Lug 21, 2020 | Insegnanti
Martin Buber, Armando Editore
Il tempo vola… I ragazzi cambiano! Gli scenari si trasformano! Gli strumenti evolvono! Problemi inediti incalzano! Le normative si rinnovano!
Gli insegnanti hanno urgenza di aggiornarsi… Presto! Un saggio nuovo, un nuovo webinar! Accorra qui un esperto, uno specialista!
Ma anche no.
Un libriccino vecchio, di carta.
Un filosofo, che non si è mai occupato sistematicamente di educazione.
Tre conferenze occasionali, una del 1925, una del 1935, una del 1939.
E il lettore, che galleggiava alla superficie del suo mestiere, guardandosi intorno alla ricerca di aggiornamenti, viene improvvisamente e impietosamente strattonato giù, nelle profondità del compito di insegnare. A contatto con le ragioni perenni e profonde della relazione educativa. Con l’incredibile sensazione che lì, proprio lì, i polmoni finalmente si riempiano d’ossigeno.
Perché va bene aggiornarsi, ogni tanto, ma quello di cui non possiamo proprio fare a meno è tornare a insemprarci, tornare a immergerci nell’essenziale, nel cuore della bellezza che vale sempre.
Il grande Buber ci catapulta in questa dimensione; con una lucidità e una densità espressiva che rendono queste pagine potenti anche all’ennesima rilettura.
«Un giovane insegnante entra per la prima volta in una classe avendone piena responsabilità, non più come tirocinante che verifica le sue competenze. La classe si trova di fronte a lui, a immagine del mondo umano, così diversificato e pieno di contraddizioni, così inaccessibile. Egli si rende conto: “Questi ragazzi non li ho scelti, sono stato messo qui e li devo accettare per come sono, eppure non come sono adesso, in questo momento, no, come sono veramente, come potrebbero diventare. Ma come faccio a rendermi conto di ciò che si nasconde in loro, e cosa posso fare per far sì che ciò prenda forma?” E i giovani non gli rendono facile il compito, fanno rumore e fanno sciocchezze, lo fissano con arroganza e curiosità. Ed egli è presto tentato di fermare colui che disturba, di imporre massime di correttezza, di obbligare a rispettare abitudini adeguate, dire di no, no a tutto ciò che dal basso si pone contro di lui – è tentato dunque di partire dal basso.»
La citazione non prosegue, per evitare spoiler inopportuni, e lascia il posto alla segnalazione
Alessandro Giuliani
Lug 21, 2020 | Senza categoria
Paese: Francia – Durata: 104 minuti – Regia: Nicolas Philibert
La cinepresa del regista Nicolas Philibert filma le vicende di una scuola rurale francese in tutta la loro naturalezza e genuinità, senza alcun artificio.
Si tratta, infatti, di un film documentario che permette allo spettatore di seguire, passo dopo passo, le vicissitudini di un maestro sulla soglia della pensione, Georges Lopez, impegnato ad accompagnare una pluriclasse composta da bambini e adolescenti. Un contesto particolare come questo richiede all’insegnante un approccio altamente personalizzato, lavorando sul riconoscimento delle differenze e dei talenti di ciascuno. Spesso lo si vede abbassarsi all’altezza dei suoi allievi, proponendosi non come un’autorità che parla sempre dall’alto, ma come una presenza che sa porsi al livello dei suoi studenti per supportarli nella loro crescita.
Il film si apre con l’immagine di una gelida bufera di neve, posta subito in contrapposizione con quella di un’aula scolastica dal clima caldo e accogliente. Questa scena iniziale può essere facilmente letta attraverso una lente metaforica: il mondo in cui il bambino è immerso e sul quale è chiamato ad operare, in maniera unica e speciale, è indiscutibilmente complesso; la scuola, dunque, si presenta come quel luogo sicuro che prepara ad affrontare la vita nel migliore dei modi, fornendo tutti gli strumenti culturali e formativi necessari.
Un’altra immagine, anch’essa significativa per la sua valenza simbolica, è quella di due tartarughe che si spostano con la loro naturale lentezza all’interno di un’aula scolastica, per poi giungere ai piedi di un mappamondo, che osservano con interesse e curiosità; anche questa immagine si presta ad una serie di riflessioni: così come le tartarughe impiegano diverso tempo per arrivare di fronte al globo terrestre, allo stesso modo il percorso che i bambini devono affrontare per conoscere la realtà è indubbiamente lungo e non privo di difficoltà; conseguentemente, gli insegnanti, in quanto educatori, sono sì chiamati a guidare i propri studenti alla comprensione della realtà e alla scoperta delle verità ultime dell’esistenza umana, ma non senza rispettare i loro tempi e salvaguardare la loro libertà interiore, evitando forzature e precocità. Inoltre, la scuola ha il compito di creare le condizioni affinché gli studenti possano sperimentare lo stupore di fronte al mondo che li circonda in maniera naturale e spontanea, perché è proprio dallo stupore che scaturiscono le cosiddette “domande fondamentali”, necessarie per crescere e maturare. In particolare, in una società come la nostra, fortemente radicata sul relativismo, o su un generalizzato scetticismo, educare i giovani ad uno sguardo che sia realista, coerente, sincero e aderente alla realtà risulta essere di capitale importanza.
Un’altra scena interessante è quella in cui il maestro Lopez invita un bambino ad elencare a voce alta la progressione dei numeri. In questo modo l’allievo scopre praticamente da solo i numeri nel loro susseguirsi; solo quando non è più in grado di procedere oltre, il maestro gli dà qualche piccolo suggerimento per proseguire. L’insegnante, dunque, non si limita ad una mera trasmissione di nozioni, ma guida il bambino verso un naturale e graduale possesso della conoscenza, partendo da ciò che egli già sa.
Una postura che caratterizza il maestro Lopez è certamente la disponibilità all’ascolto, sia con i bambini che con i genitori. In particolare si può evincere da diversi dialoghi come egli non abbia timore nell’affrontare temi impegnativi con i propri alunni, come può essere la malattia e la sofferenza. Inoltre, quando si presentano situazioni problematiche, come litigi ed incomprensioni, il maestro Lopez dà voce alle dinamiche che si sono venute a creare ed esterna i punti di vista e le posizioni dei bambini coinvolti, in modo tale che possano riflettere sull’accaduto e comprenderne i meccanismi. Adoperando questo ruolo di moderatore e aiutando i bambini a decentrarsi, il maestro li mette nelle condizioni di poter gestire positivamente i futuri conflitti. Non a caso l’insegnante non sminuisce o sottovaluta le cause dei litigi, ma li affronta con serietà. Il confronto, così gestito, si trasforma in una preziosa occasione di crescita cognitiva, emotiva e sociale.
L’insegnante, quindi, aiuta i bambini a decentrarsi e ad assumere una postura empatica. L’esempio che offre l’adulto è indubbiamente fondamentale: si può dire, infatti, che il maestro Lopez abbia uno stile comunicativo che incarna una profonda empatia, sensibilità e delicatezza, qualità certamente non incompatibili con la fermezza.
La professione dell’insegnante, data dall’intreccio tra educazione ed istruzione, richiede indubbiamente un’enorme responsabilità, perché, anche se non in maniera totalizzante, ci si fa carico del destino di un bambino; inoltre richiede una profonda umiltà: il maestro o la maestra entra in classe non per ricevere delle autogratificazioni, ma per mettersi al servizio dei bambini. Infatti, proprio nel momento in cui dona ai bambini ciò che è, ciò che possiede di bello, gradualmente e in modo naturale fiorisce anche la loro bellezza.
Per concludere questo spazio dedicato al film Essere e avere riporto alcune parole, semplici ma significative, che il maestro Georges Lopez pronuncia di fronte alla telecamera, quando racconta del perché abbia scelto di diventare insegnante: “Amo molto il lavoro con i bambini, loro mi danno molto in cambio”.
Lug 21, 2020 | Insegnanti
di Giorgio Chiosso (fonte: Il Sussidiario.net – 25.05.20)
Negli ultimi due decenni si sono moltiplicati gli studi e le ricerche se e come superare i modelli scolastici tradizionali eredi della stagione prussiano-napoleonica per renderli compatibili con le trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti. Nel 2001 l’Ocse pubblicò lo studio Schooling for Tomorrow cui fecero seguito il rapporto del National College for School Leadership, i “dieci principi” della Fondazione statunitense Mac Arthur, le recenti proposte del World Economic Forum e molto altro ancora (per quanto riguarda l’Italia ved. il volume della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, Un giorno di scuola nel 2020).
Secondo questi studi saremmo in presenza di tre principali scenari che riprendo dal documento Ocse sopra indicato.
1. Il primo è rappresentato dalla conservazione dello status quo, salvo qualche marginale ritocco. La fortissima resistenza al cambiamento di molti attori scolastici (spesso silente, ma non meno rocciosa) sarebbe un ostacolo insormontabile in grado di frenare/impedire qualsiasi prospettiva di reale cambiamento. L’alleanza tra i docenti conservatori, la difesa corporativa delle loro prerogative, l’inerzia dell’alta burocrazia ministeriale e l’incapacità del mondo sindacale di sostenere una coraggiosa linea di politica scolastica progressista costituirebbero i principali fattori, non solo in Italia, in grado di garantire ancora a lungo l’immobilità del sistema.
2. Speculari a questa posizione stanno i fautori di una graduale ma sostanziale e sostanziosa descolarizzazione. Sono riconoscibili in quanti sposano l’idea che “questa scuola”, anche quando le condizioni lo rendessero possibile, non si può più modificare tanto le sue strutture sono obsolete. Non resterebbe che accompagnarne la morte fisiologica (il sogno di Ivan Illich negli anni 70) e costruire, soprattutto mediante le opportunità fornite dalla rete e dalle tecnologie, pratiche di apprendimento e forme di socializzazione sostitutive, in larga misura dematerializzate. Cosa resterebbe della scuola che conosciamo? Forse la competenza di certificare i livelli di apprendimento – se proprio si vuole salvaguardare il riconoscimento del titolo legale – conseguiti ciascuno secondo i propri tempi e interessi mediante tempi e modalità variabili. A questa tesi aderisce una minoranza di insegnanti e di famiglie, per ora, ma molto ben attrezzata e sostenuta da importanti interessi economici.
3. Ci sono infine i riscolarizzatori che perseguono un’idea di “scuola diversa”: senza rinunciare all’apporto delle tecnologie, diffidano tuttavia dell’egemonia digitale e delle forme d’istruzione esageratamente destrutturate. Esse rischierebbero di trasformare l’insegnamento/apprendimento in esperienze solitarie e azzerare gli aspetti emotivi e affettivi che le accompagnano. Dai riscolarizzatori viene rimarcato con particolari enfasi che la scuola non è solo un luogo di esercizio cognitivo, ma anche di relazioni significative adulto/minore, un’opportunità di confronto culturale, un esercizio di convivenza, uno spazio di prova delle soft skills. Ma è davvero possibile dar vita a una “scuola diversa”? Sì, a condizione di liberare le scuole dai vincoli che ne condizionano la quotidianità, limitando a poche e generali regole il funzionamento, lasciandole libere di scegliere il personale e di predisporre i piani di studio, coinvolgendo le comunità locali, tutte condizioni necessarie per trasformarle in esperienze vitali e fare dell’autonomia non solo a parole.
È facile intravedere in questi tre scenari non solo gli orientamenti che attraversano il dibattito sul futuro scolastico nel mondo occidentale, ma anche le traiettorie della discussione politico-scolastica che si sta aprendo in Italia con caratteristiche – è facile prevederlo – molto diverse dal passato per due ragioni.
L’imprevista opportunità di sperimentare forzosamente un modello scolastico differente da quello tradizionale (casalingo, didattica a distanza, mancanza di rapporti in presenza con i docenti) ha documentato che sono possibili forme di insegnamento/apprendimento alternative a quelle abituali (naturalmente qui lasciamo perdere la loro attuale precarietà). Quanto avvenuto fulmineamente (e senza preparazione) negli ultimi tre mesi ha dimostrato che si può avere “un’altra scuola” (e non solo parlarne in astratto): in poco tempo si è incredibilmente aperto uno spazio d’azione inimmaginabile fino a poco tempo fa.
La seconda ragione è legata al patrimonio di esperienza umana vissuta nell’emergenza pandemica: le vicende di questi mesi fatte purtroppo di sofferenza, morte, povertà sono state accompagnate anche da generosità, partecipazione solidale, gratuità. Un patrimonio di valori umani che ha toccato il cuore di molti, che ha dato un nuovo senso alla realtà nazionale esaltando importanti dimensioni immateriali della vita comune. Non si può fingere che 30mila morti (ma sono sicuramente molte di più) siano passate senza suscitare domande significative. Di fronte alle statistiche della pandemia siamo stati spinti a riscoprire aspetti di senso vissuti a livello collettivo spesso censurati perché opinabili e in quanto tali confinati nella categoria ideologica.
Per quanto riguarda il futuro scolastico è molto difficile ipotizzare in quale direzione queste sollecitazioni potrebbero ridisegnarlo. Probabile che nessuna delle tre opzioni schematicamente presentate possa tradursi nella realtà, prevedibile invece che si creino soluzioni trasversali miste.
Una fondata preoccupazione è che si prendano delle scorciatoie semplificanti che potrebbero incrociarsi, per esempio, nella saldatura tra un neo-centralismo rassicurante e moderatamente generoso (qualche finanziamento per moltiplicare le dotazioni tecnologiche collettive e personali) che tranquillizza i vertici di viale Trastevere, la sostanziale conservazione dello status quo (che fa contenta la maggioranza dei docenti e dei sindacati) e una diffusa digitalizzazione presentata come scelta “progressista” e “democratica”. Come se dal numero dei pc in possesso delle famiglie e degli studenti si potessero dedurre la qualità della scuola e della formazione dei giovani.
In gioco c’è qualcosa di più e di diverso. Bisogna di nuovo tornare a interrogarci su quale educazione in generale e scolastica nella fattispecie vogliamo, proprio come è accaduto ogni volta che in passato la scuola ha attraversato i tornanti del cambiamento sociale e politico (ricostruzione democratica, sviluppo economico, scuola di massa…).
Se lo scopo dell’educazione è funzional-utilitaristico, il cuore dell’azione educativa è occupato soprattutto dalla dimensione dell’istruzione e dell’addestramento con tutto l’apparato metodologico che queste forme di trasmissione delle conoscenze comportano. Il problema del metodo assorbe perciò tutta la scena con l’ossessività delle procedure e con l’illusione di trovare finalmente quello perfetto e infallibile. Insomma le tecnologie dell’istruzione finiscono per porsi come una nuova ontologia orientata in senso tecno-efficientistico. E allora va bene puntare tutto sulla moltiplicazione dei pc e sulla potenza della rete.
Se invece lo scopo dell’educazione è prima di tutto umanizzante e cioè volto a far scoprire all’altro il senso di sé come persona umana e il suo posto della rete sociale nella quale vive, l’azione educativa si svolge attraverso altre piste. Per dirla con Romano Guardini, queste puntano a valorizzare soprattutto l’“incontro” tra persone e l’apertura a ciò che non è ancora, ma può essere: “Se l’uomo resta chiuso in se stesso senza mai correre il rischio di aprirsi alla realtà, diverrà sempre più misero e povero”. E allora l’esperienza cognitiva da sola non è più sufficiente.
Perché il baricentro per rilanciare l’educazione non potrebbe essere proprio quel patrimonio valoriale che la tragica esperienza del virus ha consentito a tutti noi di sperimentare?
Giu 23, 2020 | Studenti
Traendo spunto dall’incontro con il Prof. Emanuele Balduzzi, Anna Maria Canteri approfondisce il tema della narrazione come fondamento dell’identità personale.
La persona che racconta prende consapevolezza di se stessa; la persona che ascolta coltiva importanti qualità:
consapevolezza, compassione.
Chi ascolta è colui che conduce e chi conduce è colui che rinuncia al suo potere.
Anna Maria Canteri-Fricker
Giu 18, 2020 | Conferenze
Il 19 giugno 2020 l’As.Pe.I organizza il Convegno Nazionale
Attraverso un webinar docenti universitari ed esperti si confronteranno sull’impatto che la pandemia ha avuto in ambito culturale ed educativo.