La crepa e la luce – Sulla strada del perdono la mia storia (Newsletter n.21 marzo – aprile 2024)
Intervista a Gemma Calabresi Limite
Filippo Peschiera
Intervista a Gemma Calabresi Limite
Filippo Peschiera
Gemma Calabresi Milite – marzo 2022
Questo libro ci consegna un’esperienza, o meglio, la storia di un viaggio.
Più di cinquant’anni fa, il 17 maggio del 1972, veniva assassinato, innocente, il Commissario Luigi Calabresi e queste pagine ripercorrono la vicenda dal punto di vista della moglie che gli è sempre stata accanto, vedova a venticinque anni con due figli piccoli e uno in attesa.
Gemma Calabresi, divenuta vittima della Storia e del terrorismo nell’Italia degli anni di piombo, con “La crepa e la luce” ci regala un memoir prezioso, un libro straordinario, pieno di umanità, un’intensa testimonianza che ci aiuta a comprendere come, anche dopo un dolore lacerante, dopo il tradimento e la calunnia si può ancora tornare a credere negli altri e ad amare la vita.
Nel susseguirsi di pagine, essenziali per qualsiasi italiano e per qualsiasi cristiano, la ‘crepa’ si allarga sempre di più e fa passare sempre più ‘luce’, quella luce della fede che aiuta l’autrice a riguardare il volto delle persone che fino a poco tempo prima fantasticava di poter uccidere.
Ma il perdono non è un atto, un gesto, è una strada, un percorso faticoso, pieno di sofferenza, anche di passi indietro a volte, prima di giungere alla pacificazione.
Come cristiana, fin da subito, Gemma Calabresi, avrebbe voluto perdonare e, con il suo esempio, permettere ai propri figli di credere ancora negli altri, allontanandoli dall’odio e dal rancore, ma le bastava un articolo di giornale, un reportage televisivo, una scritta che tornava sui muri e lei si sentiva di nuovo scivolare indietro e farsi prendere ‘dalla rabbia sorda che divora’.
La speranza però non la lasciò mai e, a piccoli passi, giunse alla consapevolezza che il perdono non si dà con l’intelligenza, ma con il cuore e che non è cosa di un momento, ma una conquista a cui dedicarsi completamente.
Gli assassini di suo marito avevano disumanizzato Luigi Calabresi con gli slogan, gli articoli di giornale o le scritte sui muri, riducendolo a un simbolo da abbattere , lei invece poco alla volta, si impegnò a “staccare le figure dei suoi assassini dall’album della storia e metterle nella vita, nel mondo, nelle relazioni con gli altri”, a dare loro un volto umano chiedendo a Dio, prima che a se stessa, di ‘perdonar loro’.
Il libro di Gemma Calabresi parla alla sensibilità e al cuore di ognuno di noi.
C’è la crepa, ma c’è soprattutto moltissima luce, a cominciare dalla luce meravigliosa del primo incontro fra Gemma e Luigi Calabresi più di cinquant’anni fa.
Grazia Berra Dal Corso
Il contesto storico che fa da sfondo e da motore dei fatti è quello dell’Europa divisa dalla “cortina di ferro”: NATO da una parte e i paesi del Patto di Varsavia dall’altro. La guerra fredda proiettava il sospetto e il timore sulla popolazione, con il rischio di vere e proprie rivalse della potenza egemone, come accaduto in Ungheria e in Cecoslovacchia. Il 1968 vide nascere i movimenti di protesta nel mondo studentesco e operaio. Vi furono duri scontri e con il nuovo anno le proteste non cessarono bensì si intensificarono. Il 1969 fu l’anno dell’allunaggio, della protesta di Stonewall, di Arafat presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, del nuovo messale cattolico e del nuovo rito della messa, delle dimissioni di De Gaulle da Presidente della Repubblica Francese, dell’inizio del regime di Gheddafi in Libia, della creazione di ARPANET antenato dell’odierna Internet, del festival di Woodstock. Il 1969 fu l’anno del repubblicano Nixon presidente degli Stati Uniti, quindi dell’inizio dell’avvicinamento degli USA alla Cina.
L’Italia era uno Stato di frontiera per la sua vicinanza geografica ai paesi comunisti che la rendeva “ago della bilancia” in Europa: aveva una posizione strategica nel Mediterraneo, mentre Spagna, Portogallo e Grecia avevano un governo autoritario il nostro era un paese che era uscito dilaniato da una guerra civile, che sembrava non essere mai davvero finita. Aveva ricevuto importanti aiuti grazie al Piano Marshall, ma viveva in un contesto democratico dove vi era una parziale limitazione della sovranità del paese, proprio per il suo ruolo delicato negli equilibri della guerra fredda.
Trattandosi di una guerra non ortodossa, occorreva accertarsi che gli italiani fossero pronti a respingere le forze del Patto di Varsavia ipoteticamente appoggiate dai comunisti già presenti nella penisola. A questo scopo era stata creata l’operazione Gladio gestita dagli Alleati e dai servizi segreti per addestrare civili. I partecipanti dovevano mantenere la segretezza, partecipare alle esercitazioni e restare pronti alla chiamata alle armi. Gladio non era nota al parlamento e quindi estranea al controllo statale, ciò poteva lasciare la porta aperta ad azioni criminose dovute al possesso di armi o conoscenze che normalmente i civili non dovrebbero possedere, sia per l’uso di esplosivi che per il rifornimento di materiale a uso bellico. Vi era un’altra organizzazione parallela, clandestina e non ufficiale, atta sia ad armare e ad addestrare i civili sia a coinvolgere parte dell’esercito: i Nuclei di difesa dello Stato.
Vi fu anche il piano demagnetize, con lo scopo di condizionare l’opinione pubblica. Con il supporto della CIA furono realizzati veri e propri schedari di persone, colmi di particolari della vita privata, relazioni, famiglia, frequentazioni e interessi, e ciò divenne uno strumento di ricatto per coloro che intralciavano la stabilizzazione dell’opinione pubblica sull’area moderata.
La principale forza di governo, la Democrazia Cristiana, al suo interno presentava diverse correnti ed era concreta la possibilità che stringesse accordi con forze sempre più a sinistra. Occorreva un piano di emergenza da attuare qualora forze troppo a sinistra fossero in procinto di occupare posizioni di potere o stessero ordendo un complotto per ottenerlo. A questo scopo nacque il piano SOLO che prevedeva che l’arma dei Carabinieri dovesse prendere possesso delle sedi del governo e dei media in caso di emergenza, reale o presunta. Inoltre, dovevano irrompere nelle sedi dei partiti e dei loro giornali e arrestare i personaggi schedati dall’operazione demagnetize.
Riportando le parole del memoriale di Aldo Moro: Affluivano per un certo numero di anni gli aiuti della Cia, finalizzati a una auspicata omogeneità della politica interna ed estera italiana e americana. Francamente bisogna dire […] che non è questo un bel modo, un modo dignitoso di armonizzare le proprie politiche. Perché quando ciò, per una qualche ragione è bene che avvenga, deve avvenire in libertà, per autentica convinzione, al di fuori di ogni condizionamento. E invece qui si ha un brutale do ut des. Ti do questo denaro, perché tu faccia questa politica.
La figura di Aldo Moro si inserisce in questo particolare contesto a causa delle sue posizioni sia nella politica nazionale che internazionale. Al suo nome è legata l’apertura verso sinistra della DC, e sempre lui volle trovare alternative alle “sette sorelle” del petrolio, le maggiori compagnie americane e inglesi. Mattei, incaricato di smantellare ENI l’aveva trasformata in una azienda stabile e attiva. Morì in circostanze poco chiare. Chi indagò sulla sua morte morì in circostanze poco chiare. Pasolini scriveva “Petrolio” e morì in circostanze poco chiare. Rino Gaetano cantava con riferimenti alla politica, a Cefis, a Mattei, e morì in circostanze poco chiare. Moro non fece eccezione, le forze in gioco erano tante e le trame si intrecciavano tra politica nazionale, malavita organizzata, massoneria, interessi territoriali del mondo arabo ed interessi economici degli USA.
Quello che avvenne in quegli anni è chiamato “strategia della tensione”. La strategia consisteva nell’alimentare la paura per mantenere un assetto politico stabile, atlantista e controllabile. Gli attentati avevano lo scopo di spostare ulteriormente l’opinione pubblica su posizioni di diffidenza verso certi partiti, accusandoli di complicità con i terroristi e di interessi criminosi, in un crescendo di violenza sempre più dura. L’interesse principale delle forze di destra impiegate nella realizzazione di questi atti terroristici era la dichiarazione dello stato d’emergenza per una svolta autoritaria.
Esisteva già una rete composta da persone in carne ed ossa che collaboravano, passavano informazioni e le ricevevano, anche a livello internazionale. Le collaborazioni tra i movimenti della destra eversiva e i servizi segreti passavano per l’Aginter Press che fungeva da copertura a un’associazione della destra eversiva di stampo internazionale, una fitta rete informativa e ideologica. Il Sid e l’UAAR coordinavano le comunicazioni e le operazioni tra le parti.
Per molte persone la percezione di quegli anni è lacunosa: si tratta di un periodo di cui si hanno ricordi confusi prevalentemente appresi dalle trasmissioni televisive. Le operazioni delle Brigate Rosse hanno messo in ombra alcune azioni di altri gruppi e organizzazioni operanti prima e dopo la nascita delle BR.
Per un periodo la strategia aveva ottenuto l’effetto inverso di quello desiderato vedendo il successo del Partito comunista e per il suo raggiungimento di un accordo programmatico che portò a un appoggio esterno al governo guidato da Giulio Andreotti.
La bomba in Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 era stata preceduta da alcuni eventi significativi il cui nome per molti non suscita nessun ricordo o immagine. Eppure, il tentativo di colpo di stato del dicembre del 1970, noto come Golpe Borghese, che per anni si disse che non fosse mai avvenuto, poteva cambiare radicalmente l’assetto politico del nostro paese. Vi furono l’attentato di Peteano, la bomba alla questura di Milano e quella sul treno Italicus. Con il passare degli anni sono state dimenticate da molti o bollate come complottismo le azioni della loggia P2, la Rosa dei Venti e il “golpe bianco” del 1974, creando un vuoto importante nella comprensione di anni cruciali della storia della nostra Repubblica. Infine, con la strage della stazione di Bologna si chiuse il capitolo aperto con Piazza Fontana noto come “anni di piombo”, in cui il linguaggio della politica era quello della lotta armata, delle trame occulte e dei depistaggi, dove organizzazioni di militanti diventavano strumento più o meno consapevole per operazioni di più grande portata, attraverso i media, i ricatti, i processi.
È bene mantenere viva la memoria di quegli anni, non interrompendo la ricerca, anche se la rotta passa per il mare in tempesta dei depistaggi e delle trame nascoste. Lo storico ha il compito di provare ad arrivare ad una meta che talvolta per i tribunali è stata resa irraggiungibile: la verità
Pietro Beccherle
Sintesi non rivista dall’autore.
A volte mi chiedono per quale motivo negli anni ‘70 sono nati gli anni di piombo, come mai sono nati gruppi come i nostri, che, come si diceva allora, volevano fare la rivoluzione, rovesciare il sistema di potere.
Partiamo da più indietro. Dalla metà del secolo XIX si sviluppa, in seguito all’industrializzazione, la classe operaia. La società si stava polarizzando tra grandi proprietari dei mezzi di produzione e i lavoratori sfruttati, in un rapporto di uno a mille. Di fronte a questi fenomeni sociali, una teoria si è fatta strada tra le tante, il marxismo. Marx ha creduto di trovare di quella situazione una spiegazione economica e una lettura storica. Di fronte a un dato obiettivo, la povertà di gran parte della popolazione e l’arricchimento di una piccola parte, l’idea che egli affermò è che questa situazione non sarebbe potuta durare, e che si sarebbe dovuti arrivare a un rovesciamento di potere. Nessuna teoria, credo, ha avuto tanti seguaci come il marxismo.
Nel 1917 uno dei più grandi paesi del mondo ha fatto la rivoluzione, la Russia. Nel 1948 la Cina, guidata da un partito che si ispirava al marxismo, ha fatto la rivoluzione. Quando i ragazzi della mia generazione si guardavano attorno sapevano che due grossi paesi avevano fatto la rivoluzione. Nella lotta antifascista c’erano tendenze diverse, ma una tendenza importante era quella che si richiamava al comunismo, che considerava il fascismo una parentesi nella storia dell’Italia, e che una volta liberato il campo dal fascismo, dopo la guerra e la Liberazione, si sarebbe proseguiti con la rivoluzione.
Un altro dato importante era che quelli come me e i miei compagni avevano una grande sensibilità per gli aspetti sociali, sarà che le nostre famiglie venivano dalla sofferenza della guerra e dalla miseria, sarà che nel mondo cattolico si stava facendo strada un’attenzione ai problemi sociali su scala mondiale, noi vedevamo nella nostra Italia delle ingiustizie diffuse. Consapevoli che la maggior parte dei lavoratori era sottoposta alla condizione di sfruttamento. Eravamo anche sensibili all’autoritarismo, per via del quale non c’era partecipazione. Stati Uniti e Unione Sovietica si erano divise l‘Europa in due parti, di qua o di là. E chi era di là rimaneva dov’era, senza poter cambiare la situazione. La linea di demarcazione attraversava la Germania. Le mie prime manifestazioni riguardavano Trieste, perché diventasse italiana. Il PCI si trovò questa situazione e bloccò le possibilità di prosecuzione della rivoluzione. Probabilmente c’era anche chi al suo interno riteneva che andare allo scontro sarebbe stata una catastrofe. Allora si elaborò la dottrina della via italiana al socialismo, attraverso il voto, il consenso. Un altro fattore importante è stata la guerra del Vietnam, combattuta fuori dal loro territorio e contrastata dagli studenti americani stessi. Noi vivevamo questo come la prova della profonda ingiustizia del sistema occidentale. Di fronte a questo giovani di area cattolica e no, Insoddisfatti della politica dei partiti parlamentari, dotati di sensibilità, si sono sentiti coinvolti, e a questi è capitato l’incontro con la filosofia marxista. Eravamo convinti che la rivoluzione fosse inevitabile e la maggioranza della popolazione ci avrebbe seguito. Riconosco che anche dall’altra parte, tra molti membri dei gruppi di estrema destra, c’erano idealisti quanto noi. Ingenuità e buona fede c’erano da entrambe le parti. Al di là delle idee sbagliate c’era in noi l’interesse per le sorti del mondo e la voglia di capirne sempre di più e di confrontarsi, questa sono cose che cerco di conservare.
Il passaggio successivo fu quello della formazione di gruppi extra parlamentari, p. es. Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta comunista. Erano gruppi la cui violenza all’inizio si limitava a degli scontri in piazza, tra gruppi opposti e tra gruppi e squadre di polizia.
Il passaggio successivo fu il passaggio da gruppi legali o semi legali a dei sottogruppi illegali, in cui si cominciò a imparare a sparare, usare esplosivi, rubare automobili. A Milano, che era il cuore della lotta di classe, si formarono i primi gruppi che si organizzano per colpire persone e cose e ottenere consensi. Il gruppo più grosso sono state le Brigate Rosse. In pochi anni la logica della Brigate Rosse ha portato all’uccisione di decine di persone.
Quello che mi chiedo ancora: come siamo arrivati a decidere che poteva essere sacrificata la vita nostra e soprattutto di altri in nome di un’idea che noi ponevamo come il nostro scopo e senso? Il vizio di fondo era non ritenere che l’altro può avere anche fatto tutto il male del mondo ma è una persona che porta la mia stessa dignità e la sua vita ha un valore che non dipende da un mio giudizio, c’è e basta. Il concetto di umanità disponibile significa considerare l’altro disponibile a ciò che io mi pongo come fine, non considerando la dignità e l’umanità di ogni altra persona. Questo può essere una definizione di ideologia. Il nostro vizio di origine è stato quello di non aver considerato attentamente la dignità della vita dell’altro. Da lì a cascata sono arrivati i gruppi che dicevano di poter ammazzare della gente per perseguire la loro causa. Mettere davanti a tutto il proprio obiettivo.
Nel giro di qualche anno, dalla metà alla fine degli anni 70, era quasi tutto finito. Durò pochi anni perché l’ipotesi di base è che noi saremmo andati avanti e la gente avrebbe riconosciuto che avevamo ragione. Viceversa, nessuno ci ha seguiti. Eravamo alcune migliaia di persone, un numero non significativo rapportato al numero di giovani che non sono stati coinvolti. Venivamo visti per di più come dei nemici pubblici, gente che stava facendo disastri.
Per difendersi da questo, lo Stato ha puntato all’annientamento di tutti noi, con sistemi carcerari oppressivi, e dal punto di vista giudiziario con condanne basate su prove esili. Era un sistema che ci riconosceva come nemici assoluti contro i quali l’unica azione era quella di schiacciarci. Il risultato era in noi una rabbia e un rancore, e una solidarietà verso quelli che erano in carcere, e un prolungamento della lotta armata di qualche anno. Dal 1978 ai primi anni ’80, infatti, gli attentati furono tutti non più per il potere ma contro il sistema carcerario e giudiziario, a favore dei compagni nostri tenuti in quelle condizioni.
Successivamente si è aperto un secondo periodo, quello della dissociazione e della ricerca di un senso diverso della vita. Però anche da parte di altri, di quelli che consideravamo nemici, anche una fornitura di strumenti culturali in carcere. Inoltre, rappresentanze della società civile, intellettuali, parlamentari, si dimostrarono interessati alle nostre vicende. La nostra cantonata è stata anche un’esperienza da cui provare a ricavare qualcosa di buono e non solo un senso di desolazione e di sbaglio irrecuperabile. Gli esempi sarebbero tantissimi. Ne accenno uno. Un terreno di ricerca sono state le sacre Scritture. Capivo che i nostri problemi non erano così nuovi ma i problemi di sempre della storia. C’era stato l’attentato contro Giovanni Paolo II, commesso da Alì Agca, che si ritrovò in carcere a Rebibbia, dove mi trovavo anch’io. Il papa visitò Rebibbia e annunciò il suo perdono per Alì Agca. Malgrado quello che aveva fatto, non aveva nessun rancore contro di lui. Poi il papa rivolse un indirizzo di saluto a tutti noi, ed era il periodo in cui il sistema negava la nostra umanità. Il papa si rivolgeva a noi e anche agli altri detenuti manifestando come prima cosa la stima per la nostra persona e la nostra dignità. I giudici ci dicono che dobbiamo essere schiacciati per sempre in una cella e il papa ci dice che ha stima della nostra dignità. E poi la fiducia nella realtà che ogni persona, proprio perché è persona, ha dentro di sé soffocata o non soffocata una coscienza che le può indicare cosa può fare o no. Io l’ho considerata come la lezione più importante della mia vita, guardare in chiunque altro non il suo passato, e meno che meno giudicarlo per quello, ma dire che cosa può diventare. Portare il perdono vuol dire chiedersi come posso aiutarti a diventare altro dal male che hai fatto, come posso aiutarti ad adoperare le tue risorse e la tua esperienza per costruire qualcosa di buono. Quando mi sono occupato successivamente di tossicodipendenza e poi professionalmente di persone con vicende penali, me la sono tenuta come la lezione più cara. Cosa ogni persona potrebbe diventare, e cosa dipende da me, dal tipo di relazione che stabilisco con lui. E mi fa piacere che altri compagni di un tempo abbiano fatto la stessa mia strada. Vuol dire che da queste esperienze si può anche ricavare qualcosa di buono.
Alessandro Cortese
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Venerdì 19 aprile 2024 presso Sala Cavalieri di Palazzo Ridolfi (succursale Liceo C.Montanari) si è svolto l’incontro destinato ad insegnanti e studenti con Arrigo Cavallina
Link per rivedere il video dell’incontro: https://youtu.be/-ryloIWOCzE