La guerra in Ucraina trae origine dallo scontro ideologico che si è venuto a creare tra Russia e Occidente negli ultimi 30 anni. Non si deve fare l’errore di pensare che l’ideologia sia una sorta di sovrastruttura stesa sopra le vere ragioni della guerra, quelle economiche, geopolitiche, militari. In realtà c’è una linea di continuità diretta tra la spersonalizzazione dell’altro, la costruzione del nemico e la decisione di scendere in guerra contro questo nemico, di bombardare le sue case, di sconvolgere la sua vita.
Il punto da cui occorre partire è l’appartenenza di Russia e Ucraina (e delle loro classi dirigenti) all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, uno Stato totalitario fondato su di un’ideologia, cioè una costruzione intellettuale in cui alcuni elementi vengono presi dalla realtà e distorti a beneficio del proprio gruppo di appartenenza.
Nel 1991 crolla l’Unione Sovietica e per la Russia cominciano i selvaggi anni Novanta: arriva l’economia di mercato occidentale, anzi il capitalismo selvaggio in cui prevalgono i più spregiudicati, gli oligarchi. Nel 2000, quando El’cin passa la mano a Putin, la situazione cambia radicalmente: Putin dichiara guerra agli oligarchi, emana alcune riforme decisive, sorge la classe media russa, la ricchezza si diffonde. Contemporaneamente Putin si mette a capo del recupero russo dei valori tradizionali, si presenta come il leader mondiale del conservatorismo non islamico, restituisce alla Russia il suo status di potenza mondiale, ma verso il 2012 piega questo recupero simbolico verso il passato sovietico ed impone una sola verità storica e culturale, la verità di Stato. La chiusura delle emittenti televisive di proprietà degli oligarchi, la guerra fatta ai giornalisti indipendenti (Politkovskaja, Estemirova ecc.), la chiusura di Memorial sancisce l’affermazione del pensiero unico in Russia.
Il percorso dell’Ucraina fuori dall’Unione Sovietica è stato diverso da quello russo. Divisa per secoli tra Impero Zarista e Impero Austro-Ungarico, presenta ancor oggi una parte occidentale decisamente ucrainofona, prevalentemente agricola e spesso di confessione cattolica e una parte orientale molto più russofona, ortodossa e di antica tradizione industriale. E, pur essendo una regione ricca di risorse naturali e agricole, non è mai riuscita decollare nel periodo post-sovietico, soprattutto per l’insediarsi al potere di una élite economico-politica: qui gli oligarchi non sono mai stati estromessi dal potere politico e continuano a spadroneggiare.
La debolezza dello Stato è certificata dalla continua discussione sulla Costituzione, modificata più e più volte, contestata e, soprattutto, più volte disattesa. Ma è certificata anche dal potere che nel 2014 viene concesso alle manifestazioni di piazza avvenute col consenso e la partecipazione palese degli USA. Alla fine di febbraio il presidente filo-russo Janukovič, pur essendo stato regolarmente eletto, viene defenestrato e sostituito, il tutto in un clima di accuse reciproche, ma soprattutto senza alcun rispetto per la Costituzione e lo Stato di diritto.
È la scintilla. Alcune regioni a maggioranza russofona non accettano il neonato governo Jacenjuk voluto dagli USA e prontamente riconosciuto invece dal mondo occidentale. La Crimea – regione militarmente strategica – dichiara con un referendum la propria volontà di staccarsi dall’Ucraina e aderisce alla Russia. Stati Uniti ed UE proclamano le sanzioni alla Russia e ai politici russi che avevano approvato quel referendum. Un mese dopo due regioni a maggioranza russofona della zona orientale, il cosiddetto Donbass, si ribellano al governo centrale ucraino e si costituiscono nelle Repubbliche secessioniste di Donec’k e di Lugans’k.
Da quel momento in Russia e in Ucraina – ma anche in Occidente – si strutturano due interpretazioni ideologiche contrapposte che ispirano le politiche militari, linguistiche, mediatiche.
Le autorità ucraine mettono in campo un’Operazione Anti Terrorismo in cui intervengono formazioni paramilitari di matrice estremista (Pravyi sektor); seguono tentativi internazionali di conciliazione, fasi di escalation, de-escalation, perdite e riconquiste di territori, il trattato Minsk I (settembre 2014) e Minsk II (febbraio 2015) mai pienamente implementati, elezioni non legittime, manifestazioni a favore delle diverse soluzioni filo-separatiste e filo-governative, una fase di stanca nel 2016. Nel 2018 il governo ucraino decide di non tollerare più la situazione e riclassifica l’Operazione Anti Terrorismo in Operazione Militare Congiunta: non sarà più la polizia a lottare contro i separatisti filorussi, bensì l’esercito ucraino al comando del presidente si schiererà contro quella che è senza alcun dubbio l’aggressione armata di una potenza straniera, la Russia.
Nel mezzo, a gettare benzina sul fuoco, la cessazione dell’erogazione delle pensioni da parte dell’Ucraina agli anziani delle repubbliche separatiste e l’assunzione dell’onere da parte russa (2014), l’orribile strage dei manifestanti filorussi a Odessa (maggio 2014), l’abbattimento del volo delle Malaysian Airlines 17 da una postazione dei separatisti (luglio 2014), due navi militari ucraine catturate dai russi mentre cercavano di forzare lo stretto di Kerč (novembre 2018). Nel 2019 il conteggio di questa “guerra a bassa intensità” supera i 13.000 morti , di cui oltre 3.300 tra i civili, mentre i feriti ammontano ad almeno 7.000.
Anche qui si fronteggiano due narrazioni. L’una è quella che ha fornito direttamente il presidente Putin nel discorso del 21 febbraio 2022 quando ha detto che, nel 1922, “il Donbass, fu letteralmente ficcato dentro l’Ucraina” e che quello che è avvenuto in questi 8 anni di bombardamenti con droni d’attacco, attrezzature pesanti, razzi, artiglieria e sistemi di razzi a lancio multiplo “è interamente un prodotto del colpo di stato del 2014”. Che, dunque, per risolvere la questione del Donbass, non resta altra soluzione che riconoscere l’indipendenza e la sovranità della Repubblica Popolare di Donec’k e della Repubblica Popolare di Lugansk e intervenire militarmente.
L’altra interpretazione dice che è inaccettabile che una potenza straniera, la Russia, entri con il proprio esercito nei territori di uno Stato sovrano, l’Ucraina, che fomenti azioni militari nelle regioni di frontiera di un paese confinante, e che il fatto che in quelle regioni vivano abitanti russofoni cui vengono conculcati alcuni importanti diritti identitari non è una giustificazione. C’è da aggiungere il silenzio che i mass-media, per lo meno quelli italiani, hanno riservato a questa tragedia, perché 13.000-14.000 morti sono comunque una tragedia, eppure questi morti sono stati trattati come morti di serie B, non degni delle prime pagine dei giornali, né delle aperture dei telegiornali.
Il resto è la terribile cronaca di questi giorni con l’esercito della Russia che invade l’Ucraina, semina morte e distruzione, e con un presidente Putin, che in nessun modo può essere giustificato dalle ragioni che abbiamo portato fino ad ora.
C’è da aggiungere solo che, se la catastrofe di cui siamo testimoni è il frutto delle ideologie portate avanti dalle classi dirigenti, dalla vita del semplice popolo ucraino viene invece un messaggio di speranza. Da decenni la popolazione ucraina aveva superato le ideologie nazionaliste, aveva mostrato come si convive in un paese con tanti matrimoni misti, che peraltro nessuno considerava misti. Viveva, la popolazione ucraina, senz’ombra di intolleranza tra ucraini e russi, utilizzando indifferentemente una lingua o l’altra, o un misto tra le due. Viveva in pace.
La politica ha l’obbligo di trovare le forme istituzionali di questa pace, assicurando larghi diritti alle minoranze, permettendo l’uso delle lingue minoritarie ovunque ci siano, aprendo scuole e università bilingui, aiutando le ragioni della convivenza, non costruendo ideologie che separano, armano, versano sangue. I politici ucraini devono superare il paradigma nazionalista, convincersi che non possono obbligare i russi del Donbass a studiare solo in ucraino e i politici russi devono convincersi che la Crimea può trovare la propria casa anche in Ucraina, come il Sud Tirolo l’ha trovata in Italia ed ha accettato di farsi chiamare Alto Adige.
La politica deve servire la pace che c’è. Deve imparare dalle famiglie che vivono in pace, non armare i fratelli contro i fratelli.
Giuseppe Ghini – professore ordinario di slavistica presso l’Università di Urbino
Intervista a Michele De Beni – Pedagogista-psicoterapeuta
1. La guerra è ora al centro dei nostri pensieri. Dopo tre anni in cui non si parlava che di virus, si è passati ora ad un altro tema, la cui complessità non è minore dell’altra. Se la cosa crea angosce e paure in un adulto, tanto più lo fa in uno studente, ragazzo o bambino che sia. Quali suggerimenti dare al mondo dell’educazione, che non può esimersi dall’affrontare, con mezzi adeguati alle varie età, questa tematica?
Dobbiamo riconoscere che il conflitto costituisce parte del nostro essere, insito nelle culture, nella politica, nell’economia…Percezioni, punti di vista, obiettivi contrastanti, che occorre saper ben gestire. Perché, di per sé, il conflitto non è guerra. Se ben affrontato, è preziosa via di dialogo per nuove comprensioni e soluzioni, per la pace e per il progresso. A volte, però, conflitti non ben affrontati possono sfociare in gravi tensioni e in guerre. Dobbiamo tenacemente opporci ad una cultura di guerra: non siamo condannati alla guerra, perché la nostra stessa specie è capace anche di inventare la pace. Sui social ingiustizie e prepotenze, però, ne fanno da padrone, scandite da un’ossessiva enfasi mediatica. Non dimentichiamoci, allora, che più di tante spiegazioni razionali sulla guerra, la via educativa più immediata è di spostare l’ottica dalla violenza alle ragioni e alle vie della pace. Questo non significa trascurare la conoscenza dei fatti e dei contesti dei crimini in atto. È sempre importante aiutare i bambini ad esprimere ciò che hanno dentro e che li incuriosisce. Ma ciò va accompagnato e regolato in giuste proporzioni, in base all’età e alla sensibilità di ciascuno. Se per quelli più grandi è possibile, e in certi contesti pedagogicamente doveroso, iniziare un graduale approccio a un tema complesso come la guerra, per i più piccoli occorre stare attenti ad un tipo di esposizione mediatica che li potrebbe ferire. Serve più rispetto per l’infanzia! Qui, però, vorrei richiamare la priorità di far sperimentare buone pratiche di comunicazione in famiglia, a scuola, nel gruppo. È in questo modo che insieme si scopre la forza e la bellezza del dialogo e, all’opposto, quanta disumanità, distruzione e solitudine provochino l’odio e la sopraffazione. Sarebbe questo un passo decisivo nel segno della prevenzione e della pace. Più bambini e più ragazzi imparano a ben gestire i loro litigi quotidiani più impareranno cosa sono gli orrori della disunione e della guerra.
2. L’uniformità, l’omologazione e la mancanza di vedute discordanti sono sintomo di una dittatura. La diversità di opinioni, il litigio, il confronto, anche con toni accesi, è invece fisiologico in una società libera. Come valorizzare l’importanza dello scontro dialettico e del dibattito come strumento di prevenzione della guerra?
Se c’è una colossale ignoranza da correggere oggi è quella riguardante la gestione dei conflitti, che certi squallidi talk show condotti alimentano ad arte sul filo di un’accanita aggressione verbale. Cosa se ne può trarre, a nostra volta, se non una martellante propaganda di delegittimazione dell’avversario? Non è questa scuola quotidiana di violenza? Qui non c’è rispetto della persona, né si permette ai diversi punti di vista di esprimersi, ma si persegue scientemente l’obiettivo dello scontro e della rissa. In questo modo non ci può formare un’opinione in merito ad un argomento, che sempre andrebbe compreso nella sua complessità avendo a disposizione più fonti d’informazione e diversi punti di vista. Questo non succede nelle dittature o nelle forme autocratiche di governo dove ogni dissenso è censurato e punito. In questi Stati la gestione violenta del potere arriva alla spersonalizzazione fino alla soppressione fisica dei cittadini, spogliati dei loro elementari diritti di libertà e di parola. Senza arrivare a queste forme dittatoriali, però, mi sembra che nel nostro contesto culturale democratico si stiano attraversando due grossi pericoli: il primo è quello di una sovraesposizione mediatica alla violenza, che certamente non è buona “maestra” di sana comunicazione e di pace; il secondo pericolo, conseguente al primo, è che nelle nostre conversazioni quotidiane, in famiglia, a scuola, in politica… non si è sufficientemente attenti a quella pedagogia di ascolto e di dialogo che sono precondizioni indispensabili per la ricerca di soluzione dei conflitti. Se una dittatura comporta l’impossibilità di un confronto tra una pluralità di punti di vista, il rischio che corrono le democrazie è di una pseudo-dittatura della disinformazione. Essa, fatta abilmente circolare attraverso una martellante quantità ripetuta di dati falsi o distorti, condiziona la mente a non praticare quell’indispensabile esercizio di ricerca e di verifica delle informazioni che sta alla base di ogni vera democrazia, dell’intelligenza umana stessa. Il rischio ormai è che nessuno più crede a niente e a nessuno. Questa è la fragilità di una cultura debole che non aiuta al confronto e che asservisce al pensiero dominante. Questa è la peggior forma di dittatura a cui dobbiamo reagire, introducendo nelle nostre scuole progetti mirati ad insegnare a pensare con la propria testa e a dialogare.
3. I bambini si sentono particolarmente impotenti di fronte ad un male così grande. Come durante la pandemia, il Santo Padre non ha mancato anche in questa occasione, in particolare durante la festa dell’Annunciazione il 25 marzo, di ricordarci che un mezzo sempre potente per fermare le calamità (naturali e artificiali) e per renderci protagonisti della pace sia la preghiera. Ma come essa oggi è possibile quando tutto sembra crollare, senza speranza?
Le radici storiche e religiose di un conflitto fratricida da “Terza guerra mondiale a pezzi”, evocata a più riprese da papa Francesco, si sta drammaticamente componendo in Ucraina. Dovremmo interrogarci sul ruolo che ha la religione non solo in questa guerra, ma in tutte le forme di conflitto. La disunità tra cristiani e tra chiese, nella nostra stessa Comunità cattolica, dovrebbe risuonarci dentro come il tradimento più scandaloso dato al mondo: quello di farci scudo del Vangelo senza impegnarci a viverlo. Chiusi in diatribe ideologiche e di bottega abbiamo chiuso mente e cuore al dolce ma esigente invito di Vita che ci viene dalla Parola di Dio. E ci siamo dimenticati che Dio è intima vocazione dell’uomo, di ogni essere umano sulla terra, come lo è il sogno di felicità, di amore, di pace che dall’Eterno è inscritto nel nostro DNA, di qualsiasi religione e cultura noi siamo. L’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII fu indirizzata a tutti, non solo ai cristiani, a tutti gli uomini e donne di buona volontà, come appello a unire tutti gli sforzi per ricomporre la pace sull’orlo di una guerra tra Russia e USA. Era il 1963, ma questa enciclica mi sembra di grande attualità perché ci riconduce a drammi simili che, pur in contesti storici diversi, sta attraversando la nostra società globale, come quello di uomini e donne, di bambini massacrati a Mariupol, a Kharkiv, a Kiev, a Chernihiv…
4. Rivolgersi a Dio nei momenti difficili è quasi spontaneo. Ma di fronte a tanto dolore oggi nel mondo, come può essere strada valida per ricomporre dentro di noi e nei rapporti sociali vie di concordia e di pace?
Difronte alla guerra in atto, mi sembra attuale richiamare l’implorante domanda di papa Ratzinger in visita nel 2006 al campo di sterminio di Auschwitz: “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”. Grido rivolto a Dio, come quello stesso di Gesù in Croce rivolto al Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: grido assoluto che riassume in sé tutti quelli di un’umanità attonita, inerme di fronte al dolore, al tradimento, alla distruzione. Perché? Partirei da questa profonda, inesauribile domanda di senso per una più matura consapevolezza della nostra fragilità umana, che se da una parte ci può annichilire e disorientare dall’altra ci richiama ad una Realtà, ad una Presenza tra noi, ad un Padre a cui affidarci e con cui camminare insieme per Qualcosa di più grande, per un Ideale di Vita buona per la quale vale la pena vivere e sacrificarsi. Mi è sempre rimasto impresso il versetto del profeta Geremia, riferito a Dio che gli dice: “Prima ancora di formarti, nel ventre di tua madre, prima ancora che tu nascessi, io già ti conoscevo”. Come recita anche un’antica invocazione buddista-zen: “Signore, fa che io veda il mio volto, così com’ero prima che io nascessi”. Dall’Eternità Dio vedeva il mio volto, il mio “dover essere”. Bisogna coltivarlo questo sogno di bellezza che portiamo “dentro”! E saperlo abitare e ritornarci per incontrarlo più volte. E parlare più spesso tra noi di questa casa interiore. Ma per parlarne bisogna prima entrarci. Ed è da qui che il cuore si apre al dialogo sincero tra la realtà che vedo di me stesso e la mia anima, tra quello che sono e il sogno di Dio, accettando che “altro da me” mi abiti, che un Altro entri dentro e mi parli, un Maestro tra noi, con il suo dolce ma esigente invito: “Seguimi”. Un incontro a cui mi posso abbandonare, fiducioso come un figlio. Un cammino, che perfino a Renato Zero ha fatto dire: “In tutte le promesse disattese perdevo me e ritrovavo Dio. È lì la verità, ora lo so”. Di fronte alla guerra, alle molte guerre che combatto dentro di me ogni giorno, alla guerra che corre là fuori, non voglio rinunciare a questo incontro. Ritroverò me stesso e vi fioriranno tante vie di pace.
Michele De Beni – Pedagogista-psicoterapeuta
Esperto in Processi formativi, già Professore di Docimologia e di Pedagogia all’Università di Verona, professore di Programmazione e Valutazione dei processi formativi, Istituto Universitario Sophia, Loppiano (FI).
Quando ci si trova di fronte ad un’opera d’arte, si è chiamati a raccogliere l’invito implicito dell’artista di “leggerne” il significato. Per questa prima newsletter del nuovo anno vogliamo farci guidare nella lettura di un opera d’arte
Chiamata “la Cappella Sistina” di Verona perché tutta ricoperta di affreschi, la Sala Morone è un manufatto rinascimentale straordinario, ma purtroppo non molto conosciuto.
Si trova all’interno del convento francescano di San Bernardino, a pochi passi da Castelvecchio. Deve il suo nome al pittore Domenico Morone che, con i pittori della sua bottega, la affrescò nell’anno 1503.
La sala costituiva la biblioteca del convento e conteneva quasi quattromila volumi che, dopo le soppressioni napoleoniche, furono trasferiti alla Biblioteca Civica.
La sala non ha l’aspetto di un’antica biblioteca, con le pareti coperte da scaffali di legno scuro. Al contrario è priva di mobilio, ha le pareti ricoperte di coloratissimi affreschi ed è inondata di luce grazie alle 10 ampie finestre.
Per essere un luogo di studio e di silenzio è in un certo senso piuttosto affollato e rumoroso: il programma iconografico infatti, sviluppato da fra’ Ludovico Della Torre, prevede più di 60 figure di santi e beati, tutti in dialogo fra loro.
Le pareti laterali rappresentano frati minori che hanno scritto libri di filosofia, teologia e spiritualità: le loro figure erano intese come etichette parlanti, poiché sotto a ciascuna immagine si trovavano alcuni bassi mobili con ante contenenti le loro rispettive opere.
Tutti i frati indossano lo stesso saio, ma in diverse gradazioni di grigio, bianco, beige, marrone ed ocra, e portano calzari di foggia diversa. Ogni figura si intrattiene con l’altra in un dialogo fitto ma sereno. Questa sala ci mette davanti agli occhi una folla di individui unici e diversi tra loro, tutti gioiosamente in relazione. Le figure esprimono il “pace e bene”, cioè il tradizionale saluto francescano. L’atmosfera emotiva che traspare è quella della beatitudine: una “perfetta letizia” che per Francesco non sarà solamente in Paradiso, ma è possibile già oggi su questa terra.
La parete di fondo è il punto focale dell’intera stanza: se dalle pareti la gioia ci è comunicata attraverso la diversità umana e l’essere in relazione, qui decisamente la “perfetta letizia” passa attraverso la rappresentazione della natura. Domina la scena un brillante colore azzurro lapislazzulo, che continua a riempire gli occhi per molto tempo dopo la fine della visita.
Azzurro è il cielo, limpido e con graziose nuvole bianche; azzurra è l’acqua del lago (è il lago di Garda, familiare e molto vicino). Perfino le montagne che saldano cielo e terra sono di un brillante colore azzurro!
Laudato si’ mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole…
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo…
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua…
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra..
Francesco trova il Paradiso già in questo mondo: egli “viveva…in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (Laudato Sii, 10)
Domenico Morone, che in quel momento ha 61 anni ed è pittore affermato e maturo, usa il colore, il movimento delle figure e la rappresentazione di una natura serena e pacificata per esprimere la vitalità e la forza della fede francescana.
Nella parete di fondo organizza lo spazio in modo tripartito, mostrando di padroneggiare la lezione di Mantegna nella pala della vicina basilica di San Zeno. Davanti al meraviglioso paesaggio naturale, dispone i personaggi: la Madonna con un volto dolcissimo, quasi adolescenziale, al suo fianco molti angeli, uno diverso dall’altro, i due colti e ricchi committenti Lionello Sagramoso e la moglie Anna, i santi Francesco e Chiara. Ai lati, santi dell’ordine francescano tra cui i cinque martiri del Marocco, che ispirarono la conversione di Sant’Antonio da Padova, anch’egli qui raffigurato.
Sapiente arte rinascimentale generosamente finanziata e colta committenza collidono in questo luogo per dare corpo e colore al dirompente e sempre attuale messaggio francescano che il Paradiso è già in terra, basta saperlo vedere.
I due autori, esperti di problemi educativi, intervengono nel dibattito apertosi con l’approvazione alla Camera del progetto di legge che introduce nella scuola le competenze non cognitive, sottolineandone il valore ai fini di un buon apprendimento, alla luce anche del periodo di didattica a distanza che ha inciso negativamente sulla stabilità emotiva degli studenti.
Caro direttore, l’esigenza di una più accurata attenzione allo sviluppo della personalità degli allievi è emersa prepotentemente durante la stagione pandemica. In situazione DAD gli insegnanti più efficaci sono stati quelli che hanno saputo occuparsi dei loro allievi non soltanto sul piano degli apprendimenti, ma anche nel sostegno relazionale. Quanto è accaduto in circostanze emergenziali non fa che confermare ciò che da tempo è noto e cioè che il potenziamento delle competenze definite «non cognitive» o «socio-emotive», integrano e migliorano le competenze «cognitive».
Gli stessi apprendimenti risultano più saldi se sono uniti a una visione generale della persona-allievo, non separando conoscenze-competenze-tratti di personalità come la costanza nel lavoro, la stabilità emotiva, la capacità di stare con gli altri, l’apertura mentale ecc. Non si tratta di aggiungere una nuova «materia», né di mettere in pagella un voto sulla capacità di autocontrollo o sulla coscienziosità degli allievi, né tanto meno di introdurre surrettiziamente un condizionamento a conformarsi alle richieste della società. La preoccupazione, tutta educativa (se si vuole che la scuola continui ad essere educativa), è quella di aiutare i docenti a porre maggiore attenzione a sviluppare, parallelamente alla trasmissione di conoscenze, le attitudini che possono contribuire alla crescita della persona nella sua interezza, magari con un occhio non distratto alle obiettive difficoltà che l’educazione dei ragazzi e dei giovani pone oggi alla generazione adulta (bullismo, comportamenti a-sociali, videodipendenza, precoce introduzione all’uso di sostanze).
Queste competenze si sviluppano nella prima infanzia, nella famiglia e con gli amici, creando disuguaglianze di cui la scuola deve essere consapevole perché ha il compito di attenuarle o rimuoverle, collegando equità e qualità. In tutto il mondo, l’attenzione alle competenze non cognitive porta alla diminuzione degli abbandoni scolastici, promuovendo, per esempio, l’autostima e la motivazione ad apprendere specialmente nei ragazzi poco brillanti o reduci da precedenti fallimenti. Sostenere che la cultura possa essere acquisita in modo libero e spontaneo e tutto sommato misterioso (una specie di nostalgia gentiliana) spinge alla deresponsabilizzazione, perché l’apprendimento nasce all’interno di una relazione che punta sulla curiosità, sul desiderio di esplorare, sull’atteggiamento positivo nei confronti degli altri e delle cose, impadronendosi contemporaneamente degli strumenti per farlo: il linguaggio, il pensiero logico e matematico, la conoscenza delle scienze, delle arti, del pensiero storico e filosofico.
Il buon senso di molti insegnanti ha sempre collegato il risultato all’impegno e alle caratteristiche personali, riconoscendo così l’esistenza di fattori non quantificabili che però incidono sugli apprendimenti. E oggi, quando due anni di isolamento hanno minato la fiducia dei ragazzi in sé stessi e negli adulti, serve una scuola capace di far crescere la capacità critica e cioè progettuale e creativa dei ragazzi non solo passando dalle materie scolastiche.
di Giorgio Vittadini e Giorgio Chiosso (fonte: Corriere della sera – 02.02.2022)
Forse non ci sono molti esempi nell’arte contemporanea, degni di essere considerati in grado di rappresentare al massimo livello un’anima profondamente buona e pura, come neL’idiota di Dostoevskij, dove è scritto che “la bellezza salverà il mondo”.
Dobbiamo dunque chiarire cosa intendiamo per bellezza. Quella di cui parliamo è infinita, ed è frutto del desiderio.
Joseph Ratzinger dice che l’essenza dell’uomo è il desiderio di infinito. Ed io aggiungo: quando incontriamo la bellezza, in un certo modo, incontriamo l’infinito.
L’amore per la bellezza è amore per l’infinito, e ciascuno di noi, in fondo, ne è sempre alla ricerca. È per questo che, quando in un modo o nell’altro la intuiamo, ci scalda il cuore. L’innamorato vede nella sua amata qualcosa di bello e infinito, per questo il cuore gli arde e palpita.
Desiderio e amore sono le chiavi per incontrare la bellezza.
Maria di Magdala ne è un’autorevole rappresentante, perché continua ad amare Gesù sebbene sia morto. Anche se non c’è più niente da fare, lo cerca, e poi lo riconosce quando Lui e la sua “bellezza” si rivelano a lei chiamandola per nome.
Quando amiamo, noi esseri finiti desideriamo l’infinito: ciascuno di noi cerca la bellezza infinita.
Oggi invece ci viene proposta un’idea di bellezza diversa: bello è ciò che in fondo soddisfa subito i nostri bisogni, che sono comunque finiti. Ti dicono che “facendo un “click” su un’App, ne verrai subito in possesso… e sarai felice”.
Se ho fame, è giusto che la soddisfi, ma ipotizziamo che viva per mangiare… non sarebbe il massimo!
Siamo passati dall’artigianato, dove ogni opera era diversa dalle altre, all’industria e spesso pensiamo in termini industriali: ogni panca è uguale all’altra, ogni piatto è uguale all’altro; tutto deve essere “perfetto” cioè aderente al modello. Tutto dev’essere standardizzato, conforme all’originale, in questo starebbe la perfezione. Questa non è bellezza e non soddisfa il nostro cuore.
Una canzone di Zucchero recita: “Ho bisogno d’amore”, una frase che dice la verità, bisogno che però non può essere soddisfatto acquistando o conquistando “l’oggetto” del desiderio. Perché la bellezza e l’amore li si può solo contemplare e servire, sono loro che si impossessano di noi e non il contrario. La “Sindrome di Stendhal”, in qualche modo, avvalora il fatto che si può essere conquistati dalla bellezza.
L’amore per la bellezza nasce dal desiderio e non dal bisogno.
Tutti i bisogni, nei limiti del possibile, vanno soddisfatti, anche quelli degli altri, ma in fondo non sono la bellezza che cerchiamo.
Però forse la possiamo trovare proprio attraverso i bisogni nostri e altrui. Un bambino piccolo, ha bisogno della mamma, ma è anche vero che per lui la mamma è bella.
La bellezza la troviamo nella relazione, nell’incontro: anche se ha superato l’ottantina, vedo mia madre bella. Certo è una bellezza unica, affatto confrontabile, ma di vera bellezza si tratta. Ed è essa che rinnova la relazione, l’amore e la nostra identità, perché chi si sente amato si sente se stesso.
Come possiamo educare i nostri ragazzi alla bellezza che salverà il mondo? Forse insegnando loro ad andare incontro ai bisogni propri ed altrui, e ad un tempo far loro intravvedere ciò che ci viene dato in aggiunta e gratuitamente.
Dante, nella Divina Commedia, parte dal bisogno di uscire dalla selva oscura e finisce, tra l’altro, per vedere “Gli occhi da Dio diletti e venerati”, quelli della Madonna.
Ad onta dell’omogeneità, oggi tanto ricercata, che potrebbe essere paragonata all’idea di “bellezza greca” fondata su regole precise, quella che salverà il mondo nasce da una relazione, a volte anche semplice. Per trovarla bisogna essere aperti all’incontro.
Se dico che mia madre è bella, non per questo tutte le madri, per essere belle, devono avere gli stessi occhi o gli stessi modi di fare di mia madre, ma devono rimanere in relazione con le persone che amano e inconsapevolmente comunicheranno la loro bellezza, anche nel bisogno.
Possiamo introdurre i ragazzi alla bellezza anche con l’arte, purché ci parli di vita e d’infinito. Mi viene in mente la Pietà di Michelangelo a San Pietro, essa oltre che essere “perfetta” comunica mirabilmente l’amore di Maria Madre, e ti fa guardare non solo i suoi occhi, ma nei suoi occhi. Un’altra opera è Il Cristo Velato a Napoli, di Giuseppe Sanmartino, che, proprio perché velato, bene esprime quel di più di cui stiamo parlando.
Pietà
Cristo Velato
Tante altre cose, e soprattutto le persone, possono parlarci di vita e di bellezza.
Credo sia utile fomentare la curiosità, la capacità di stupirsi e il coraggio di mettersi in cammino. Una persona curiosa, sognatrice, come spesso lo sono i bambini, una persona che si fa molte domande aperte, anche se non sempre congrue, si facilita l’incontro con la bellezza.
Anche il non fermarsi di fronte alle sconfitte e rimanere “curiosi”, può aiutare a scoprirla. Una persona che non le accetta mai in fondo è ripiegata su se stessa e imposta la sua vita a senso unico, tutta incentrata solo sul risultato. Invece esse, se continuiamo a sognare, possono diventare ponti che ci fanno incontrare la bellezza che c’è dall’altra parte e ci “illumina d’immenso”, come ha fatto con Ungaretti.
Ho incontrato bambini con gli occhi spalancati e meravigliati, che si stupivano in continuazione. Penso sia un atteggiamento da promuovere, sia nei genitori sia negli insegnanti. Un amico un giorno m’ha detto che i bambini non sognano più perché i genitori non sognano più. Invece anche noi adulti possiamo sognare… Facciamolo! Forse per questo Gesù ha detto che per entrare nel Regno dei Cieli, nel regno della bellezza, bisogna farsi bambini.
Perché dunque “La bellezza salverà il mondo”?
Perché, se rimaniamo “bambini”, essa si rivelerà chiamandoci per nome, e ci ridarà a noi stessi.
In un periodo così pieno di incertezze, il bisogno di bellezza e di speranza si è fatto palpabile. È proprio in queste occasioni che l’umanità è chiamata a trovare motivi nuovi per gioire e sperare. Un aiuto, in questo senso, può arrivarci dall’arte, che con la sua storia e la sua potenza comunicativa può risvegliare anche nell’uomo d’oggi lo stupore e la fede.
Ne abbiamo parlato con Renata Semizzi, Docente di Storia dell’Arte presso il Liceo Artistico di Verona.
L’arte, per antonomasia, comunica bellezza, e lo comunica con l’immediatezza che le è propria, essendo un linguaggio universale, che non necessita di vocabolari, come la musica, come la matematica. L’arte può trasmettere armonia, speranza, portare gli uomini ad innalzare lo sguardo. Possiamo considerare l’arte, oggi, come una terapia per le ansie, le preoccupazioni, se non addirittura la disperazione che attanaglia l’uomo, e soprattutto i più giovani?
Sicuramente sì, l’Arte è un grande dono dato agli uomini, e sa arrivare al cuore senza mediazioni. Da educatori dobbiamo, però, chiederci se la sua consolazione e la sua forza possano arrivare intere senza mediazioni o abbiano bisogno di una preparazione, di una educazione. Io credo che l’Arte “arrivi” da sola, ma va accompagnata perché non ne vada persa per strada la potenza… Io ricordo che 30 anni fa, giovane e ai miei primi anni di ruolo, quando insegnavo Lettere alle Medie di Roncà, feci una pazzia. Per spiegare Tasso volli far ascoltare il madrigale di Monteverdi dedicato al combattimento fra Tancredi e Clorinda. Qualche collega mi disse che era eccessivo.. Ero in una seconda media, in un luogo come Roncà, in cui la scuola stessa era in mezzo alle tacchinare e ai ciliegi e i ragazzi erano, socialmente parlando, giudicati addirittura scarsamente scolarizzabili. Avevo un gruppetto fanatico dei “Guns and Roses”. Distribuii il testo, avvisai che sarebbe stata Musica difficile. Feci partire il registratore con il cuore che batteva, cercando già di prevedere come potermi comportare in modo dignitoso e utile appena la classe fosse scoppiata a ridere. Già la partenza “Tancredi, che Clorinda un uomo stima”, con il clavicembalo e il quasi recitativo lento, capivo benissimo che era quanto di più distante ci fosse dai loro gusti e dalle loro esperienze.. Partì il madrigale e nessuno rise… seguivano il testo (già spiegato nella lezione precedente).. io ero tutta rossa, mi sentivo persino in imbarazzo, li guardavo cercando di capire quando sarebbe partito lo schiamazzo… ma seguirono in silenzio tutto il madrigale.. e alla fine, mentre Clorinda cantava il sublime “S’apre il Ciel, io vado in pace” vidi le lacrime che venivano giù proprio sul viso del ragazzino più rockettaro, e molti avevano gli occhi lucidi. Finito l’ascolto mi fu difficilissimo riprendere la lezione per il motivo opposto a quello che immaginavo: parlare era un atto quasi di profanazione del silenzio commosso che aveva afferrato tutti. Non ho più dimenticato quella lezione: bisogna osare. A volte i ragazzi volano basso perché li educhiamo a non alzarsi in volo.. Viviamo in una società emotiva: cerchiamo di fare di necessità virtù e sfruttiamo l’emozione profondissima che l’arte sa suscitare per poi educare a rielaborare quei contenuti che sono davvero una risposta di umanità nelle tempeste della vita. Se anche l’arte servisse solo a farci capire che abbiamo una profondità che ignoriamo di avere e dentro cui ci sono la Verità e la Luce, già sarebbe quanto di più bello possiamo fare! I ragazzi hanno davvero sete di questa scoperta… Quando potevo portare i ragazzi a Firenze ci andavo in giornata, in treno. Si partiva alle cinque e mezzo del mattino e si tornava a tardissima serata e riuscivamo a vedere tutto quello che si poteva: S. Maria Novella e Chiostro Verde, S. Lorenzo, Cappelle Medicee, Battistero, Gallerie di Palazzo Pitti, Giardino Boboli, Orsammichele, Uffizi.. una vera overdose. Dopo questa esperienza i ragazzi non hanno mai smesso di andare a Musei e Mostre. Una volta due ragazze del Liceo Europeo bigiarono la scuola per andare al Louvre: partite con il treno cuccetta alla sera, l’intera giornata a Parigi, e di nuovo cuccetta per rientrare. “Se fate berna così vi giustifico sempre!” ho detto. Erano tornate felici. Ancor oggi ho tanti ex-allievi che ogni volta che vanno a Mostre e Musei mi mandano un saluto, e senti che lì dentro sono felici, pieni di entusiasmo per la bellezza, che è sempre una via per andare oltre al “terra-terra” faticoso e triste in cui siamo immersi.
Di fronte all’opera di un grande pittore o scultore, si può intravedere una realtà interdisciplinare che coinvolge la storia di un popolo, l’ambiente geografico, l’armonia matematica di forme e proporzioni, richiami e parallelismi con la letteratura contemporanea all’artista. Una sola opera d’arte può aiutare a mettere in evidenza l’unità del sapere, uno degli sforzi maggiori che si richiedono al mondo scolastico oggi con ragazzi chiamati, al termine dei vari cicli scolastici, alla produzione di elaborati interdisciplinari. Quali suggerimenti o esempi si potrebbero fare?
La Storia dell’Arte è sicuramente la materia culturale più completa perché richiede davvero di conoscere tutto! Ogni opera d’arte è non solo il frutto di una regione, di un popolo, di una cultura, ma veicola anche racconti, messaggi, pensieri.. Quando insegnavo al Liceo Europeo facevo un’ora alla settimana (il 50% del mio monte ore) in compresenza. Al triennio lavoravo con Letteratura italiana e avevamo dei temi che così si leggevano nei diversi linguaggi. Per esempio confrontare il linguaggio narrativo di Boccaccio e di Giotto, così simile: tutti e due tengono presente il soggetto principale e, pur arricchendolo di ambientazioni vivaci, non si disperdono mai in dettagli secondarii.. O, visto che accennava all’Esame di Stato, si possono vedere nel Programma di Quinta tanti argomenti ricchissimi. Faccio solo due esempi, forse neppure i più eclatanti… La figura della donna moderna. “La lupa” di Verga e la donna di Munch passando per il Teatro di Strindberg (legato a Munch nella Berlino trasgressiva della comunità scandinava): una donna-vampiro, superiore all’uomo e capace di dominarlo totalmente, quasi con crudeltà, l’opposto della donna madre.. Come diceva Munch “La donna, nella sua totale diversità, è un mistero per l’uomo – simultaneamente santa, meretrice e servizievole creatura dedita, nell’infelicità, all’uomo”, eppure capace di generare la vita e in questo fondamentale nella Storia dell’Umanità (l’eterna culla che dondola come passaggio dei secoli nel film “Intolerance” di Grifith).. Accanto a questa donna vampiro, sessualmente emancipata ed egoista, rimane poi la donna borghese di fine Ottocento nei romanzi, in Pirandello e nei dettagliati affreschi di Giuseppe Cellini nella Galleria Sciarra a Roma (1887-88). Qui rimangono immortalate le virtù femminili della perfetta padrona di casa: (“La Pudica”, “La Sobria”, “La Forte”, “L’Umile”, “La Prudente”, “La Paziente”, “La Benigna”, “La Signora”, “La Fedele”, “L’Amabile”, “La Misericordiosa”, “La Giusta”). Un altro capitolo importante è l’Espressionismo della Guerra, la violenza del Novecento come visto da Brecht, da Grosz, da Dix. Leggere, per esempio, il “Trittico della Guerra” di Otto Dix a livello formale (in confronto con i Trittici sacri barocchi, come, ad esempio, il Trittico di Anversa di Rubens.) e di contenuto (leggendolo assieme alle cronache dal fronte della letteratura del Novecento e anche al Cinema di guerra degli anni ’40) può spalancare un mondo tragico e tremendo nel modo vivo della cronaca, ma anche già meditato e critico come solo gli artisti sanno fare “in diretta” mentre gli avvenimenti accadono.. Il vero problema pratico nella scuola è che la scansione oraria è rigida, a volte crudele, e si fa fatica a fare anche solo i contenuti minimi, mentre per lavorare come si deve si ha bisogno di tempi distesi. I ragazzi di oggi, poi, sono davvero digiuni della cultura di base, si deve spiegare tutto, non ci sono contenuti importanti già posseduti, per cui bisogna trovare il modo di dare il massimo senza uscire troppo dal contenuto previsto dai programmi. Poi, altra difficoltà, a volte insormontabile, è che la scuola non crede più in se stessa per cui è la prima a snobbare i Programmi ministeriali (pensati proprio in chiave educativa per fornire ai ragazzi i contenuti umani, morali, culturali essenziali per vivere una vita responsabile e ricca) a favore di esperienze eclatanti ed eccezionali. Per cui la bontà di una scuola non viene misurata su ciò che gli insegnanti fanno nelle aule (unica cosa davvero importante), ma nei Progetti, incontri e iniziative extra-curriculari, pretendendo a volte di sostituire i contenuti cardine con gli approfondimenti.. Certi passaggi critici, invece, si possono fare solo quando si sanno bene gli argomenti coinvolti. Dobbiamo tornare all’umiltà argomentativa, alla sapienza di saper trarre tutto il meglio dai testi, dagli autori, senza cercare effetti speciali: gli effetti speciali ci sono già, il nostro mestiere è proprio tirarli fuori!
Oggi l’arte è spesso provocazione; sembra si sia perso il senso del bello per dare spazio alla voglia di far parlare di sé; c’è, a suo parere, effettivamente una crisi dell’arte o ancora essa sta svolgendo il ruolo di rispecchiare la società? Le arti belle appartengono solo al passato o ci può indicare qualche eccezione?Non confondiamo l’Arte con la sua propaganda ideologica. Oggi non si è perso il senso del Bello, e per fortuna il Novecento è superato. Sicuramente il Novecento ha creato una frattura insanabile fra gente comune e Arte. Se nell’Ottocento il Salon francese era frequentato da tutti gli strati sociali, anche i più popolari e meno colti (e le vignette di Daumier ne sono testimonianza) e l’andare a vedere le opere esposte era davvero un avvenimento di massa, nel Novecento la Biennale di Venezia rimane un evento di nicchia e l’arte circola soprattutto fra i collezionisti e spesso su loro commissione. Oggi la massa segue di più i Festival del Cinema che le esposizioni artistiche. Ciò non vuol dire che non ci sia arte. Anzi. Negli anni ’90 mi capitò di andare a visitare la Fondazione Lercaro di Bologna. Una collezione immensa e strepitosa di arte sacra antica e del Novecento. Ci sono opere di artisti famosi e celebrati come Balla, Boldini, Bonzagni, de Pisis, Guttuso, Antonio Mancini, Manzù, Martini, Messina, Morandi, Mimmo Paladino, Rouault, Wildt… molti di loro non sono nei libri di scuola. Mi balzò subito agli occhi che i libri di testo e la cultura di massa cristallizzano il Novecento nell’Avanguardia (se si può ancora chiamare Avan-guardia un manierismo che si trascina per più di mezzo secolo replicando e variando le geniali provocazioni di 70 anni prima). Lì vedevo artisti che invece varcheranno i secoli anche più di Damien Hirst o di Cattelan. Capivo che l’arte sacra era stata sistematicamente esclusa, non so se perché figurativa mentre la Moda spingeva verso l’informale, o se perché cristiana mentre la cultura dominante era tendenzialmente anticattolica. Sono certa che la Storia dell’Arte del Novecento che verrà fatta fra 100 anni sarà completamente diversa e allora vedranno del Novecento opere e autori che noi non ci siamo neppure accorti (a livello di massa) che siano esistiti. Al giorno d’oggi l’arte sta tornando al figurativo e quindi verranno pian piano riscoperti e studiati gli autori figurativi del Novecento e rivalorizzata l’arte rinascimentale e barocca. E’ finito il tempo del Manierismo picassiano. E come tutti i cicli artistici della Storia, il Manierismo viene superato da un ritorno al realismo e alla figura. Oggi c’è un ritorno al realismo seicentesco. Penso, per restare all’Arte Sacra, a Giovanni Gasparro, ma anche la fase iperrealista di Ventrone e Benedicenti, per quanto povera di contenuti e di messaggi, testimonia questo ritorno alla realtà. Al di là, comunque, di queste piccole osservazioni di poco spessore, va sempre ricordato che la Bellezza è dentro all’uomo che lui lo voglia o no, per cui l’Arte non morirà mai. Le Arti belle non sono eccezioni, sono la norma. Esistono e sono esistite ed esisteranno sempre. In certi periodi vengono fatte conoscere, in altri meno. Veniamo da un periodo in cui era la Bellezza ad essere bandita, l’arte che seguiva le strade contrarie della violenza, dell’angoscia, della disperazione era preferita, osannata, premiata, descritta. Ma l’arte e la sua propaganda sono, come si diceva, due cose diverse. Restiamo ottimisti: l’animo umano è sempre lo stesso, è sempre soffio di Dio abitato di nostalgia del Paradiso..