teatro porta nelle scuole una preziosa anarchia, una vitalità incontrollabile, un dinamismo temuto e utilissimo, un sovvertimento delle consuetudini, un rovesciamento delle certezze. Un buon progetto di teatro può cambiare una scuola. E se può cambiare un’istituzione così ingessata, burocratizzata e oggi follemente ossessionata dalla sicurezza (forse è per questo che è così osteggiato “là” dove si decide?) non sarà difficile pensare che potrà cambiare non solo i ragazzi ma anche gli insegnanti. Il teatro costringe a giocare, e riattiva nella scuola il suo ruolo di luogo in cui giocando si impara, si cresce, ci si prepara al futuro. È il gioco che cambia le carte in tavola, laddove il gioco è guidato da professionisti che lo conducono con gli strumenti propri del teatro. Dove sono gli insegnanti o i professori, nonostante la loro buona fede e buona volontà, a fare teatro, i risultati saranno sempre sotto le aspettative. E come un regista non dovrebbe fare il professore, così il professore non dovrebbe pretendere di fare il regista, contendendo così la sua passione ed evitando di scaricare sul teatro a scuola le frustrazioni di una carriera nel mondo del teatro sperata, a cui ha dovuto rinunciare per insegnare. Lasciamo fare il teatro a scuola a chi il teatro lo fa di mestiere. 

Ma dal “fare teatro2 gli insegnanti possono apprendere moltissimo. L’espressività della persona, declinata in linguaggio fisico, vocale e spirituale, è il fulcro dell’attività teatrale a scuola e offre a chi insegna un tesoro di conoscenze e tecniche inestimabili. Per un insegnante attento e ricettivo, l’attività teatrale con i suoi studenti, soprattutto quanto sia vissuta non da puro spettatore ma da collaboratore se non da partecipante lui o lei stessa, è un’occasione unica per imparare quello che la scuola o l’esperienza di insegnamento non gli ha mai potuto offrire. Non si tratta di trasformare gli insegnanti in attori dietro la cattedra, ma di attingere dalle tecniche del teatro ciò che, adattato, può essere utilizzato in classe. Si tratta altresì di scoprire come la storia, la letteratura, perfino la matematica si possono insegnare con il teatro. La collaborazione e la fiducia reciproca tra insegnante ed esperto teatrale a scuola sono una miscela dalle possibilità immense, i risultati possibili sono sorprendenti. Nel rispetto dei ruoli, nella disponibilità a collaborare, nascono esperienze indimenticabili, e spettacoli splendidi.

Il 2021, 700° anniversario dalla morte di Dante, sarebbe stata un’ottima occasione per portare i ragazzi a teatro. Tutto è perduto? So che lei non si è dato per vinto e sta proponendo alcune iniziative per celebrare il Sommo Poeta anche in questo difficile periodo. Vuole parlarcene?

Negli ultimi tre anni ho incontrato più di cinquemila studenti e studentesse con Dante. Ho perduto il conto delle conferenze, dei monologhi, dei laboratori nelle scuole, con studenti dai 3 ai 18 anni. Le potenzialità teatrali della Commedia di Dante sono sconfinate. La Commedia, con i suoi novecento personaggi, è teatro, la sua lingua è teatrale, il soggetto, la vicenda, l’intreccio sono una miniera drammaturgica. Dante lo sapeva. Aveva scritto perché la sua Commedia fosse detta e ascoltata, prima ancora che letta. Chi ha provato a raccontarla o a portarla in scena con i più giovani sa quanto sia forte la capacità empatica e di coinvolgimento di questo testo, come scavi in profondo anche nei bambini e nei giovani, se si trovano le chiavi di lettura per toglierlo da pregiudizi scolastici o peggio da gelosie accademiche. Non si può dire che l’Italia, Verona in particolare, abbiano approfittato dell’anniversario dantesco per portare Dante nelle scuole. Attenzione: non Dante per le scuole ma con le scuole. Vedo molti vanitosi in giro, profluvi di letture dantesche con il malcelato desiderio di mettersi in mostra o di dimostrare le proprie abilità recitative o avvalorare la propria conoscenza che quasi sempre si ferma all’Inferno, quando invece ai bambini piace soprattutto il Paradiso con la sua architettura di luce e suono, di speranza e felicità.

Nonostante la quasi immobilità delle istituzioni pubbliche, il silenzio dei comitati ufficiali, l’assenza totale di risorse, a Verona siamo riusciti a portare Dante nelle scuole, e in presenza, stante la drammatica situazione sanitaria. Migliaia di studenti e studentesse, come ho detto, si sono confrontati con la Commedia. Cento bambini e bambine della scuola primaria Rubele da un anno hanno pronto uno spettacolo di teatro e musica su Dante a Verona. Questa pandemia ci permetterà mai di portarlo in scena? Ci ha aiutato, e ne siamo riconoscenti, la Cantina Valpantena producendo per l’occasione la bottiglia “Dante a Verona”. Otto scuole dei quartieri di Veronetta e Porto lavorano con me e con Mirco Cittadini sul progetto “Verona, città del Paradiso” che trecento bambini e bambine racconteranno con un video che sarà presentato a primavera. E il progetto ha il sostegno generoso e lungimirante dell’Assessorato all’Istruzione del Comune di Verona. Io ho detto e dico Dante in decine di istituti superiori di primo e di secondo grado, in provincia e in città. Ma forse è nel Carcere di Montorio, con i detenuti del gruppo teatrale che da sei anno conduco con Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni, dove le Dante risuona più forte. È là che le parole di Virgilio a Catone «libertà va cercando» ci interrogano e ci scaraventano davanti a noi stessi. Dante è molto più in carcere che nelle aule delle accademie.

E se Verona non ha il coraggio, nel 2021, di chiamare la sua piazza come tutti i veronesi e le veronesi già la chiamano, “Piazza Dante”, Poteva almeno risparmiarci di chiudere per quattro mesi Dante in una scatola proprio nell’anno dell’anniversario. Il benemerito restauro della statua di Ugo Zannoni non si doveva forse fare prima e inaugurare la statua restaurata all’aprirsi dell’anno delle celebrazioni? Lo capisce anche un bambino. Ecco, sogno un “Comitato Dante 2021” di bambini e bambine.

Per tutto il 2021 cammineremo con Dante. Centinaia saranno gli eventi del progetto “Dante Settecento”. Seguiteli sulla pagina Facebook: Dante Settecento. Camminate con noi.

Miriam Dal Bosco

Il rinoceronte – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Il rinoceronte – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Eugène Ionesco- Parigi 1959

Berenger ne sa qualcosa, di pandemie.

In un non luogo e un non tempo quest’uomo dall’aria trascurata, incapace di adattarsi alla vita, si ritrova solo a fronteggiare il dilagare di una mostruosa pandemia: la rinocerontite.

Che sarà mai questa strana malattia, che in modo contagioso trasforma una a una tutte le persone in rinoceronti?

All’inizio ci si fa poco caso al rinoceronte che galoppa sulla scena, sfiorando vetrine, alzando un polverone, schiacciando un gattino sotto le sue zampe. Se ne parla nei pettegolezzi da bar, del rinoceronte avvistato, e di quell’altro poi, che galoppava in senso opposto -che sia lo stesso?-.   Si disquisisce su questioni marginali, quanti corni abbia, se sia africano o asiatico, lasciandosi trascinare in discussioni inconcludenti e rivendicazioni personali.

C’è anche chi nega che esistano. Chi pensa che la cosa non lo riguardi. Chi si arrabbia con le istituzioni e rivendica giustizia. Chi pensa al complotto e chi si spaventa. Chi non se ne cura, perché bisogna continuare a fare il proprio dovere. Chi piange sui danni personali che il rinoceronte gli procura. Chi scappa tenendo ben stretto ciò che gli sta più a cuore.

Ad ogni pandemia pare che corrispondano le stesse reazioni!

Eppure in questo caso la malattia ha risvolti diversi dai nostri: più diventa contagiosa, più diventa affascinante. Il rinoceronte appare libero, un po’ alla volta il suo verso rauco si fa canto attraente, il suo galoppare travolgente diventa danza, il colorito verde e la pelle rugosa risultano proprio belli. I rinoceronti sono diventati la normalità e chiunque è diverso si sente un mostro, si vede brutto, si fa schifo e prova vergogna di se stesso.

“Il rinoceronte” nasce dall’esperienza che Ionesco ha avuto del Nazismo, ma nella sua assenza di connotazioni spazio-temporali parla a ciascuno di noi. Quante tendenze, quante nuove ideologie galoppano sulla scena dei nostri giorni portando con sé nuovi modi di intendere la libertà. Possiamo davvero ritenerci immuni da queste mode che sovvertono ogni categoria etica e ci inducono a credere che “Il bello è brutto, il brutto è bello”, come recitano le streghe del Macbeth?

Berenger vive il dramma profondo di chi vuole restare uomo, di chi non si arrende e vuole conservare la propria originalità in un mondo dove la normalità è il conformismo dettato dalla maggioranza.  

Anche a noi, come a ciascun personaggio del dramma, si ripropone la scelta: lottare per restare uomini o arrenderci e diventare rinoceronti.

Silvia Spillari

DANTE POETA FILOSOFO

DANTE POETA FILOSOFO

Giovedì 11 marzo, si è tenuto l’incontro – DANTE POETA FILOSOFO – il Prof. Alberto Torresani storico e saggista che ha approfondito la figura del “sommo” poeta

Di seguito riportiamo la registrazione dell’incontro


Non ci resta che vincere – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Non ci resta che vincere – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Paese: Spagna (2018)  – Durata: 124 minuti – Regia: Javier Fesser

Lo sport, il basket in particolare, fa da sfondo a una storia così piacevole e diretta, lo sport visto come qualcosa che unisce, che diverte, che fa bene alla salute fisica e mentale, che crea grandi amicizie.

Non ci resta che vincere, il film affronta il tema del deficit mentale con realismo e rispetto, una commedia interessante che propone una visione della disabilità mentale, affrontando il tema con massimo rispetto e grande umanità.

Marco Montes, allenatore di basket arrogante e litigioso, che a causa del suo temperamento irrascibile finisce per essere licenziato, arrestato e costretto ad allenare i Los Amigos, improvvisata squadra di pallacanestro formata da persone con deficit intellettivi.

Il film tratta la tematica della disabilità rapportata allo sport; evidenziando le peculiari caratteristiche dei vari personaggi: chi cade in attimi catatonici, chi non si lava per paura dell’acqua, chi conosce a memoria gli orari di tutti i voli; porta lo spettatore a riflettere che proprio le loro imperfezioni e le loro meravigliose stramberie li rendono unici e irripetibili e che la loro forza sta nell’essere una squadra nonostante tutto e tutti.

Mentre Marco Montes cerca il modo giusto di allenare la squadra dei Los Amigos, riceve da loro una lezione di vita; fa di tutto per mettere “ordine”, preoccupato di dare regole e schemi di gioco, ma la squadra di amici, con semplicità, gli mostra che per affrontare un gioco come il basket, fatto di canestri, punti, regole e tempi da rispettare, la “normalità” non è assolutamente necessaria e dove manca la tecnica di gioco, supplisce lo spirito di squadra. 

Tutto il film è pervaso da un clima gioioso e scanzonato, la comicità che viene fuori dalle scene degli allenamenti è davvero irresistibile, non solo per le strampalate dinamiche che si innescano tra i diversi protagonisti, ma soprattutto, per l’innato talento comico degli attori disabili, che il regista ha preferito lasciare liberi di improvvisare, offrendo così momenti di spontanea bizzarria. 

Non mancano però circostanze in cui l’emozione prende il sopravvento, come quando Marco finalmente abbraccia l’idrofobico Juanma convincendolo a fare la doccia, o la suggestiva partita finale, che può essere definita una delle scene più cariche di pathos e adrenalina di tutto il film.

Ciò che muove i componenti di questo gruppo è la pura e ingenua voglia di giocare, di divertirsi insieme come una vera squadra, non solo sul campo ma soprattutto nella vita, lasciando da parte il concetto di vittoria e sconfitta, travolgendo lo scettico e ombroso Marco, e il pubblico in un exploit di gioia di vivere, ricordando allo spettatore che godere dei momenti felici insieme a coloro cui vogliamo bene è più importante di qualsiasi trofeo.

Francesca Guglielmi

Mettersi in gioco – Pensieri sullo sport  – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Mettersi in gioco – Pensieri sullo sport – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Papa Francesco – Libreria Editrice Vaticana – 2020

In occasione dell’anno olimpico, Lucio Coco ha raccolto alcuni pensieri di Papa Francesco sul tema dello sport. Per il Pontefice esso è infatti espressione di valori positivi ed universali, che possono avere come fine ultimo anche quello dell’espressione della fede.

Questo libro, edito nel 2020 in occasione dell’anno olimpico (spostato poi al 2021 a causa dell’emergenza sanitaria), vede raccolte 92 citazioni di Papa Francesco sul tema dello sport, argomento molto caro al Pontefice, soprattutto per i forti contenuti valoriali insiti nello sport stesso; spesso infatti, parlando alle Società Sportive, alle squadre, alle delegazioni, agli atleti e ai comitati, ma anche ai fedeli in Piazza San Pietro, il Papa non dimentica di sottolineare la grande forza che c’è dietro allo sport, ma al tempo stesso la sua responsabilità educativa, in quanto sinonimo di inclusione, di sacrificio, di rispetto.

Da queste “pillole” si evince come lo sport abbia una fortissima funzione pedagogica: valori come la lealtà, il senso di giustizia, il gusto per la bellezza, la capacità di sacrificio, la costanza e molti altri sono indispensabili per formare persone a tutto tondo, che uniscano l’edificazione dell’anima al miglioramento sia della tecnica che del loro corpo.


Un aspetto che non può prescindere da qualsiasi attività sportiva e che aiuta nella crescita personale è sicuramente il rispetto delle regole: senza di esse non ci può essere gioco, divertimento e, come nella vita, esse non devono essere viste come ostacoli, ma come limiti entro i quali perseguire la felicità, imparando ad esserne padroni e non schiavi. Pensate a cosa sarebbe un gioco senza regole: “non ci sarebbe più competizione, ma solo prestazioni individuali e disordinate; al contrario, lo sportivo impara che le regole sono essenziali per vivere insieme, che la felicità non la si trova nella sregolatezza, ma nel perseguire con fedeltà i propri obiettivi” (da un discorso ai membri del CSI, 11.05.2019). Per questo lo sport aiuta a maturare l’importanza delle regole scritte, ma anche di quelle “morali”, come il fair play, il rispetto dell’altro, il dominio di sé e insegna che non ha valore una vittoria conseguita barando o ingannando gli altri, come nel triste caso del doping.

Fa parte del clima olimpico anche l’incontro tra popoli di diverse razze, culture, credo religioso. I cerchi olimpici stessi esprimono questo intreccio, volto all’accoglienza, alla volontà di dialogo, alla fiducia nell’altro.
In un mondo egoista ed individualista, questi ed altri valori, come lo spirito di squadra, ci portano a far parte di una sola famiglia umana, dove non vince colui a cui piace “comerse la pelota (trattenere la palla) solo per sé” (da un discorso ai dirigenti e ai calciatori del Villareal, 23.02.2017), ma chi corre a sostegno degli altri, dove anche la disabilità diventa un valore aggiunto; secondo il Papa, infatti, la realtà degli Special Olympics “alimenta la speranza di un futuro positivo e fecondo dello sport, perché fa sì che esso diventi una vera occasione di inclusione e di coinvolgimento” (agli atleti Special Olympics, 13.10.2017).


Come visto nelle citazioni riportate sopra, il Pontefice parla non solo agli atleti, ma mette in gioco anche dirigenti, allenatori, operatori sportivi e tutte le figure che ruotano attorno allo sport; benché spesso non siano sotto i riflettori, anche loro sono chiamati ad essere in prima linea nella trasmissione di messaggi positivi e a garantire che lo sport che promuovono sia limpido e leale.

L’ultimo capitolo di questo volumetto è dedicata a “Sport e Fede”, uniti nel portare avanti i valori comuni di cui abbiamo parlato, come lealtà, condivisione, accoglienza, fiducia: essi appartengono ad entrambe le realtà e permettono di creare un ponte di dialogo tra la Chiesa stessa, i fedeli, ma anche verso chi si è sentito lontano o escluso.
Lo sport è poi espressione di gioia, promuove virtù come umiltà, pazienza, sobrietà, che vanno di pari passo con la riconoscenza verso il Creatore e la testimonianza del Vangelo, insegna il sacrificio, la costanza per raggiungere un obiettivo. Quante Società Sportive hanno avuto le loro origini in un Oratorio? Quante volte i grandi Santi hanno sfruttato proprio la voglia di condivisione, di felicità, di spirito di squadra, per avvicinare ragazzi lontani ai valori della Fede? Ecco, quindi, che Chiesa e sport sono unite da un doppio filo, poiché entrambi concorrono alla crescita umana e si fanno strumento reciproco per trasmettere i propri valori.
“La Chiesa si interessa di sport perchè le sta a cuore l’uomo, tutto l’uomo, e riconosce che l’attività sportiva incide sulla formazione della persona, sulle relazioni, sulla spiritualità” (alla Federazione Italiana Tennis, 08.05.2015).

Infine, ai giovani lancia questo messaggio, che ritengo di dover riportare.
“È importante, cari ragazzi, che lo sport rimanga un gioco! Solo se rimane un gioco fa bene al corpo e allo spirito. E proprio perché siete sportivi, vi invito a fare qualcosa di più: a mettervi in gioco nella vita come nello sport. Mettervi in gioco nella ricerca del bene, nella Chiesa e nella società, senza paura, con coraggio ed entusiasmo. Mettervi in gioco con gli altri e con Dio; non accontentarsi di un “pareggio” mediocre, dare il meglio di se stessi, spendendo la vita per ciò che davvero vale e che dura per sempre. Non accontentarsi di queste vite tiepide, vite “mediocremente pareggiate”: no, no! Andare avanti, cercando la vittoria sempre!” (ai partecipanti all’incontro promosso dal CSI, 07.06.2014).

Elena Dal Pan