Cosa è cambiato nello sport?  – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Cosa è cambiato nello sport? – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Nonostante non sia sempre sulle prime pagine, uno delle vittime illustri di questo periodo di pandemia è sicuramente lo sport. Come è cambiato? Quali ripercussioni potremo vedere nella società, nel breve e lungo periodo? Ne parliamo con il prof. Luca Gallizioli, docente di educazione fisica ed allenatore di calcio.

Professor Gallizioli, lei insegna da diversi anni educazione fisica alla scuola primaria e secondaria di primo grado. Essendo una materia quasi esclusivamente pratica, è stata forse la più penalizzata da questo periodo di pandemia.
Ci sono state delle difficoltà nel progettare un piano che permettesse di fare attività, pur rispettando le regole imposte dall’emergenza sanitaria? Se sì, quali sono state? E, allo stesso tempo, avete visto anche dei lati positivi o dei risvolti “inaspettati”?

L’educazione fisica purtroppo ha risentito enormemente di questa situazione legata alla pandemia proprio perché colpita all’essenza della sua natura: lo sport è socializzazione, aggregazione ma anche sfida. L’inizio non è stato facile e la programmazione didattica ha visto numerose revisioni e modifiche; la difficoltà maggiore è stata relativa alla poca chiarezza in merito alle restrizioni e a ciò che era possibile fare (banalmente anche ai luoghi che si potevano usare). Il mese di novembre ha visto addirittura la sospensione di ogni tipo di attività pratica curricolare. Quindi se dovessi pensare alla prima difficoltà direi proprio la mancanza di un protocollo chiaro ed esauriente che permettesse una programmazione sicura: si procedeva giorno per giorno, o meglio, dpcm per dpcm. L’altra difficoltà, che però ha causato meno problemi, è stata quella legata alle norme igieniche e di sanificazione. Su questo tema un grande contributo è arrivato dagli alunni che si sono fatti trovare pronti al rispetto delle regole e comprensivi delle norme da attuare.
Tornando alla didattica, queste limitazioni, hanno però dato la possibilità di affrontare in maniera più approfondita e accurata alcuni argomenti. Il dover lavorare in forma individuale ha permesso di potenziare e migliorare alcuni aspetti tecnici fondamentali che stanno alla base di tutti gli sport individuali, ma soprattutto di squadra: dal tiro al passaggio, dal palleggio alla conduzione. Il tutto strutturando lezioni che riuscissero a coinvolgere tutti i componenti della classe e per di più potendoli suddividere in livelli di apprendimento; potendo così personalizzare l’esercizio e soprattutto la difficoltà della richiesta sulle capacità oggettive di ogni singolo alunno. Una sorta di personal training.

Possiamo dire senza paura di essere smentiti che questo ultimo anno non è stato il più semplice per lo sport. Palestre, piscine e centri sportivi in generale sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire, con conseguenze pesanti sulle Società, sui collaboratori sportivi, ma soprattutto su chi frequenta questi luoghi.
Cercando di sopperire a queste mancanze, abbiamo visto fiorire le lezioni on-line, le app di fitness e altri “escamotage” che permettessero di fare attività rispettando le regole del periodo.
Anche molte società sportive, pur di garantire l’attività per i propri iscritti, hanno rivoluzionato le strutture e modificato le modalità di lavoro. È sicuramente il caso degli sport di squadra all’aperto, come ad esempio il calcio.

Parliamo quindi al “Mister”: come è cambiato il modo di allenare in questo ultimo anno? Per un giovane calciatore, questo può influire sulla sua crescita calcistica?

Possiamo dire che è stato letteralmente stravolto ma allo stesso tempo ha permesso di mettere in evidenza alcune realtà. Stravolto soprattutto per la concezione che si ha del gioco del calcio come gioco di squadra, come sfida e duello, come compagni e avversari, come vittoria e sconfitta. Da questo punto di vista allora sì che è stato stravolto: tutto questo non c’è più. Si è perso il contesto in cui il giovane calciatore formava il suo aspetto caratteriale: il coraggio, il “furore agonistico”, l’istinto, il pensiero creativo e l’iniziativa personale. Sembra impossibile ma tutto questo lo troviamo solamente nel momento del duello, nell’1vs1..e questo difficilmente lo puoi ricreare con un allenamento in forma individuale.
Dall’altra parte ha preso campo però la ricerca del perfezionamento della tecnica, (spingendosi in alcuni casi al limite di rendere il calcio uno sport per acrobati e giocolieri), la ricerca di metodi nuovi per allenare e la creatività di proporre attività che stimolino l’interesse e il divertimento dei ragazzi; il tutto per farli sentire ancora Protagonisti di questo gioco.
Se può influire nella crescita calcistica del giovane calciatore? Certamente sì. Oltre a tutto il discorso legato alla salute fisica e al benessere della persona, quest’anno di stop e sport adattato ha e avrà di sicuro le sue ripercussioni in un futuro non troppo lontano. Il rischio maggiore è il verificarsi del fenomeno del dropout, l’abbandono precoce dello sport: snaturare uno sport rischia di affievolire l’interesse in chi lo pratica e questo porta molto spesso alla scelta di abbandonarlo, proprio perché non è più quello di cui mi sono appassionato. E non meravigliamoci se poi l’interesse passa ai videogiochi o ai pc.
Un altro grande rischio è il non-confronto: si cresce solamente nel momento in cui ci si confronta con qualcuno. Solo nella situazione ho la possibilità di mettere in pratica quanto ho imparato. Siamo tutti capaci di camminare su un’asse di legno appoggiata sul pavimento, ma se la situazione cambiasse? Se quell’asse si trovasse a 10mt di altezza, sarebbe la stessa cosa? Idealmente si, lo schema motorio richiesto sarebbe identico ma è proprio il contesto che lo rende diverso. Anche l’aspetto emotivo legato al contesto (paura, rabbia, timore) va allenato..e va allenato con la pratica.
L’altro rischio è che il calcio giocato si sia fermato ma il regolamento no. Mi spiego meglio. Quello che si sta vedendo è che il calcio giocato, le competizioni, i tornei stanno vivendo un prolungato stop che ormai va avanti da più di un anno, ma la cosa che non cambia è la programmazione del settore giovanile. Da pulcini ad esordienti, da esordienti a giovanissimi, da un campo a 7 a uno 9 e poi a 11. Ovviamente prima o poi bisogna arrivare sempre a giocare in un campo grande 11vs11, ma quello che si sta perdendo è la giusta gradualità nei vari passaggi. La mancanza di poter consolidare quanto appreso anche in riferimento allo spazio e al tempo.

La scienza ci insegna che “lo sport è salute”, ma sembra che spesso questo non venga percepito e si colleghi l’attività motoria e sportiva soltanto alla volontà di assicurarsi un fisico tonico per la prova costume o all’aggregazione senza controllo in sala pesi o negli spogliatoi. Per questa concezione, forse, troviamo molti impianti chiusi e, a lungo andare, questo potrebbe avere delle conseguenze negative, soprattutto nelle categorie più fragili, come gli anziani, che trovano benefici psico fisici notevoli nell’attività motoria, e i ragazzi, ai quali viene tolto un aiuto fondamentale per una crescita sana.

Quali ripercussioni potrebbe avere questo periodo, che per molti è stato uno stop completo delle attività, nello sviluppo degli adolescenti, ma anche dei più piccoli?

Lo sport migliora l’attenzione e il funzionamento cognitivo. È un modo per stare meglio dal punto di vista fisico ma anche mentale. Insegna a stare con gli altro e a gestire le emozioni. Ma questa pandemia ha tolto ai ragazzi quest’occasione di crescita.
Bambini e ragazzi hanno bisogno di attività di movimento per la loro crescita fisica e psichica, l’interruzione quindi degli sport che stavano praticando ha modificato i loro ritmi quotidiani di vita, l’umore, il sonno, l’alimentazione. Quelli poi che si stavano allenando in vista di gare o tornei, hanno visto sfumare appuntamenti e scadenze importanti ben sapendo che non sempre è possibile recuperare. L’attività sportiva aiuta a rimanere nel momento presente, a entrare in empatia con i compagni di squadra e a fare squadra. Lo sport, inoltre, insegna a rispettare l’altro, insegna la disciplina e imparare il gioco di squadra è fondamentale perché crea il senso di comunità.

Guardiamo il lato positivo. Lei crede che gli stadi vuoti, i mondiali di sci senza pubblico, oltre a tutte le chiusure di cui abbiamo parlato prima, possano sensibilizzare le istituzioni sull’importanza dell’attività sportiva e su quanto la salute delle persone ne possa beneficiare?

Purtroppo, credo che le istituzioni non si rendano ancora conto delle grandi potenzialità e benefici che l’attività sportiva ha e che può dare alla comunità nei vari settori: educativo, economico, della salute e del benessere. Basti pensare alla mancata nomina di un ministro dello sport o ai provvedimenti che vengono presi nelle altre nazioni per l’attività fisica nelle scuole (notizia di qualche giorno fa il Ministro dell’istruzione cinese con un provvedimento chiede di adeguare i piani didattici e di porre attenzione all’educazione fisica proponendo almeno un’ora di attività fisica al giorno nelle scuole). Gli stadi vuoti e i mondiali di sci senza pubblico purtroppo penalizzano solamente le società o tutte quelle attività che fanno da contorno a questi eventi sportivi mettendo per lo più in risalto l’aspetto economico che mobilità lo sport ma non abbastanza per sensibilizzare gli aspetti della salute e del benessere di chi lo pratica.

Elena Dal Pan

LE OPPORTUNITA’ DELL’ADOLESCENZA – mantenere la rotta navigando con i figli

LE OPPORTUNITA’ DELL’ADOLESCENZA – mantenere la rotta navigando con i figli

Giovedì 4 febbraio, tramite Zoom si è tenuto l’incontro – LE OPPORTUNITA’ DELL’ADOLESCENZA Gianpiero Camiciotti Dirigente scolastico e Psicologo con Alessandra Modugno Docente e Orientatrice hanno dialogato con genitori e insegnanti.

L’adolescenza non è solo un momento difficile, ma può essere affrontato come periodo di crescita e di scoperta non solo per i ragazzi, ma anche per l’adulto che entra in relazione con loro.

Di seguito riportiamo la registrazione dell’incontro


Soul – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Soul – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Paese: USA  – Durata: 107 minuti – Regia: Pete Docter, Kemp Powers

Un viaggio alla scoperta di sé che fa sognare i bambini ed emozionare gli adulti; spesso siamo troppo presi dal desiderio di realizzare i nostri sogni da non accorgerci delle cose semplici e belle che succedono nella nostra vita.

Lo spunto da cui prende avvio la storia è una domanda impegnativa: “Ti sei mai chiesto da dove provengono la tua passione, i tuoi sogni e i tuoi interessi? Cosa ti rende così come sei?

Joe Gardner è un uomo maturo, eppure sente che la sua vita non è mai veramente cominciata. Appassionato pianista di jazz, aspetta la grande occasione mentre insegna musica in una scuola media e suona quando capita nei locali notturni, facendo preoccupare la madre che vorrebbe per lui le garanzie del posto fisso. 

Il giorno in cui passa l’audizione per debuttare con un famoso quartetto, Joe sente finalmente di avercela fatta, ma cade in un tombino scoperchiato e la sua anima si ritrova in uno strano luogo, mentre il suo corpo giace in un letto d’ospedale. Determinato a non morire proprio ora, Joe imbroglia le carte e stringe un patto salvavita con un’inquieta giovane anima, la numero 22.

22 non vuole vivere, Joe non vuole morire; catapultati quasi per errore sulla terra, iniziano una corsa contro il tempo; Joe ha solo poche ore per riappropriarsi della sua vita e realizzare il sogno di diventare un grande musicista jazz, mentre 22 è alla ricerca della ‘scintilla’ che le faccia scoprire finalmente il senso della vita.

Dopo una lunga serie di traversie, tutte concentrate nello spazio di un pomeriggio, i due riusciranno a sistemare le cose, arrivando finalmente a capire quale sia il loro posto nel mondo. Joe e 22 scopriranno insieme che a volte per rincorrere un sogno ci ‘dimentichiamo di vivere’ e perdiamo di vista la bellezza del quotidiano e del mondo reale, fatto di incontri e di reciproco scambio. 

Tornato alla vita di sempre, dopo essersi svegliato da quello che è sembrato un sogno molto reale, Joe promette a se stesso di assaporare la bellezza di ogni momento del viaggio che è la vita.

Soul, che gioca sul duplice significato di “anima” e di “genere musicale”, ci mostra due anime a confronto: quella di Joe, che la dovrebbe “riconsegnare” a seguito dell’incidente, e quella di 22, che ancora deve trovare la sua giusta collocazione nel mondo. Apparentemente sembra che sia Joe ad essere stato prescelto per guidare 22 nel percorso di formazione che la porterà a diventare una persona in carne ed ossa, ma non è così, piuttosto è il caso di dire che i due “si sono trovati”. 

Attraverso lo sguardo, la curiosità di 22 Joe vedrà se stesso vivere in un altro modo e quando si riapproprierà del corpo, continuerà a percepire il fremito di quelle sensazioni provate da 22 durante le ore trascorse insieme e rivedrà, finalmente, i momenti della vita che la passione per la musica aveva fino a quel momento oscurato.

Un bel modo per dirci: gustate ogni singolo istante della vostra vita e quando questa sembra che vi scappi di mano, cambiate prospettiva. La vita sarà ancora più bella e ogni volta sarà come tornare di nuovo al mondo.

Francesca Guglielmi

Agostino, La felicità – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Agostino, La felicità – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Pochi tra i grandi pensatori cristiani hanno manifestato nella loro vita, come sant’Agostino, quanto potente sia il desiderio di felicità e quanto faccia tutt’uno con quello della verità, tanto da fargli parlare di gaudium de veritate, la gioia arrecata dalla contemplazione della verità e della sua bellezza. Come ci viene narrato nelle Confessioni, fin dalla giovinezza, quando ancora diciottenne lesse con avidità l’Ortensio di Cicerone (libro di esortazione alla filosofia), intraprese una lunga ricerca che lo condusse, attraverso varie vicissitudini e peregrinazioni intellettuali, al porto della fede. E per questo interruppe la promettente carriera di retore. 

Al tema della felicità Agostino dedicò uno dei primissimi scritti, il cui titolo originale è De vita beata, un dialogo filosofico che egli scrisse nel 386, pochissimo tempo dopo la sua conversione, nella villa alle porte di Milano dove si era ritirato in compagnia di famigliari e amici, impegnandosi in profonde conversazioni, e in attesa di ricevere il battesimo, cosa che avvenne l’anno seguente dalle mani del vescovo Ambrogio. 

L’opera riporta una vivace e appassionata discussione fra il santo, la madre Monica, il figlio Adeodato e alcuni amici, che comincia il giorno del trentaduesimo compleanno del protagonista. Lo stile letterario è quello di un fine conoscitore della lingua latina, un retore appunto, forgiatosi alla scuola dei grandi oratori, Cicerone su tutti, ma anche di un esperto dell’arte della discussione e delle sue rigorose leggi, la dialettica, che fanno andare la mente ai grandi dialoghi platonici, capostipiti e modelli inarrivabili del genere letterario del dialogo filosofico.

Il santo ritiene che la felicità sia un desiderio universale dell’uomo, ma che, a differenza di quello che tanti credono, essa non consista nel soddisfare i propri desideri se questi desideri non sono quelli convenienti. Il bene solo che dà felicità deve essere un bene stabile e totale, che non dipende dalla fortuna o dai vari accadimenti. E questo bene, somma di tutti i desideri, non può che essere Dio, l’Essere eterno. Se l’infelicità è data dalla privazione del bene a cui tutti tendiamo, non sono le privazioni dei beni materiali quelle che più rendono infelici, quanto quella spirituale che consiste nella stoltezza, ossia nel non comprendere quale sia il vero bene.

Se l’infelicità è stoltezza, il suo contrario, la saggezza, è definita come la pienezza dell’anima, ossia quella misura che permette di evitare di cadere nell’eccesso dei vizi quali la lussuria, la volontà di dominio e l’orgoglio, o al contrario nell’estremo opposto, rappresentato dall’avarizia, la pusillanimità e la tristezza. 

A conclusione della discussione viene affermato che la saggezza ha la sua ragione ideale nella Sapienza di Dio, ossia nel Figlio di Dio, che è la Verità; dunque chi è saggio è felice, ed è felice perché possiede Dio, al quale abbiamo fiducia di arrivare pienamente con “una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”.
Questo breve testo di Agostino si rivela un piccolo gioiello per la freschezza e il rigore con cui è affrontato l’argomento della felicità. In esso sono già presenti alcune delle linee di fondo del suo pensiero, che emergeranno in modo più ampio nelle opere mature. A questo riguardo mi piace concludere con una citazione che rimarca il carattere non emozionalistico, a differenza di tanti approcci attuali, con cui egli ha sempre trattato il tema della felicità, ed è tratta da un’opera che, rispetto al dialogo giovanile, si colloca cronologicamente agli antipodi della sua vita, La Città di Dio: «Così infatti non può essere privo di infelicità colui che venera la felicità come una dea e trascura Dio, datore della felicità, così come non può essere privo di fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede all’uomo che ha quello vero».

Alessandro Cortese

Avere un’anima – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Avere un’anima – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

di Alessandro D’Avenia (fonte: Il Corriere della sera – 11.01.21)

“Si è felici non perché si ha successo, ma si ha successo perché si è felici” potrebbe essere questa la frase riassuntiva di questo articolo. Prendendo spunto dall’ultimo cartone della Pixar, Soul, e dalla grande letteratura russa, l’autore riflette sul tema della felicità, ritenendola non tanto l’esito di una “autorealizzazione” personale come oggi si dice, basata sul successo derivante da performance misurabili, ma dall’essere capaci di vivere la vita in tutta la sua ampiezza a prescindere dai risultati, cioè nel ricordarsi di avere un’anima, come è detto nel titolo.

A ricordarci che abbiamo un’anima ci pensano i cartoni animati. Soul, film Disney-Pixar di Natale, ha invaso gli schermi di coloro che, chiusi in casa e in cerca di leggerezza, si sono trovati invece nel bel mezzo di un gioco serissimo. Un professore di musica delle medie, dopo tanto penare, realizza il suo sogno di jazzista, fino a quel momento lasciato nel cassetto: suonare nel locale più rinomato della città. Sarebbe l’ennesima variazione sul tema del sogno americano, se non fosse che Joe, mentre festeggia l’evento cade in un tombino e… finisce nell’aldilà: tutto ciò che sembrava potersi realizzare di lì a poco svanisce in un attimo, e così comincia la sua partita contro la morte. Anche noi abbiamo un’anima, altrimenti non potremmo sollevarci sopra il fluire del tempo, ne saremmo parte come un ignaro pezzetto di natura. Noi scorriamo, sì, ma, a differenza di piante e animali, ne siamo consapevoli. Per questo cerchiamo di dare una forma al tempo e un senso al suo scorrere: «trovare il proprio posto nel mondo», «realizzarsi», diciamo, come se quel posto non l’avessimo già o non fossimo già abbastanza «reali». Più che trovarlo, questo posto, occorre abitarlo e, prima di realizzarsi, occorre essere reali, cioè imparare l’arte di vivere a prescindere dai risultati. Soul cerca di narrare che, per essere felici, bisogna essere prima che, come si pensa oggi, costruirsi.

Avere un’anima significa infatti imparare l’arte di vivere per poi «realizzare» le opere della propria unicità, a prescindere dall’eventuale successo.

Siamo fatti per vivere e poi per creare vita, ma per dare vita, la vita bisogna prima averla in sé. Invece una certa idea diffusa di felicità intesa come «costruzione» individuale in base a risultati quantificabili (tutto oggi si misura, perché tutto è prestazione) ha indebolito la nostra arte di vivere, cioè dello «stare» nella vita, perché la felicità non è primariamente una cosa «da fare» ma «da ricevere». Capita a tanti oggi di non riuscire a «realizzarsi» e per questo sentirsi falliti. Ma la nostra anima sa gioire anche in assenza di «successo», purché ne si coltivi, nell’ordinario, la capacità di risonanza. Una delle letture che me lo ha fatto capire meglio è il capolavoro di Boris Pasternàk: Il dottor Živago. Quello che trovo in molta letteratura russa (Puškin, Dostoevskij, Gogol, Bulgakov, Solženicyn, Grossman) è questa priorità della vita su idee e risultati, priorità spesso rovesciata nella visione occidentale.

Nel libro di Pasternàk (sfuggito alla censura sovietica e pubblicato proprio in Italia in anteprima nel 1956), ambientato nella Russia rivoluzionaria di primo ’900, l’esistenza dei protagonisti è continuamente stravolta dagli eventi della storia, ma alcuni sanno resistere perché hanno un’anima: vivono cioè in profondità, e rimangono stabili, nonostante la «rivoluzione», come accade nell’occhio di un ciclone. Certa letteratura non ha mai dimenticato che l’uomo ha l’anima e, come una conchiglia con il mare, può contenere in ogni istante la vita intera. Per questo Lara (il mio personaggio preferito), quando arriva nell’antica tenuta di campagna, ha l’abitudine di andare sempre a piedi dalla stazione a casa: «per un sentiero tracciato da vagabondi e da pellegrini e quindi svoltava per il viottolo che, attraverso un prato, portava al bosco. Qui si fermava e, con gli occhi socchiusi, aspirava l’aria densa dei confusi profumi della vastità che la circondava. Era un’aria più cara del padre e della madre, più tenera dell’uomo amato, più illuminante di un libro. Per un istante a Lara si rivelava di nuovo il senso dell’esistenza». 

C’è un vivere più originario di tutto che va ricevuto e rinnovato da riti tanto sacri quanto semplici come quello di Lara. Quel «vivere dentro» non ci può essere tolto, perché vivere è imparare a essere «soli», che non significa «isolati» (da isola) ma «pieni» («solo» viene da una radice che indica totalità, integrità, completezza), cioè «avere un’anima». Lara chiude gli occhi, respira e diventa centro del mondo e della storia: «Era lì — lo comprendeva — per mettere ordine nel folle incanto della terra e chiamare ogni cosa col proprio nome e, se non ne avesse avute le forze, allora per generare, in nome dell’amore per la vita, dei successori, che lo avrebbero fatto al suo posto». Questa pienezza, trovata nell’istante, consente di affrontare l’imprevedibilità della vita.

La nostra vita ha senso infatti non solo perché «realizziamo» ciò che sogniamo e magari qualcuno ce lo riconosce (esito per altro non garantito), ma semplicemente perché «viviamo» la Vita, cioè diventiamo capaci di riceverla tutta nel singolo istante, grazie all’ampiezza dell’anima. E in questa gioia profonda e interiore ogni posto diventa il nostro posto nel mondo, ogni tempo il nostro tempo: si è felici non perché si ha successo, ma si ha successo perché si è felici. Lo capirà Joe? E noi?

Alessandro D’Avenia

La scienza può dare la felicità?   – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

La scienza può dare la felicità? – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Intervista alla prof.ssa Marisa Levi , che sabato 28 novembre 2020, ha tenuto il laboratorio di scienze all’interno del corso “Aiutami a essere felice. Quella luce nei loro occhi”.

Nel convegno tenutosi lo scorso novembre dal titolo “Aiutami ad essere felice. Quella luce nei loro occhi”, grande interesse ha suscitato l’incontro con la prof.ssa Marisa Levi che, da biologa e ricercatrice, ha affrontato il tema “La scienza può dare la felicità?”.

Professoressa, può darci in sintesi una risposta al quesito che ha fatto da titolo al suo intervento?

La mia risposta alla domanda se la scienza può dare felicità è convintamente positiva. Io penso soprattutto a tre aspetti: la realizzazione personale, il contributo al bene comune e, soprattutto, la contemplazione, la capacità di cogliere la bellezza della natura; la conoscenza scientifica permette di cogliere non solo la bellezza “esterna”, ma quella delle strutture, del funzionamento, del coordinamento, delle relazioni, la diversità degli organismi, la grandiosità dell’insieme ecc. La conoscenza alimenta lo stupore e quindi genera gratitudine e gioia. Nel primo incontro si diceva che la felicità è legata all’abbondanza: quanta abbondanza c’è nella natura!

Nel suo discorso ha parlato di scienza come realizzazione personale. Potrebbe approfondire questo aspetto?

Ogni lavoro è occasione di mettere in gioco e sviluppare le proprie capacità. In particolare, la ricerca scientifica può aiutare a crescere nella collaborazione, nel senso di responsabilità, nella creatività, nell’ordine, nel rigore… Mi ricordo di una studentessa di biologia che quando era entrata in laboratorio era anche umanamente molto superficiale, prendeva tutto alla leggera; è stata due anni in laboratorio per la tesi e durante questo periodo è maturata moltissimo. Un altro aspetto di realizzazione personale è la felicità di studiare qualcosa che interessa, scoprire qualcosa di nuovo, contribuire a risolvere un problema, o anche appassionarsi a qualcosa di nuovo, che prima non si conosceva.

Uno dei punti più intensi della sua esposizione è stato quando ha parlato della sua personale scoperta della relazione non come accidente ma come sostanza; questo aspetto ha incoraggiato l’intervento da parte di molti docenti, anche di discipline diverse da quelle prettamente scientifiche. Vuole riprendere per noi il concetto?

Noi abbiamo studiato una suddivisione della realtà in sostanza e accidenti, secondo cui la sostanza è ciò che permane e gli accidenti possono cambiare senza che cambi la sostanza. E la relazione era considerato un accidente. Io per un po’ ci ho creduto. Ma quando ho cominciato a riflettere sull’inizio della vita di un essere umano, questa storia della relazione come accidente non mi quadrava più, perché nel concepimento si stabiliscono delle caratteristiche sostanziali di quell’essere umano, e quindi secondo me, almeno la relazione di filiazione, non poteva essere un accidente. C’è poi anche un aspetto personale, perché mio padre è riuscito a sfuggire alla persecuzione degli ebrei rifugiandosi in Svizzera, e quando io sono stata ad Auschwitz continuavo a pensare: se mio padre fosse finito qui, io non esisterei. E questo mi convinceva ancor di più che la relazione di filiazione non potesse essere un accidente. Poi ho trovato in “Introduzione al cristianesimo” di Ratzinger questa affermazione: “La Trinità scardina l’antica suddivisione della realtà in sostanza, ciò che è proprio,  e accidenti, ciò che è casuale.  Accanto alla sostanza si trova il dialogo, la relatio, come forma ugualmente originaria dell’essere. Nella Trinità la relazione viene scoperta come modalità originaria del reale di pari dignità della sostanza”. E questo, oltre a confermarmi nel mio pensiero, mi ha dato una grande gioia, la gioia del ricercatore credente quando scocca il contatto fra quanto emerge dal suo studio scientifico e quanto apprende dalla rivelazione, dal magistero e dalla teologia.

Infine, non posso esimermi dal chiederle un suo personale commento alla situazione attuale: oggi molti chiedono alla scienza di liberarci non solo dal virus ma dalla paura di soffrire e di morire; pretendono che scienziati, virologi, medici, ricercatori diano risposte chiare, univoche, sicure e immediate al desiderio di salvezza dell’uomo. Da parte loro, invece, gli “esperti” rispondono con certezze che diventano il giorno dopo incertezze, soluzioni parziali che non soddisfano e fanno nascere una certa diffidenza anche negli Organismi Internazionali che fino a qualche mese fa godevano di una grande autorevolezza (OMS, per fare un esempio su tutti). Secondo lei dove sta l’errore in tutto questo?

Mi pare che l’errore fondamentale sia quello di una visione parziale e riduttiva della realtà: per esempio la pretesa che la scienza sia l’unica fonte di conoscenza e possa dare una risposta a tutto. Abbiamo visto, invece, quanto nelle situazioni di difficoltà siano importanti le relazioni umane, lo spirito di servizio, il senso di responsabilità, l’aspetto spirituale, l’attenzione al bene di tutti, perché il problema della pandemia non è soltanto medico, ma anche sociale. 

A questo si aggiungono poi i limiti umani, per cui molti “esperti” si sono lasciati travolgere dal circuito mediatico, facendo affermazioni perentorie su cose incerte, discutendo e contraddicendosi (fra loro e anche con se stessi) in pubblico, invece di chiarirsi prima le idee fra di loro.

Miriam Dal Bosco

Per una Letteratura della gioia    – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Per una Letteratura della gioia – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

In un suo saggio sul grande scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, l’autore di capolavori come L’Isola del Tesoro o La strana storia del Dottor Jeckyll e Mister Hyde, Gilbert Keith Chesterton scriveva che nello scenario culturale contemporaneo (si era agli albori del ‘900) si sentiva la mancanza di una Letteratura della gioia.

Ovvero una letteratura che trasmettesse non solo le angosce esistenziali dell’uomo moderno, le sue domande a volte disperate di significato, ma anche le risposte, ovvero quella positività che è dentro l’esperienza umana che può aiutare ad essere felici. Una letteratura che esprima gioia, a costo di rischiare di sembrare infantile, dato che la gioia è da molti vista come un sentimento puerile. 

In realtà la gioia semplice, piena di stupore come quella di un bambino, è la condizione necessaria per vivere bene il tempo che ci è dato. E qualcuno, 2000 anni fa, aggiungeva che se non si ritorna come bambini, ossia allo sguardo curioso e gioioso dei bambini, non si entra nel Regno dei Cieli. 

Nel corso del Novecento è stato possibile assistere a diverse espressioni di questa Letteratura della gioia, che hanno utilizzato il linguaggio antico ma sempre vivo ed affascinante del Mito e dell’Epica. Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini, chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e vitale nella fantasia e nei sogni. Scrittori come lo stesso Chesterton, Tolkien, Lewis, Saint-Exupery, Ende, hanno proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie, leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici, strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. 

Una narrativa che non è una pura evasione dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro destino.

Nel marzo del 1939 Tolkien, l’autore del capolavoro Il Signore degli Anelli, tenne una conferenza sul tema delle storie fantastiche all’università di St. Andrews, in Scozia. Il testo di questa straordinaria conversazione divenne poi un saggio, On Fairy Stories ( tradotto in italiano col titolo Sulle fiabe,pubblicato nel volume Albero e foglia). In esso egli rivendica questo ruolo della fantasia sub-creatrice come diritto umano: creiamo alla nostra misura e in modo derivativo in quanto siamo stati a nostra volta creati, e per di più ad immagine e somiglianza del Creatore. La fantasia è un mezzo di recupero della freschezza della visione della realtà, come rimedio all’ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidiano. La fantasia – e quindi il racconto fantastico – ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro, evasione, consolazione. 

Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamento della salute, consiste per il Professore di Oxford nel ritrovare una visione chiara della realtà, nel “vedere le cose come siamo destinati a vederle”. Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare il mestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi, preferendo la via chestertoniana dell’immaginario, del paradosso, dell’immagine velata, allo scopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vita ordinaria, mascherano il volto della verità. 

Diventa così possibile quella letteratura di cui Chesterton avvertiva la mancanza nel panorama letterario. Una letteratura guaritrice, ristoratrice.

Una letteratura spesso incompresa, o sottovalutata, considerata “di Serie B”, semplice se non semplicistica. In realtà non è affatto così. E’ in realtà una narrativa che può offrire spunti di riflessione, che può trasmettere valori profondi. 

Diceva Chesterton a proposito della finalità dei racconti, e lo stesso Tolkien lo riprende nei suoi scritti, che i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre la maggior parte di noi è malvagia e naturalmente preferisce il perdono. Per questo i primi – e con loro tutti coloro che hanno un cuore puro da bambino – amano che le storie si concludano con un “lieto fine”.

A tale proposito, Tolkien introduce il concetto di “eucatastrofe”: il racconto eucatastrofico, contenente cioè un giudizio morale sugli avvenimenti e una conclusione appropriata, è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione. Quando in un racconto fantastico abbiamo a trovare un “capovolgimento”, un’interruzione del corso negativo degli eventi, un ribaltamento dell’inesorabile, opprimente realtà, abbiamo anche una stupefacente visione della gioia, dell’aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. “Gioia acuta come un dolore” dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, poiché smentisce l’universale sconfitta finale, a dispetto delle molte apparenze contrarie evidenti nel tempo presente.

Una letteratura tutta ancora da valorizzare.

Paolo Gulisano

CHE COS’E’ LA FELICITA’? Cervello, mente, anima

CHE COS’E’ LA FELICITA’? Cervello, mente, anima

Venerdì 22 gennaio è ripartita l’attività del Centro Studi, abbiamo inaugurato il 2021 ospitando il Prof. Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, per approfondire il tema della FELICITA’

  • Cosa genera il senso di felicità nell’uomo? Cosa invece lo deprime?
  • Cosa succede a livello di impulso nervoso quando ci sentiamo felici?
  • Perché possiamo essere sazi, appagati, riposati ma non siamo mai completamente felici?
  • Perché non esiste la sostanza / formula della felicità?

L’incontro ha riscosso molto interesse

condividiamo la registrazione dell’incontro

https://youtu.be/b0RS-qxnGVQ


Auguri per un Sereno Natale!

È NATALE

È Natale – Madre Teresa di Calcutta
È Natale ogni volta
che sorridi a un fratello
e gli tendi la mano.
È Natale ogni volta
che rimani in silenzio
per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta
che non accetti quei principi
che relegano gli oppressi
ai margini della società.
È Natale ogni volta
che speri con quelli che disperano
nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta
che riconosci con umiltà
i tuoi limiti e la tua debolezza.
È Natale ogni volta
che permetti al Signore
di rinascere per donarlo agli altri.

Madre Teresa di Calcutta

Schleicher e il “neutralismo” educativo: la realtà è meglio – (Newsletter n.5 dicembre 2020)

Schleicher e il “neutralismo” educativo: la realtà è meglio – (Newsletter n.5 dicembre 2020)

di Giorgio Chiosso (fonte: Il Sussidiario.net – 30.11.20)

Commentando un libro di Andreas Schleicher, direttore del dipartimento Educazione dell’OCSE e ideatore di celebri sistemi di valutazione internazionale, l’autore dell’articolo mette in guardia dai limiti dell’approccio funzionalistico socio-economico in campo educativo. Si rischia, infatti, di scambiare per neutrale, una prospettiva pedagogica di matrice illuministica che trascura l’importanza delle risorse non cognitive dello studente e dei valori immateriali nell’ambiente scolastico, la cui centralità emerge con tutta evidenza in questo periodo di pandemia.

Le difficoltà connesse con la pandemia in corso hanno impetuosamente rilanciato i temi della scuola e della sua rilevanza nella vita sociale e nelle biografie giovanili oggi costrette a lezioni dimezzate. Si è aperto anche il dibattito su come potrebbe essere la scuola del dopo Covid in seguito alla disponibilità delle risorse straordinarie messe a disposizione dell’Italia per la sua ripresa economica.

In questo scenario in movimento giunge come stimolo a una riflessione approfondita la traduzione del volume di Andreas Schleicher apparso nel 2018 e intitolato Una scuola di prima classe? Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo, ora disponibile anche in italiano (il Mulino) per il lungimirante intervento della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo di Torino.

Si tratta di un contributo importante e ricco di dati, perché pochi al mondo come l’autore dispongono di una visione globale dell’istruzione scolastica. Scritto con la passione di chi crede nel proprio lavoro, è quasi l’autobiografia culturale di una delle personalità che più hanno contribuito negli ultimi decenni a creare un nuovo modo di accostare i problemi dell’educazione e della formazione scolastica nel mondo occidentale e cioè a partire dagli effettivi risultati dell’apprendimento valutati attraverso procedure rigorose e non solo mediante il pur indispensabile confronto politico tra tesi spesso contrastanti.

Andreas Schleicher è infatti il direttore per l’Educazione presso l’Ocse, fondatore e direttore del Programma per la valutazione internazionale dello studente (il ben noto progetto Pisa), promotore di altri strumenti di analisi che hanno messo a disposizione dei decisori politici, dei ricercatori e di quanti operano nelle scuole una piattaforma con aspirazioni globali per innovare e trasformare le politiche e le pratiche scolastiche.

Il libro merita due sottolineature. La prima è rappresentata dal convinto sostegno alla causa dell’istruzione scolastica come fattore di progresso contro quanti ne denunciano la debolezza – e forse nel tempo il fatale crepuscolo – a fronte delle risorse messe a disposizione dal web e da altre modalità di formazione come ad esempio quelle gestite direttamente dal mondo produttivo. Il richiamo all’importanza della scuola risuona fondamentale specialmente in questo momento in cui la vita nelle aule scorre travagliata, intermittente, precaria con possibili gravi conseguenze sul futuro dei giovani.

Il secondo motivo di interesse è la constatazione che per cambiare e migliorare non basta elaborare mirabolanti strategie sulla carta se non si è in grado di tradurle in pratica con una programmazione basata sui dati, sulle risorse disponibili, sul sostegno sociale, su insegnanti appassionati. Un invito a una sana immersione nella realtà, tutto il resto è chiacchiera, propaganda, accademia (molto i nostri politici dovrebbero in tal senso apprendere).

La lettura del saggio è inoltre utile per cogliere la traiettoria del funzionalismo socio-economico che è alla base delle tesi dello studioso franco-tedesco molto più sofisticato e “umanizzato” rispetto alle tesi di 30-40 anni fa. L’aspirazione, neppur troppo sotterranea, resta comunque quella di dar vita a una sorta di pedagogia scolastica globale a impostazione tecnocratica in funzione dello sviluppo e del benessere. Un limite d’impronta illuministica, perché è difficile, se non proprio impossibile, dissociare l’educazione dalla sua storia, dalle tradizioni e consuetudini locali, in una parola dalla realtà delle persone. Non è che nel libro le persone non contino, ma sono come sempre disposte sullo sfondo, in primo piano spiccano i dati empirici, i confronti statistici, l’analisi delle esigenze sociali, economiche, produttive.

Il libro suggerisce anche qualche riflessione o interrogativo più critico. Troppo severo e poco storicamente fondato appare il giudizio radicalmente negativo di Schleicher sulla scuola del passato, alla quale andrebbe almeno riconosciuto il merito di aver sconfitto l’analfabetismo e di aver sostenuto i progressi delle società novecentesche. Mai nella storia umana c’è stata un’esplosione scolastica come quella del secolo scorso. Non c’è dubbio che la scuola sia stata il veicolo di ideologie spesso contrapposte (alcune anche drammaticamente totalitarie) volte a conquistare adepti fedeli, ma non si può dire che il neutralismo educativo di Schleicher sia, a sua volta, esente dal rischio di diventare ideologico, naturalmente espressione di un’ideologia non più politica, ma in questo caso segnata dall’efficientismo tecnocratico.

Nelle pagine del libro è inoltre sfumata l’attenzione verso quegli aspetti immateriali della vita scolastica che fatalmente sfuggono al censimento statistico, ma dai quali dipende la buona qualità dell’educazione. Essa non è più regolata, come in passato, da “tavole di valori”, ma è l’esito della capacità di valorizzare, accanto a quelle cognitive, le risorse non cognitive dalle quali, come dimostrano numerosi studi, tanta parte hanno non solo sul piano del successo scolastico, ma anche a livello di realizzazione umana.

Arrivati al termine del libro – scritto prima dello scatenarsi del virus – c’è da chiedersi se di fronte alla realtà che stiamo vivendo e destinata a incidere sul nostro futuro (per lo meno togliendoci molte delle nostre precedenti certezze e sicurezze) siano sufficienti le strategie funzionaliste coltivate dal direttore del programma Pisa volte giustamente a rendere più eque le opportunità formative, a potenziare la capacità degli studenti di orientarsi in un mondo sempre più bombardato dalle informazioni e a migliorare la realtà del fare e del produrre.

La mia opinione è che di fronte alla drammatica esperienza della paurosa pandemia che sta flagellando il mondo c’è bisogno di qualcosa di più e cioè di riscoprirci uniti di fronte alla precarietà della vita, solidali di fronte al dolore, partecipi dei sacrifici necessari per ridurre al limite i rischi del contagio. Attraverso il difficile momento vissuto dalla scuola ne stiamo riscoprendo l’importanza e riconosciamo il peso del valore umano delle relazioni che si stabiliscono nelle aule, apprezzando il senso di solidarietà che si stabilisce vivendo insieme perché l’incertezza e le difficoltà si superano meglio se si affrontano non da soli.

Mi sembrano segnali importanti per pensare “un’altra scuola” davvero partecipata, libera da lacci e lacciuoli centralisti, nella quale gli apprendimenti siano importanti quanto la necessità di costruire insieme una comunità solidale.

Giorgio Chiosso