Ostrov – L’isola (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Ostrov – L’isola (Newsletter n.14 marzo – aprile 2022)

Paese: Russia 2006 – Durata: 112 minuti – Regia: Pavel Lungin

Uscito nel 2006 nelle sale italiane un po’ in sordina, Ostrov – l’isola è un film che si segnala per la capacità di descrivere il tormentato percorso spirituale di un monaco russo, restituendo anche uno spaccato della spiritualità ortodossa.

Il protagonista, p. Anatolij, è un ormai anziano monaco ortodosso, dalla salute precaria per le dure condizioni di vita a cui si sottopone, che vive su un monastero costruito su un gruppo di isole, in un paesaggio nordico di indubbia suggestività. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso, in piena Unione Sovietica. La vita è scandita dalle normali attività della comunità, fatta di preghiera solitaria e comunitaria e mansioni lavorative, che, nel caso del protagonista, comportano la faticosa manutenzione della baracca delle caldaie, impegno volutamente scelto e mantenuto oltre il normale periodo di avvicendamento ai lavori tra i monaci, per espiare i propri peccati, e in particolare uno. Un terribile segreto si porta dentro, infatti, il monaco, che risale a molti anni prima, all’epoca della Seconda guerra mondiale, rivelato già nelle primissime scene del film. Con quella colpa risalente alla sua giovinezza fa i conti praticamente ogni giorno, in una continua vita di penitenza, che, però, diventa anche la ragione della sua umiltà e personale carisma. Infatti, a dispetto dell’aspetto dimesso e della scarsa considerazione che egli stesso ha di sé, e che gli altri monaci hanno di lui, è circondato da una grande fama di santità, alla quale contribuiscono poteri taumaturgici e doti di chiaroveggenza, che spingono molte persone, con diversi problemi, ad andare sull’isola per chiedere aiuti e speciali preghiere di intercessione, considerandolo alla stregua di uno santo starec. L’afflusso di pellegrini genera mormorazioni e invidie da parte di alcuni confratelli, nei confronti dei quali il monaco si comporta in modo apparentemente bizzarro, quasi da “stolto in Cristo” (tipica figura di asceta del cristianesimo ortodosso, specialmente di quello russo), ma in realtà con proposito di aiutare i confratelli a prendere coscienza dei loro peccati e a correggersi. Conclude il film un incontro a sorpresa, che restituirà al monaco la pace interiore, sciogliendo il senso di colpa che si portava dentro da anni. 

La pellicola si segnala, in conclusione, per la sua forte vena religiosa, che permette di cogliere alcuni aspetti della spiritualità ortodossa, in cui la componente mistica, ben rappresentata dalla preghiera del cuore che il protagonista recita in una scena intensa, rappresenta una dimensione essenziale. Inoltre, la vicenda drammatica del protagonista offre spunti di riflessione, utilizzabili in diversi contesti, per affrontare il tema della colpa e del corrispondente dolore come fonte di conversione e rinnovamento interiore. Non manca, infine, anche un’implicita critica mossa dal regista alla società russa attuale, allontanatasi dalla sua tradizione cristiana.

Alessandro Cortese

One Child Nation-Documentario (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

One Child Nation-Documentario (Newsletter n.13 gennaio – febbraio 2022)

Paese: USA – Durata: 85 minuti – Regia:  Nanfu Wang, Lynn Zhang

Questo è uno di quei docufilm che vale la pena vedere, anche se ancora solo in inglese, sottotitolato in italiano. La fruibilità è però garantita dalla disponibilità su Prime Video, piattaforma molto utilizzata.

L’autrice e regista, Nanfu Wang, è una donna cinese nata nella provincia di Jiangxi nel 1985; Nanfu si trasferisce per gli studi universitari negli Stati Uniti. Qui rimane, si sposa e ha il primo figlio. Solo allora si ricorda di come la sua infanzia fosse stata diversa, si rende conto di tante piccole cose che non tornano, come la vergogna di dire che aveva un fratello minore, cosa permessa dalla legge (dopo 5 anni dalla prima gravidanza, solo per le popolazioni di alcune zone rurali), ma non socialmente degna di lode e accettazione. 

Anche il suo nome è significativo: Nanfu significa “Maschio pilastro della famiglia”, nome che, dato ad una bambina, dice molto dei desideri della famiglia. E a lei è andata bene: nel suo paese c’è chi si chiama “Speriamo che il prossimo sia maschio”! Il figlio maschio, infatti, in Cina assicura un aiuto ai genitori anche in età avanzata; la femmina, invece, una volta sposata, diviene “proprietà” della famiglia del marito.

Dall’introduzione del divieto di avere più figli, la nascita di una bambina è divenuta una vera e propria disgrazia. La cosiddetta “Legge del figlio unico” è stata introdotta in Cina nel 1979 e aveva lo scopo dichiarato di assicurare il benessere del popolo cinese, benessere che necessitava di una diminuzione drastica del numero di figli per famiglia.

Per ottenere ciò il governo cinese non si è fatto scrupoli: si è partiti con una propaganda assillante con tutti i mezzi di comunicazione (“Meno figli per una vita felice”) e si è arrivati ad arruolare schiere di giovani medici che, di villaggio in villaggio, hanno portato sterilizzazioni forzate, aborti e infanticidi.

Aborto e infanticidio vennero e vengono tuttora perpetrati, a onor del vero, anche ad opera degli stessi familiari, altrimenti costretti a veder distrutte le loro case; e spesso le vittime sono le figlie femmine.

Di queste cose ne abbiamo forse già sentito parlare; ogni anno, affrontando in matematica il tema dei rapporti e le proporzioni, io mi soffermo con gli alunni di seconda sul rapporto numerico maschi/femmine di età 15-24 anni in Italia, nel Mondo e in Cina. In Italia è 1,00; nel mondo 1,07; in Cina 1,16. Questi numeri decimali, di primo impatto, non dicono nulla. Risultano già più comprensibili esprimendoli in modo diverso: in Italia, nella fascia d’età succitata, si hanno 100 maschi ogni 100 femmine; in Cina ci sono 116 ragazzi ogni 100 ragazze. L’innaturale squilibrio si traduce in tensioni sociali enormi, cui il governo cerca di porre rimedio vietando di conoscere il sesso del nascituro e gli aborti selettivi, ma la cosa non si sta risolvendo.

Ciò che stupisce dal documentario, è come la propaganda e l’imposizione siano riuscite a manipolare la mente della popolazione, al cui interno troviamo pochissime menti lucide che hanno compreso e che condannano la barbarie cui sono stati sottoposti; tra tutti, commovente è la testimonianza di un artista che ha iniziato a rappresentare nelle sue opere le decine di feti abortiti al termine della gravidanza, gettati nelle discariche come rifiuti biologici e quello dell’ostetrica che oggi, per espiare le sue colpe, aiuta le coppie con problemi di fertilità ad avere una gravidanza. Molti però sono gli osservatori che accettano e si nascondono dietro il “non avevamo e non abbiamo scelta, la politica era molto severa ma necessaria”, frase ripetuta tale e quale dagli stessi familiari dell’autrice. Alcuni infine, pochi, si dicono orgogliosi di aver praticato centinaia di migliaia di sterilizzazioni forzate e aborti (raccapricciante l’intervista ad una ginecologa che rideva di come una mamma, per salvare il suo bambino ancora in grembo, fuggiva nuda con il pancione, illudendosi di salvarsi dai soldati che la inseguivano).

Le immagini, ma soprattutto i contenuti, rendono il documentario vietato ai minori; ma credo sia prezioso per noi educatori aprire gli occhi ed informarci su realtà che non sono appartenenti al recente passato, ma al presente: nel 2015 c’è stato un cambio di rotta, dovuto all’evidenza che, con un solo figlio, i giovani sono troppo pochi e non possono farsi carico della grande quantità di anziani. Il governo ha quindi deciso che la felicità si ottiene con due figli: la sostanza non cambia, e neppure la forma!

Miriam Dal Bosco

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Paese: USA – Durata: 109 minuti – Regia: Chuck Konzelman, Cary Solomon

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON: tradotto in italiano significa “non pianificato”, e così è stata anche la mia scelta improvvisata di rispondere ad un invito per un’anteprima al cinema.

Un film che ti rimane “dentro”, che ti interroga, ti fa sussultare intimamente e commuovere per il grande Dono della Vita. Alla fine della proiezione ho pensato immediatamente al volto dei miei bambini e mi sono detta: “Se sono qui su questa poltroncina di teatro è perché Qualcuno mi Ama, mi ha custodito e mi custodisce, anche se io non ne sono cosciente”.

Il film racconta la vita di Abby Jonson, giovane donna americana che sin dalla giovinezza si batte per i diritti delle donne. Ai tempi del college si lascia ammaliare dalle feste giovanili, dallo sballo e s’innamora di un ragazzo più grande di lei con cui intrattiene rapporti sessuali occasionali. Quando scopre di essere incinta, senza averlo “pianificato”, viene assalita dal timore di dover rivelare il tutto ai suoi ignari genitori, che sicuramente non avrebbero approvato questo suo stile di vita. Si lascia consigliare dal ragazzo e padre del bambino che subito le suggerisce di abortire tramite un’agenzia apposita. Viene lasciata sola nella scelta e nella rielaborazione e il tutto si traduce in un’operazione fredda e alienante che la riduce ad uno zombie svuotato che a malapena ricorda ciò che è accaduto.

Dopo qualche mese decide di presentare il ragazzo ai genitori per potersi unire in matrimonio. I familiari non lo trovano la persona giusta, ma lasciano a lei la libertà di scegliere e così si celebrano le nozze.
Il matrimonio non si traduce in un cammino felice e, dopo un periodo di tensioni e tradimenti, si arriva al divorzio. Abby si accorge però di essere incinta proprio di quell’uomo con cui non vuole più avere niente a che fare e ancora una volta, in solitudine e disorientamento, si rivolge alla clinica Planned Parenthood che, con disinvoltura, la consiglia per un aborto chimico, caldamente raccomandato come veloce, indolore ed efficace.In realtà si rivelerà dolorosissimo, lunghissimo e la convincerà di essere sul punto di morire. Si risveglierà infatti dopo ore di travaglio sul pavimento insanguinato del bagno di casa, stravolta e dolorante per diverse settimane. Sempre sola.
Nonostante queste esperienze che la segneranno per sempre e di cui non parlerà ai familiari, Abby vuole battersi per la libertà riproduttiva della donna, pensando che così facendo si possano ridurre gli aborti, attraverso campagne d’informazione e sensibilizzazione. Diventa dapprima una volontaria della clinica Planned Parenthood e, in breve tempo, la più giovane direttrice della principale clinica abortiva del Texas.

“Gli esperti concordano che in questo stadio il feto non sente nulla” queste le parole rassicuranti di Abby per indurre le pazienti ad abortire in tranquillità, per ricominciare la quotidianità senza pensieri.
Saranno però degli incontri a porre le basi per una conversione totale.
In primis i suoi genitori non approvano questo suo lavoro, questa sua passione e il suo totale coinvolgimento e pregano affinché lei possa cambiare idee e licenziarsi; così come il secondo marito che, amandola profondamente, le esprime tutte le sue perplessità, obiezioni e principi. La lascia però sempre libera di decidere, anche quando Abby scopre di essere felicemente in dolce attesa, nonostante non sia stato “pianificato”.

Un altro incontro decisivo sarà con i giovani attivisti pro-life che con dolcezza e costanza la seguono giornalmente fuori dalla clinica per pregare e dissuadere le donne a non abortire.
Infine, non per importanza, avverrà il riavvicinamento a Dio nella preghiera familiare. Da direttrice avrebbe voluto cambiare in meglio la clinica, ma gradualmente inizia a rendersi conto che la libertà che lei voleva difendere era un inganno per donne spaventate, sole e ignare.

Inaspettatamente un giorno le viene chiesto di assistere il chirurgo per un aborto guidato e ciò a cui assiste attraverso un ecografo la renderà cosciente di ciò che è la straziante realtà di un aborto nel grembo materno. Quello che vede cambia la sua vita per sempre, le fa spalancare gli occhi, dandole la forza e il coraggio per intraprendere una delle battaglie più importanti del nostro tempo.

E’ un film che svela i sottili inganni che una comunicazione appositamente studiata può portare, giustificando l’uccisione di un piccolo essere umano innocente nel luogo che lui ritiene il più sicuro e protetto al mondo: il grembo della sua mamma.
E’ un film che porta speranza lì dove il male sembra invincibile tanto è potente, organizzato e radicato, ma che la preghiera e l’amore disinteressato dei semplici smonta in modi che “non abbiamo pianificato”.
La libertà che Abby reclama per sé e crede non venga capita e concessa dai propri familiari ed amici, in realtà nella storia si rivela una falsa libertà, perché disgiunta dal bene, come quella propagandata dalla clinica che, in realtà, fa di tutto per spingere le donne ad abortire a scopo ideologico e di lucro. La vera libertà è quella che il marito e i genitori insegnano ad Abby, amandola sempre e comunque disinteressatamente, ma accompagnandola ad aprire gli occhi al bene, alla vita e alla verità.
“Unplanned” racconta una storia vera che merita di essere raccontata, ascoltata e meditata.

Gemma Dal Bosco

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Paese: Usa (2009)  – Durata: 90 minuti – Regia: Thomas Carter

Recensione 

Ho proposto la visione del film “Gifted Hands-Il dono” ai ragazzi di III media a conclusione dell’argomento “Il Sistema Nervoso” trattato in scienze a scuola.

Il film racconta, infatti, la storia vera del neurochirurgo Ben Carson, medico tuttora in vita, che per primo riuscì a separare chirurgicamente due gemelli siamesi uniti nella parte posteriore della testa; l’intervento è entrato nella storia della chirurgia per la complessità (22 ore in sala operatoria e 19 chirurghi, oltre a decine di infermiere e tecnici) e il buon esito.

Lo stupore e l’ammirazione che Carson dimostra per il miracolo che è il cervello umano è stato il primo aspetto che ho voluto evidenziare ai miei studenti; ma gli spunti di riflessione di cui è dotato questo film sono davvero numerosi e importanti.

Ben Carson non nasce “bambino prodigio”, anzi. La sua vita scolastica inizia con diversi insuccessi, in parte dovuti a svantaggi familiari (Ben appartiene ad una famiglia povera, senza padre e con una mamma determinata ma analfabeta), in parte alla pigrizia del ragazzo (splendida la scena in cui la mamma spegne il televisore e impone ai figli di spendere il tempo in biblioteca o ad imparare le tabelline).

La madre accompagna Ben nel cammino faticoso dell’impegno, della modifica del proprio carattere, della rinuncia ai capricci per raggiungere obiettivi ambiziosi.

Non manca poi il riferimento al valore della vita e all’importanza della Fede per poter superare momenti di crisi e difficoltà.

Infine, molto interessante per noi insegnanti, la pellicola sottolinea l’importanza della passione che i docenti possono trasmettere agli studenti: il giovane Ben sceglie Medicina per l’interesse che il suo professore di scienze suscita in lui nei confronti del mondo visibile solo al microscopio.

Un film di valore e di valori!

Miriam Dal Bosco

N. Io e Napoleone – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

N. Io e Napoleone – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Paese: Italia, Francia, Spagna (2006)  – Durata: 110 minuti – Regia: Paolo Virzì

Recensione 

Tra i numerosi film su Napoleone, N. (Io e Napoleone) si segnala non per essere l’ennesima trasposizione cinematografica delle imprese militari del geniale comandante, ma per essere un tentativo di cogliere il lato intimo e privato dell’uomo.

Liberamente ispirato al romanzo N. di Ernesto Ferrero, Premio Strega 2000, il film è ambientato sull’Isola d’Elba, durante il primo esilio di Napoleone. Il protagonista è un giovane maestro elementare, Martino Papucci, infervorato dagli ideali di libertà, che nutre verso il Corso un grande desiderio di vendetta per le molti morti causate dalle sue campagne militari, e che vuole approfittare della sua presenza sull’isola per ucciderlo. Tale proposito lo ossessiona a tal punto da fargli trascurare completamente il lavoro nell’impresa di famiglia. Egli non condivide il grande entusiasmo suscitato negli abitanti dell’isola per l’arrivo di un così celebre ospite, che, al contrario considera un tiranno, come non apprezza il servilismo mostrato dalle autorità civili.

Il destino vuole che Napoleone abbia bisogno di un bibliotecario e scrivano personale, che stia a stretto contatto con lui per raccoglierne i pensieri e le riflessioni. Martino viene scelto per questo compito, avendo in tal modo l’occasione di ricevere le confidenze e i ricordi personali dell’uomo che ha fatto tremare l’Europa.

Egli ha modo così di incontrare Napoleone nella parte finale e meno gloriosa della sua parabola esistenziale, e di conoscerne il lato più privato e personale, scoprendo con sorpresa gli aspetti di debolezza e fragilità. Come quando in un’accesa discussione il giovane gli rinfaccia, quantificandole, le numerose vite sacrificate in nome della sua ambizione, e ricevendo dal generale, visibilmente addolorato, la risposta di non aumentare il suo dolore con l’aritmetica.

La frequentazione fra i due provoca un cambiamento nello sguardo che Martino ha su Napoleone, e per questo i tentativi messi in atto per assassinarlo, non risultando molto decisi, falliscono. Il rapporto tra il protagonista e Napoleone è la parte sicuramente più interessante e riuscita del film. Sebbene si trovi di fronte un uomo sconfitto, Martino non può non subire il fascino magnetico di quell’uomo, che prima di lui aveva entusiasmato masse intere; e a questo riguardo il Napoleone del film si pone questa domanda: “È Napoleone che ha scelto le moltitudini o sono le moltitudini che hanno scelto Napoleone?”.

La frequentazione alla fine si interrompe bruscamente con la fuga dall’isola e il ritorno in Francia con i cento giorni terminati sulle colline di Waterloo. Come la storia ci insegna, il Napoleone autentico che fa i conti con la storia della sua vita, che è emerso nel film, lo si vedrà soprattutto nel secondo e definitivo esilio, dove tra l’altro si riavvicinò alla fede, come testimonia il memoriale di Sant’Elena.

Alessandro Cortese

L’uomo senza volto – (Newsletter n.9 aprile 2021)

L’uomo senza volto – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Paese: USA – Durata: 114 minuti – Regia: Mel Gibson

Recensione 

Un ragazzino sogna di essere celebrato come eroe dall’accademia militare e dai membri della sua famiglia, il suo punto di riferimento è John Wayne, ma il suo bisogno più grande è quello di colmare il vuoto di una figura paterna assente.

Tra il 12enne Chuck Norstadt e l’insegnante Justin McLeod (Mel Gibson) nasce un legame di amicizia che per entrambi costituisce la trama di un percorso di crescita personale; Chuck cerca un padre/guida per fuggire la mediocrità di un contesto familiare in cui non riesce a trovare un suo spazio, Justin, rimasto sfigurato dopo un grave incidente, prova ad autopunirsi rifugiandosi in una vita solitaria fatta di musica, scultura, pittura e poesia. 
L’uomo senza volto rivela quasi subito la natura ambivalente di un ‘eroe’ diviso tra zone oscure e obblighi morali; natura che si rispecchia in un viso per metà perfetto e per metà devastato dalle cicatrici di gravissime ustioni e rimanda al personaggio Due Facce della serie di fumetti Batman.

L’arrivo di Charles porta una ventata d’aria fresca nella vita tormentata del professore; con lui può tornare ad insegnare, ma non solo: torna a parlare, a sorridere, a scherzare, a confortare… ad amare; nonostante il pregiudizio delle persone che li circondano che non riescono ad andare oltre l’apparire e non colgono la bellezza che traspare dalla relazione tra il professore e il ragazzo. La colpa di cui il professor Mc Leod viene accusato è quella di amare il suo alunno, di amarlo come un vero padre, come quel padre che Charles non ha mai avuto accanto, di abbracciarlo con l’innocente speranza di un semplice conforto.
Impara o vattene, è il motto un po’ sbrigativo del processo educativo di Justin e Chuck, spinto da un forte desiderio di conoscenza, vince la repulsione iniziale per la deformità corporea e dei modi poco ortodossi del maestro, per progredire in un percorso di conoscenza, ma soprattutto di scoperta di sé. Il filo conduttore della loro relazione è l’impostazione di un educazione “al maschile” l’incentivo a cogliere la sfida e la necessità di porsi sempre obiettivi ambiziosi. Chuck proclama la sua voglia di cambiare il sistema e il desiderio di staccarsi in volo da terra per vedere le cose dalla giusta prospettiva (bellissima la scena del volo con il piccolo aeroplano sospeso sopra le acque dell’Atlantico).
In una società bigotta che finge di essere rivoluzionaria per poi fermarsi alla superficie della verità e osservare solo una parte del volto, l’amicizia tra Chuck e Justin resiste alla maldicenza e alla illazione e rivela la tristezza di un mondo che, se trasformato in palcoscenico, costringe ognuno a recitare una parte, a discapito della scoperta di sè.

L’uomo senza volto può essere definito un racconto di formazione che esalta il tema dell’amicizia senza mai cadere nel retorico, ma soprattutto fa riscoprire la bellezza dell’insegnamento in cui l’adulto, l’insegnante, affianca e guida il ragazzo nel suo percorso crescita, con il desiderio di portarlo alla scoperta di sé e dei propri talenti.
Il finale riprende i cappelli lanciati in aria del sogno di Chuck nel prologo: oltre il muro di folla, il saluto di Justin, del maestro all’allievo, è un messaggio di incoraggiamento e speranza di chi ha percorso un tratto di strada al suo fianco e ora è pronto a farsi da parte per lasciarlo entrare nell’età adulta.

Francesca Guglielmi