La scienza può dare la felicità?   – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

La scienza può dare la felicità? – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Intervista alla prof.ssa Marisa Levi , che sabato 28 novembre 2020, ha tenuto il laboratorio di scienze all’interno del corso “Aiutami a essere felice. Quella luce nei loro occhi”.

Nel convegno tenutosi lo scorso novembre dal titolo “Aiutami ad essere felice. Quella luce nei loro occhi”, grande interesse ha suscitato l’incontro con la prof.ssa Marisa Levi che, da biologa e ricercatrice, ha affrontato il tema “La scienza può dare la felicità?”.

Professoressa, può darci in sintesi una risposta al quesito che ha fatto da titolo al suo intervento?

La mia risposta alla domanda se la scienza può dare felicità è convintamente positiva. Io penso soprattutto a tre aspetti: la realizzazione personale, il contributo al bene comune e, soprattutto, la contemplazione, la capacità di cogliere la bellezza della natura; la conoscenza scientifica permette di cogliere non solo la bellezza “esterna”, ma quella delle strutture, del funzionamento, del coordinamento, delle relazioni, la diversità degli organismi, la grandiosità dell’insieme ecc. La conoscenza alimenta lo stupore e quindi genera gratitudine e gioia. Nel primo incontro si diceva che la felicità è legata all’abbondanza: quanta abbondanza c’è nella natura!

Nel suo discorso ha parlato di scienza come realizzazione personale. Potrebbe approfondire questo aspetto?

Ogni lavoro è occasione di mettere in gioco e sviluppare le proprie capacità. In particolare, la ricerca scientifica può aiutare a crescere nella collaborazione, nel senso di responsabilità, nella creatività, nell’ordine, nel rigore… Mi ricordo di una studentessa di biologia che quando era entrata in laboratorio era anche umanamente molto superficiale, prendeva tutto alla leggera; è stata due anni in laboratorio per la tesi e durante questo periodo è maturata moltissimo. Un altro aspetto di realizzazione personale è la felicità di studiare qualcosa che interessa, scoprire qualcosa di nuovo, contribuire a risolvere un problema, o anche appassionarsi a qualcosa di nuovo, che prima non si conosceva.

Uno dei punti più intensi della sua esposizione è stato quando ha parlato della sua personale scoperta della relazione non come accidente ma come sostanza; questo aspetto ha incoraggiato l’intervento da parte di molti docenti, anche di discipline diverse da quelle prettamente scientifiche. Vuole riprendere per noi il concetto?

Noi abbiamo studiato una suddivisione della realtà in sostanza e accidenti, secondo cui la sostanza è ciò che permane e gli accidenti possono cambiare senza che cambi la sostanza. E la relazione era considerato un accidente. Io per un po’ ci ho creduto. Ma quando ho cominciato a riflettere sull’inizio della vita di un essere umano, questa storia della relazione come accidente non mi quadrava più, perché nel concepimento si stabiliscono delle caratteristiche sostanziali di quell’essere umano, e quindi secondo me, almeno la relazione di filiazione, non poteva essere un accidente. C’è poi anche un aspetto personale, perché mio padre è riuscito a sfuggire alla persecuzione degli ebrei rifugiandosi in Svizzera, e quando io sono stata ad Auschwitz continuavo a pensare: se mio padre fosse finito qui, io non esisterei. E questo mi convinceva ancor di più che la relazione di filiazione non potesse essere un accidente. Poi ho trovato in “Introduzione al cristianesimo” di Ratzinger questa affermazione: “La Trinità scardina l’antica suddivisione della realtà in sostanza, ciò che è proprio,  e accidenti, ciò che è casuale.  Accanto alla sostanza si trova il dialogo, la relatio, come forma ugualmente originaria dell’essere. Nella Trinità la relazione viene scoperta come modalità originaria del reale di pari dignità della sostanza”. E questo, oltre a confermarmi nel mio pensiero, mi ha dato una grande gioia, la gioia del ricercatore credente quando scocca il contatto fra quanto emerge dal suo studio scientifico e quanto apprende dalla rivelazione, dal magistero e dalla teologia.

Infine, non posso esimermi dal chiederle un suo personale commento alla situazione attuale: oggi molti chiedono alla scienza di liberarci non solo dal virus ma dalla paura di soffrire e di morire; pretendono che scienziati, virologi, medici, ricercatori diano risposte chiare, univoche, sicure e immediate al desiderio di salvezza dell’uomo. Da parte loro, invece, gli “esperti” rispondono con certezze che diventano il giorno dopo incertezze, soluzioni parziali che non soddisfano e fanno nascere una certa diffidenza anche negli Organismi Internazionali che fino a qualche mese fa godevano di una grande autorevolezza (OMS, per fare un esempio su tutti). Secondo lei dove sta l’errore in tutto questo?

Mi pare che l’errore fondamentale sia quello di una visione parziale e riduttiva della realtà: per esempio la pretesa che la scienza sia l’unica fonte di conoscenza e possa dare una risposta a tutto. Abbiamo visto, invece, quanto nelle situazioni di difficoltà siano importanti le relazioni umane, lo spirito di servizio, il senso di responsabilità, l’aspetto spirituale, l’attenzione al bene di tutti, perché il problema della pandemia non è soltanto medico, ma anche sociale. 

A questo si aggiungono poi i limiti umani, per cui molti “esperti” si sono lasciati travolgere dal circuito mediatico, facendo affermazioni perentorie su cose incerte, discutendo e contraddicendosi (fra loro e anche con se stessi) in pubblico, invece di chiarirsi prima le idee fra di loro.

Miriam Dal Bosco

Per una Letteratura della gioia    – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Per una Letteratura della gioia – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

In un suo saggio sul grande scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, l’autore di capolavori come L’Isola del Tesoro o La strana storia del Dottor Jeckyll e Mister Hyde, Gilbert Keith Chesterton scriveva che nello scenario culturale contemporaneo (si era agli albori del ‘900) si sentiva la mancanza di una Letteratura della gioia.

Ovvero una letteratura che trasmettesse non solo le angosce esistenziali dell’uomo moderno, le sue domande a volte disperate di significato, ma anche le risposte, ovvero quella positività che è dentro l’esperienza umana che può aiutare ad essere felici. Una letteratura che esprima gioia, a costo di rischiare di sembrare infantile, dato che la gioia è da molti vista come un sentimento puerile. 

In realtà la gioia semplice, piena di stupore come quella di un bambino, è la condizione necessaria per vivere bene il tempo che ci è dato. E qualcuno, 2000 anni fa, aggiungeva che se non si ritorna come bambini, ossia allo sguardo curioso e gioioso dei bambini, non si entra nel Regno dei Cieli. 

Nel corso del Novecento è stato possibile assistere a diverse espressioni di questa Letteratura della gioia, che hanno utilizzato il linguaggio antico ma sempre vivo ed affascinante del Mito e dell’Epica. Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini, chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e vitale nella fantasia e nei sogni. Scrittori come lo stesso Chesterton, Tolkien, Lewis, Saint-Exupery, Ende, hanno proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie, leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici, strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. 

Una narrativa che non è una pura evasione dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro destino.

Nel marzo del 1939 Tolkien, l’autore del capolavoro Il Signore degli Anelli, tenne una conferenza sul tema delle storie fantastiche all’università di St. Andrews, in Scozia. Il testo di questa straordinaria conversazione divenne poi un saggio, On Fairy Stories ( tradotto in italiano col titolo Sulle fiabe,pubblicato nel volume Albero e foglia). In esso egli rivendica questo ruolo della fantasia sub-creatrice come diritto umano: creiamo alla nostra misura e in modo derivativo in quanto siamo stati a nostra volta creati, e per di più ad immagine e somiglianza del Creatore. La fantasia è un mezzo di recupero della freschezza della visione della realtà, come rimedio all’ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidiano. La fantasia – e quindi il racconto fantastico – ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro, evasione, consolazione. 

Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamento della salute, consiste per il Professore di Oxford nel ritrovare una visione chiara della realtà, nel “vedere le cose come siamo destinati a vederle”. Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare il mestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi, preferendo la via chestertoniana dell’immaginario, del paradosso, dell’immagine velata, allo scopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vita ordinaria, mascherano il volto della verità. 

Diventa così possibile quella letteratura di cui Chesterton avvertiva la mancanza nel panorama letterario. Una letteratura guaritrice, ristoratrice.

Una letteratura spesso incompresa, o sottovalutata, considerata “di Serie B”, semplice se non semplicistica. In realtà non è affatto così. E’ in realtà una narrativa che può offrire spunti di riflessione, che può trasmettere valori profondi. 

Diceva Chesterton a proposito della finalità dei racconti, e lo stesso Tolkien lo riprende nei suoi scritti, che i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre la maggior parte di noi è malvagia e naturalmente preferisce il perdono. Per questo i primi – e con loro tutti coloro che hanno un cuore puro da bambino – amano che le storie si concludano con un “lieto fine”.

A tale proposito, Tolkien introduce il concetto di “eucatastrofe”: il racconto eucatastrofico, contenente cioè un giudizio morale sugli avvenimenti e una conclusione appropriata, è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione. Quando in un racconto fantastico abbiamo a trovare un “capovolgimento”, un’interruzione del corso negativo degli eventi, un ribaltamento dell’inesorabile, opprimente realtà, abbiamo anche una stupefacente visione della gioia, dell’aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. “Gioia acuta come un dolore” dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, poiché smentisce l’universale sconfitta finale, a dispetto delle molte apparenze contrarie evidenti nel tempo presente.

Una letteratura tutta ancora da valorizzare.

Paolo Gulisano

CHE COS’E’ LA FELICITA’? Cervello, mente, anima

CHE COS’E’ LA FELICITA’? Cervello, mente, anima

Venerdì 22 gennaio è ripartita l’attività del Centro Studi, abbiamo inaugurato il 2021 ospitando il Prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, per approfondire il tema della FELICITA’

  • Cosa genera il senso di felicità nell’uomo? Cosa invece lo deprime?
  • Cosa succede a livello di impulso nervoso quando ci sentiamo felici?
  • Perché possiamo essere sazi, appagati, riposati ma non siamo mai completamente felici?
  • Perché non esiste la sostanza / formula della felicità?

L’incontro ha riscosso molto interesse

condividiamo la registrazione dell’incontro

https://youtu.be/b0RS-qxnGVQ


Auguri per un Sereno Natale!

È NATALE

È Natale – Madre Teresa di Calcutta
È Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.
È Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.
È Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri.

Madre Teresa di Calcutta

Schleicher e il “neutralismo” educativo: la realtà è meglio – (Newsletter n.5 dicembre 2020)

Schleicher e il “neutralismo” educativo: la realtà è meglio – (Newsletter n.5 dicembre 2020)

di Giorgio Chiosso (fonte: Il Sussidiario.net – 30.11.20)

Commentando un libro di Andreas Schleicher, direttore del dipartimento Educazione dell’OCSE e ideatore di celebri sistemi di valutazione internazionale, l’autore dell’articolo mette in guardia dai limiti dell’approccio funzionalistico socio-economico in campo educativo. Si rischia, infatti, di scambiare per neutrale, una prospettiva pedagogica di matrice illuministica che trascura l’importanza delle risorse non cognitive dello studente e dei valori immateriali nell’ambiente scolastico, la cui centralità emerge con tutta evidenza in questo periodo di pandemia.

Le difficoltà connesse con la pandemia in corso hanno impetuosamente rilanciato i temi della scuola e della sua rilevanza nella vita sociale e nelle biografie giovanili oggi costrette a lezioni dimezzate. Si è aperto anche il dibattito su come potrebbe essere la scuola del dopo Covid in seguito alla disponibilità delle risorse straordinarie messe a disposizione dell’Italia per la sua ripresa economica.

In questo scenario in movimento giunge come stimolo a una riflessione approfondita la traduzione del volume di Andreas Schleicher apparso nel 2018 e intitolato Una scuola di prima classe? Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo, ora disponibile anche in italiano (il Mulino) per il lungimirante intervento della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo di Torino.

Si tratta di un contributo importante e ricco di dati, perché pochi al mondo come l’autore dispongono di una visione globale dell’istruzione scolastica. Scritto con la passione di chi crede nel proprio lavoro, è quasi l’autobiografia culturale di una delle personalità che più hanno contribuito negli ultimi decenni a creare un nuovo modo di accostare i problemi dell’educazione e della formazione scolastica nel mondo occidentale e cioè a partire dagli effettivi risultati dell’apprendimento valutati attraverso procedure rigorose e non solo mediante il pur indispensabile confronto politico tra tesi spesso contrastanti.

Andreas Schleicher è infatti il direttore per l’Educazione presso l’Ocse, fondatore e direttore del Programma per la valutazione internazionale dello studente (il ben noto progetto Pisa), promotore di altri strumenti di analisi che hanno messo a disposizione dei decisori politici, dei ricercatori e di quanti operano nelle scuole una piattaforma con aspirazioni globali per innovare e trasformare le politiche e le pratiche scolastiche.

Il libro merita due sottolineature. La prima è rappresentata dal convinto sostegno alla causa dell’istruzione scolastica come fattore di progresso contro quanti ne denunciano la debolezza – e forse nel tempo il fatale crepuscolo – a fronte delle risorse messe a disposizione dal web e da altre modalità di formazione come ad esempio quelle gestite direttamente dal mondo produttivo. Il richiamo all’importanza della scuola risuona fondamentale specialmente in questo momento in cui la vita nelle aule scorre travagliata, intermittente, precaria con possibili gravi conseguenze sul futuro dei giovani.

Il secondo motivo di interesse è la constatazione che per cambiare e migliorare non basta elaborare mirabolanti strategie sulla carta se non si è in grado di tradurle in pratica con una programmazione basata sui dati, sulle risorse disponibili, sul sostegno sociale, su insegnanti appassionati. Un invito a una sana immersione nella realtà, tutto il resto è chiacchiera, propaganda, accademia (molto i nostri politici dovrebbero in tal senso apprendere).

La lettura del saggio è inoltre utile per cogliere la traiettoria del funzionalismo socio-economico che è alla base delle tesi dello studioso franco-tedesco molto più sofisticato e “umanizzato” rispetto alle tesi di 30-40 anni fa. L’aspirazione, neppur troppo sotterranea, resta comunque quella di dar vita a una sorta di pedagogia scolastica globale a impostazione tecnocratica in funzione dello sviluppo e del benessere. Un limite d’impronta illuministica, perché è difficile, se non proprio impossibile, dissociare l’educazione dalla sua storia, dalle tradizioni e consuetudini locali, in una parola dalla realtà delle persone. Non è che nel libro le persone non contino, ma sono come sempre disposte sullo sfondo, in primo piano spiccano i dati empirici, i confronti statistici, l’analisi delle esigenze sociali, economiche, produttive.

Il libro suggerisce anche qualche riflessione o interrogativo più critico. Troppo severo e poco storicamente fondato appare il giudizio radicalmente negativo di Schleicher sulla scuola del passato, alla quale andrebbe almeno riconosciuto il merito di aver sconfitto l’analfabetismo e di aver sostenuto i progressi delle società novecentesche. Mai nella storia umana c’è stata un’esplosione scolastica come quella del secolo scorso. Non c’è dubbio che la scuola sia stata il veicolo di ideologie spesso contrapposte (alcune anche drammaticamente totalitarie) volte a conquistare adepti fedeli, ma non si può dire che il neutralismo educativo di Schleicher sia, a sua volta, esente dal rischio di diventare ideologico, naturalmente espressione di un’ideologia non più politica, ma in questo caso segnata dall’efficientismo tecnocratico.

Nelle pagine del libro è inoltre sfumata l’attenzione verso quegli aspetti immateriali della vita scolastica che fatalmente sfuggono al censimento statistico, ma dai quali dipende la buona qualità dell’educazione. Essa non è più regolata, come in passato, da “tavole di valori”, ma è l’esito della capacità di valorizzare, accanto a quelle cognitive, le risorse non cognitive dalle quali, come dimostrano numerosi studi, tanta parte hanno non solo sul piano del successo scolastico, ma anche a livello di realizzazione umana.

Arrivati al termine del libro – scritto prima dello scatenarsi del virus – c’è da chiedersi se di fronte alla realtà che stiamo vivendo e destinata a incidere sul nostro futuro (per lo meno togliendoci molte delle nostre precedenti certezze e sicurezze) siano sufficienti le strategie funzionaliste coltivate dal direttore del programma Pisa volte giustamente a rendere più eque le opportunità formative, a potenziare la capacità degli studenti di orientarsi in un mondo sempre più bombardato dalle informazioni e a migliorare la realtà del fare e del produrre.

La mia opinione è che di fronte alla drammatica esperienza della paurosa pandemia che sta flagellando il mondo c’è bisogno di qualcosa di più e cioè di riscoprirci uniti di fronte alla precarietà della vita, solidali di fronte al dolore, partecipi dei sacrifici necessari per ridurre al limite i rischi del contagio. Attraverso il difficile momento vissuto dalla scuola ne stiamo riscoprendo l’importanza e riconosciamo il peso del valore umano delle relazioni che si stabiliscono nelle aule, apprezzando il senso di solidarietà che si stabilisce vivendo insieme perché l’incertezza e le difficoltà si superano meglio se si affrontano non da soli.

Mi sembrano segnali importanti per pensare “un’altra scuola” davvero partecipata, libera da lacci e lacciuoli centralisti, nella quale gli apprendimenti siano importanti quanto la necessità di costruire insieme una comunità solidale.

Giorgio Chiosso