Dad, compiti, vacanze: dov’è finito il desiderio di felicità? – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Dad, compiti, vacanze: dov’è finito il desiderio di felicità? – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

di Valerio Capasa (fonte: Il Sussidiario.net – 18.06.2021)

Se è vero che la Dad non ha creato, ma semmai aumentato la disaffezione dei ragazzi per la scuola, anche quella in presenza, urge ripartire dal desiderio di felicità.

Cala il sipario sull’anno scolastico più farsesco di cui abbia memoria. L’occhio casca sugli Europei di calcio proprio in coda agli scrutini, e il cervello finisce per intrecciare i fili: “povera Turchia! Sta perdendo 3 a 0 alla prima partita. Peccato però, anche loro si sono allenati, e hanno viaggiato fino a Roma. Dài, questo 0 passa a 3. Tutti d’accordo?”. Il calcio è così giusto, irrimediabile, mentre nel regno dell’irrealtà tutto si può truccare. Meno male che gli scrutini devono rimanere segreti…

Riavvolgiamo il nastro. L’ammutinamento pugliese non è uno spartiacque epocale? Dopo 14 mesi di Dad, alla domanda se volessero tornare in classe, circa il 98% dei liceali ha risposto di no. Più o meno è come non avere il pallone né il campo né le porte. Ci arrangiamo: due pietre per terra e un po’ di scotch attorno a quattro fogli di giornale. Man mano però la palla di carta comincia a sfaldarsi, e quando provvidenziale appare il miraggio di un campo in erba e di un pallone di cuoio, scopri che a mancare, in realtà, era la voglia di giocare. L’impressione è di chattare d’amore per un anno e mezzo con una ragazza, invitarla a uscire e sentirsi rispondere che domani no, deve studiare, dopodomani nemmeno perché c’è la prima comunione della nonna, e intanto sai per certo che esce con un altro; però la mattina dopo chatta con te, sempre sull’amore, con citazioni favolose.

Uno si immagina pianti, analisi, riflessioni… Niente, tutto come prima. Spiegazioni, verifiche. Verifiche, spiegazioni. Forse abbiamo un problema (vox clamantis in deserto), mica sarà colpa solo della politica scellerata o dell’adolescenza balorda: magari va cambiato qualcosa. Non abbiamo tempo per disquisizioni sui massimi sistemi. Incapaci non dico di una visione, ma almeno di una lacrima, di un urlo, di un abbraccio, preoccupati solo di tirare avanti la carretta. Perché non siamo zona rossa né arancione né gialla né bianca: siamo “zona grigia” (così Primo Levi chiamava il mostro della complicità).

Terza scena: un’ordinanza impone di chiudere gli scrutini entro il termine delle lezioni. Ergo, tutti i voti e le assenze vanno inserite non oltre il 31 maggio. Tradotto: dall’1 giugno ritiratevi tutti. E giustamente, se non mi punti alla tempia la pistola scolastica, nemmeno mi collego. Perché io e l’impiegato della posta non abbiamo altro da spartire se non la bolletta; col panettiere almeno si scambiano quattro chiacchiere; fra insegnanti e studenti, invece, neppure quelle. Un legame quasi quotidiano di uno o più anni, l’educazione come compito, la potenza della tradizione in mezzo, la vita come sfondo di ogni parola: eppure, messi i voti e le assenze, a giugno cala un gelo che nemmeno con l’impiegato o con il panettiere. Niente da dirsi, niente da condividere. Distanziamento.

Ti guardi intorno – lo scrive ancora Primo Levi – “sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate”. Troppi amici e colleghi, obnubilati da un ottimismo oppiaceo, non appaiono turbati dai fiori che appassiscono. Forse non ne coltivano, forse si consolano che morto un fiore se ne fa un altro, forse i loro sono di plastica. Pontificano che la Dad non ha creato il problema ma l’ha svelato. E hanno ragione. Tuttavia è come dire che le armi non sono la causa della violenza ma portano a galla quella già latente: se però diamo le armi in mano a chiunque, non aumentiamo la violenza? Idem la Dad: non ha creato il problema: l’ha svelato, e l’ha anche aumentato. Il contesto può aiutare oppure ostacolare, non è ininfluente.

Ora, dopo quasi un anno e mezzo, tiriamo le somme. Quanti morti di Covid fra gli adolescenti? Quasi nessuno. In compenso dispersione scolastica fuori controllo, problemi psicologici, psichiatrici, oculistici e fisici in aumento, deficit di attenzione alle stelle, ossia molta più fatica ad ascoltare, a leggere, a relazionarsi. Dovremo farci i conti, con la fase post-traumatica, altro che ritorno alla normalità! Esiste per fortuna un vecchio antidoto: la superficialità, che “ogni stento, ogni danno, / ogni estremo timor subito scorda”, come insegnano le pecore del Canto notturno.

Per questo, adesso, tutti al mare! Covid free. School free. Aveva visto giusto Leopardi quando scriveva che “mali veri” e “mille negozi e fatiche” distraggono gli uomini dal “conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità”. Fra Covid, compiti e vacanze, ci dimentichiamo quello che davvero abbiamo da condividere: il desiderio della felicità.

A meno che martedì 8 giugno non vivi tre ore consecutive di italiano, con 9 studenti in presenza e 13 collegati da casa, liberamente, solo per finire le Ultime lettere di Jacopo Ortis; o che mercoledì 9 un alunno che non ha propriamente la sensibilità di un poeta possa dispiacersi perché un sanguinamento della bocca gli impedisce di collegarsi; o che sempre il 9 un’altra alunna ti aspetti sotto casa mezz’ora dopo la fine delle lezioni per confrontarsi con te sulla sua estate; o che, dopo 15 mesi senza vedersi, l’11 giugno ti ritrovi al parco con una classe, un pallone, una chitarra, parole e sguardi veri; o che il 14 giugno vai al mare con loro, per condividere la vita: non è una rivoluzione? non è l’annientamento della farsa?

Alla fine dell’anno c’è chi si produce in post tronfi di “grazie a tutti” e “resilienza”, chi si fa una pizza insieme, chi si augura buone vacanze, chi si regala cornici, bracciali, dediche e complimenti. Ma qui c’è da regalare il proprio tempo, la propria estate. Più chiaramente: c’è da regalare se stessi.Perché in questi mesi qualcuno ha combattuto strenuamente, come un eroe greco: un duellante su vaso a figure rosse, un Achille in primo piano che sfida Ettore, con i mirmidoni e i troiani sullo sfondo. Eppure viviamo una stagione in cui più che mai il potere si è buttato a mordere sui legami, e allora urge una res publica, da eroi romani, che combattono insieme per fondare una città.

Valerio Capasa

Aprile 1796 “Pasque Veronesi”: un sussulto di orgoglio – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Aprile 1796 “Pasque Veronesi”: un sussulto di orgoglio – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Aprile 1796, è in pieno svolgimento la prima campagna d’Italia del Gen. Bonaparte che, a capo dell’Armée d’Italie, dopo aver sbaragliato gli Austriaci a Dego, Millesimo e Montenotte e i Piemontesi a Mondovì e Cherasco, si scontra nuovamente con l’esercito austriaco a Lodi riportando un’epica vittoria che gli consentirà il 13 maggio di entrare trionfalmente a Milano da Porta Romana e di prendere possesso della città. Ma a Bonaparte questo non basta, vuole inseguire gli austriaci che si stanno ritirando e il 30 maggio li affronta a Valeggio sul Mincio. Dopo un duro combattimento gli austriaci in ritirata ripiegano verso Mantova.

Il giorno successivo, 1 giugno 1796, il Gen. Antoine Balland alla testa di 12.000 soldati entra per la prima volta a Verona.

Lo stesso Napoleone prende alloggio nella casa del Conte Francesco Emilei e ancora oggi questo soggiorno viene ricordato da una targa su cui si legge: “NAPOLEONE BUONAPARTE GENERALE DELLA REPUBBLICA FRANCESE TRIONFATORE A MONTENOTTE A MILLESIMO A DEGO A MONDOVI ENTRATO LA PRIMA VOLTA IN VERONA IL 1 GIUGNO 1796 ALBERGÒ IN QUESTO PALAZZO”.

Verona, fedele roccaforte di terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia, è costretta ad ospitare questi soldati stranieri che si sistemano nelle loro case e requisiscono tutte le riserve alimentari.  

Va considerato che nella guerra tra francesi e austriaci Venezia, fin dall’inizio, ha adottato la politica della neutralità nella speranza di non essere coinvolta nel conflitto. Tuttavia, nonostante la dichiarata neutralità, i francesi, appena entrati a Verona, agiscono in modo autoritario nell’impossessarsi di Castelvecchio, dei forti militari, di alcuni edifici e di alcune chiese che vengono utilizzate come ospedali militari.

All’epoca Verona contava circa 55.000 abitanti che vivevano dignitosamente grazie ad una fiorente attività commerciale. Quanto sta accadendo in città coglie di sorpresa i cittadini che non comprendono il modo di agire arrogante e irrispettoso dei francesi che vengono visti più come invasori che come ospiti. Nessuno sa spiegarsi il perché di questo comportamento. Ma la spiegazione c’è e va ricercata in vecchi rancori che si erano venuti a creare tra Verona e la Repubblica Francese. 

Verona dal 1794 al 1796 ha accolto il Principe Luigi Stanislao Saverio di Borbone, Conte di Lille, fratello del Re di Francia Luigi XVI. Il Conte durante il periodo del terrore, per evitare la ghigliottina, era fuggito da Parigi e si era rifugiato a Verona ospite dell’amico Conte Gianbattista Gazola. Durante il soggiorno, informato della morte di Luigi Carlo, legittimo erede di Luigi XVI, il Conte di Lille si autoproclama Re di Francia con il nome di Luigi XVIII e lo comunica ai francesi e a tutte le monarchie d’Europa. Questa presenza ingombrante imbarazza il Senato Veneto che teme un deterioramento dei rapporti diplomatici con la Francia, così nell’aprile 1796 decreta in fretta e furia l’espulsione del Conte dai territori della Serenissima Repubblica di Venezia. Questo alla Francia non basta, Verona ha manifestata inimicizia nei confronti della Repubblica, dunque merita una punizione. 

Inevitabile che questa atmosfera rendesse i rapporti tra veronesi e francesi sempre più difficili; la diffidenza degli uni verso gli altri era così evidente che il Conte Augusto Verità, nella speranza di raffreddare gli animi, decide di compiere un passo diplomatico. Approfittando dei suoi buoni rapporti con il Gen. Balland, lo incontra e lo invita a mantenersi neutrale in caso di scontri tra cittadini veronesi fedeli a Venezia e cittadini veronesi che hanno abbracciato la causa giacobina. Il Generale conferma la sua intenzione di non intromettersi negli affari interni della Serenissima.

La Francia, ancora una volta, non è d’accordo e vede nell’occupazione militare della città la giusta punizione. Per attuare questo piano serve un valido pretesto che viene presto trovato. Gli stessi francesi progettano, scrivono, fanno stampare e affiggono ai muri della città un manifesto incitante i veronesi ad insorgere in armi contro gli invasori francesi e nella notte fra il 16 il 17 aprile vengono affissi dai francesi numerosi manifesti in cui si legge:  Noi Francesco Battaia per la Serenissima Repubblica di Venezia Provveditore Estraordinario in Terra Ferma…. contro questi nemici eccitiamo i fedelissimi cittadini a prendere in massa le armi e dissiparli e distruggerli, non dando quartiere a chichessia, ancorchè si rendesse prigioniero….. Invitiamo pertanto i Cittadini rimasti fedeli alla Repubblica a cacciare i Francesi dalla città e dai castelli che, contro ogni diritto, hanno occupato.”

La provocazione è fin troppo evidente, non resta che aspettare la reazione dei cittadini veronesi, che non tarda ad arrivare. Alle ore 14.00 del 17 aprile, lunedì dell’Angelo, in un’osteria nei pressi delle case Mazzanti si sviluppa una violenta zuffa, senza esclusione di colpi, tra veronesi e francesi; quest’ultimi hanno la peggio e vengono brutalmente malmenati.Contemporaneamente in Piazza Bra, tra i soldati dalmati, disposti a presidio dela piazza, ed alcuni giacobini locali si verificano alcuni scontri a fuoco. In tale circostanza il Gen. Balland, che nella piazza aveva disposto dei picchetti di guardia, per mantenere fede all’impegno preso e per non inasprire ulteriormente gli animi, ordina ai suoi di non intervenire. Alle 17.00 quando la calma sembra essere ritornata, molti veronesi prendono coraggio, escono dalle case e a gruppi, attraversando Piazza dei Signori, si incamminano verso le chiese per recarsi a Messa. Questa apparente situazione di cessato pericolo viene   improvvisamente interrotta dalla caduta di alcune palle di cannone infuocate che, oltre a generare panico, provoca il ferimento di cittadini inermi e incolpevoli. 

La decisione dei francesi di intervenire utilizzando l’artiglieria disposta su Castel San Pietro e sul forte San Felice induce la violenta reazione dei veronesi, come riporta la cronaca dell’epoca di un anonimo, conservata presso la Biblioteca Comunale di Verona: “A misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case […], correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, le quali si videro obbligate a cercare sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli… Non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città: Viva S. Marco… Tanta era la furia, l’impeto, la collera, l’odio che si era acceso contro questa gente che più non si conosceva ragione, né pietà, né religione….Fu riferito che erano stati veduti ragazzi con coltelli inveire contro i cadaveri di Francesi…. I francesi, che non riescono a raggiungere i forti o Castelvecchio, vengono rincorsi, catturati, uccisi e gettati nell’Adige.”

Inizia così una intensa attività di guerriglia urbana caratterizzata da duri e sanguinosi corpo a corpo. I francesi rispondono sparando da Castelvecchio cannonate sulle case circostanti che provocano devastanti incendi. Sarà il provvidenziale arrivo del Conte Augusto Verità con i suoi soldati a neutralizzare i cannoni francesi permettendo alla giornata di terminare favorevolmente. I veronesi controllano le porte di accesso alla città: Porta Vescovo, Porta San Giorgio, Porta Nuova e Porta San Zeno, mentre i Francesi restano asserragliati nei forti. Il giorno dopo, 18 aprile, i rappresentanti del Senato Veneto, resosi conto che le forze in campo erano nettamente favorevoli ai francesi, si precipitano a Venezia per chiedere l’invio di truppe a sostegno di Verona. Nei giorni successivi, 19-20-21 aprile, i combattimenti proseguono senza tregua e si fanno sempre più cruenti. Da una parte i soldati francesi che fanno pesare la loro superiorità numerica e la loro maestria nell’uso dell’artiglieria e dall’altra, gli eroici cittadini di Verona, che, pur sfiniti e allo stremo delle forze, combattono con coraggio fino all’ultimo respiro. Per le strade si contano centinaia di morti e feriti. La situazione non è più sostenibile senza aiuti da Venezia. E il 22 aprile gli aiuti arrivano: un anziano generale al comando di 400 fanti, 800 contadini e 8 cannoni da campagna. Una beffa! Venezia ha abbandonato Verona al suo destino.

È la fine, i veronesi non possono resistere oltre. Per le strade della città e dalle case distrutte dagli incendi si sentono solo grida di dolore, lamenti e il pianto angosciante di madri, figlie e spose che hanno perso i loro cari.  Verona è in ginocchio. Non resta che arrendersi.

I rappresentanti del Senato Veneto, assieme alle autorità cittadine, sono costretti ad accettare la “resa incondizionata” che prevede:consegna ai francesi di 16 autorità come ostaggi e tra questi il Vescovo Avogadro, confisca di importanti opere d’arte, pagamento di 2.000.000 di lire, requisizione di tutto l’argento delle chieseconsegna delle riserve di cibo e vestiario.

I francesi hanno vinto e rivendicano il diritto di saccheggio. Vengono assaltate e depredate le case dei nobili veronesi, la Biblioteca Capitolare, il Museo Lapidario e il Monte di Pietà. 

Dalle chiese vengono prelevate importantissime opere d’arte:

– La Sacra Conversazione, trittico di Andrea Mantegna (San Zeno)

– Martirio di San Giorgio di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)

– San Barnaba di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)

– Deposizione di Cristo di Paolo Veronese (S. Maria Della Vittoria, successivamente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oggi l’opera è conservata nel museo di Castelvecchio) 

– Assunzione della Madonna di Tiziano (Cattedrale)

– otto formelle bronzee del monumento funebre Della Torre di Andrea Briosco, detto il Riccio (S. Fermo Maggiore)

Parte di queste opere verranno restituite nel 1816. 

Sono rimaste In Francia le predelle del trittico del Mantegna (Louvre e Museo di Tours), il San Barnaba del Veronese (Museo di Rouen) e i bronzi di San Fermo (Louvre). Finito il saccheggio della città, inizia il processo ai presunti responsabili dell’insurrezione cittadina.

Alla barra degli imputati compaiono:

  • Conte Francesco degli Emilei di anni 45
  • Conte Augusto Verità di anni 45
  • Giovanni Battista Malenza di anni 30
  • Frate cappuccino Luigi Maria da Verona al secolo Domenico Flangini di anni 72
  • Agostino Bianchi, oste Alla Rosa di anni 43
  • Stefano Lanzetta, parrucchiere di anni 39
  • Pietro Sauro, calzettaio di anni 45
  • Andrea Pomari, cavapietre in Avesa di anni 42

Il processo, per lo più sommario, decreta la colpevolezza di tutti gli imputati che vengono condannati a morte mediante fucilazione. La sentenza verrà eseguita nei giorni 16 maggio, 8 e 18 giugno 1797 nel vallo di Porta Nuova.

Il sussulto d’orgoglio dei cittadini veronesi è stato soffocato dal sangue dei martiri.

Una laconica scritta incisa su la lapide posta nella Piazzetta delle Pasque Veronesi, già “Piazzetta delle case abbruciate” ricorda per sempre: “IL NOME DI QUESTA PIAZZA RAMMENTA LA INVASIONE FRANCESE I LIBERI SENSI CITTADINI L’ULTIMO GIORNO DI VENEZIA REPUBBLICA” – APRILE 1797

Dott. Maurizio Bonciarelli

Napoleone e la politica come nuova religione civile – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Napoleone e la politica come nuova religione civile – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Riportiamo l’intervista condotta al prof. Andrea Caspani, già docente di storia e filosofia e dirigente scolastico, e direttore della rivista Linea Tempo. Itinerari di ricerca storica e letteraria (www.lineatempo.eu). Ha svolto per vari anni il coordinamento del tirocinio e il laboratorio di didattica della storia per le SSIS. Ha pubblicato vari studi di didattica della storia e di storia moderna e contemporanea, fra cui Memoria storica e insegnamento della storia (2003); La storia italiana: una questione d’identità (2005), Storie scelte. Elementi e pratiche di una didattica della storia (2008) L’Italia di Manzoni (2011), La prima follia mondiale chiamata guerra (2014). Ha curato la mostra storica del Meeting di Rimini: Testimoni della verità nell’Italia in guerra. La resistenza cancellata (2007). Cogliamo l’occasione del bicentenario della morte di Napoleone per riflettere su questa figura, soprattutto in un’ottica didattica.

Ci fu un Napoleone giovane generale liberatore ed esportatore della Rivoluzione francese, ma anche un comandante militare che ha occupato e depredato i territori conquistati. Forse la prima cosa che colpisce quando si studia Napoleone è la complessità della sua figura, motivo per cui è difficile coglierlo con un giudizio troppo semplificatorio. Quali sono gli aspetti principali della sua vicenda?

È proprio vero che Napoleone è una figura complessa, basti pensare a come lo ha descritto il Manzoni quando si chiese se “fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”. Voglio dire che è una figura che ha degli aspetti che affascinano e altri aspetti che fanno dubitare della sua grandezza; però, quello che a mio avviso è fondamentale è che Napoleone è una figura fondamentale per il successo della Rivoluzione francese: senza di lui, anche se la storia non si fa con i se, la Rivoluzione francese non avrebbe avuto quel valore di svolta della storia europea, e non solo, che invece ha avuto. Non dimentichiamo, infatti, che Napoleone comincia ad assumere un ruolo significativo quando i momenti più tipici della Rivoluzione francese, e cioè l’89, il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, l’esecuzione del re, il Terrore sono già realizzati. Lui in quel tempo era un giovane di belle speranze, il suo momento di svolta sul piano militare e anche politico è nel ‘93 quando Barras gli chiede di impedire un colpo di Stato monarchico e lui lo fa con grande risolutezza, e poi da lì comincia la sua ascesa, gli sarà affidato il comando dell’armata d’Italia, e comincerà il cammino di giovane liberatore, ma – come sappiamo bene noi italiani – anche di saccheggiatore dei beni artistici italiani. Ma per restare sul tema della complessità, mi viene da dire che la stessa formazione di Napoleone è stata per così dire complessa. Lui è figlio di patrioti corsi che erano stati al seguito di Pasquale Paoli, il grande patriota e fondatore della Repubblica corsa, che era stata consegnata dai genovesi ai francesi per l’impossibilità di reprimere l’insurrezione del popolo corso. Grazie al padre che era abile sul piano “diplomatico” e che dopo la sconfitta di Paoli aveva cercato di ingraziarsi i nuovi padroni francesi, era stato mandato in Francia a studiare nelle scuole militari, ma nell’animo restava fondamentalmente un patriota corso, quindi ha l’ideale della nazione che ha un fondamento religioso (non a caso Pasquale Paoli era religioso), ma che è anche un ideale tipicamente illuministico, ed è questa mediazione dell’illuminismo che permette a Napoleone di appassionarsi progressivamente agli ideali della Rivoluzione francese, che in un primo momento lui ritiene compatibili con la libertà della sua patria corsa. Infatti, subito dopo la fase liberale della Rivoluzione, nel 1790 Pasquale Paoli ritorna trionfalmente in Corsica e si mette a governarla in nome dei nuovi ideali, e per Napoleone la piccola patria e la grande patria sembrano componibili. Il momento della svolta emerge nell’epoca del Terrore con lo scontro tra Pasquale Paoli e i giacobini, perché Paoli non vuole arrivare alla scristianizzazione e a rompere i legami con la tradizione e con le libertà e le autonomie. Le libertà e le autonomie sono una prospettiva diversa dal concetto di libertà della Rivoluzione francese. E’ in questo contesto che Napoleone e la sua famiglia scelgono la Francia, per cui Napoleone torna in Francia e diventa l’ufficiale che comanda l’artiglieria francese nell’assedio di Tolone e contribuisce a riconquistare Tolone, dove c’erano i monarchici e gli inglesi, e questo è un po’ l’inizio della sua carriera politico-militare. 

Il punto decisivo concettualmente è questo: quello che fa sì che Napoleone abbandoni il riferimento alla piccola patria corsa è l’idea della centralità della politica (e della conquista del potere) per dare senso alla vita nella sua globalità, cioè che nella realtà terrena gli ordinamenti politici non possono essere legati a qualche riferimento di tipo religioso oppure naturalistico, ma sono il regno dell’umano, ovvero libera creazione razionale dell’uomo che, nella misura in cui segue la fiaccola “umanistica” degli ideali illuministici, Liberté Égalité Fraternité, impegnandosi a realizzare la volontà generale del popolo, evita ogni scivolamento nel nichilismo e mostra come la politica sia più grande della religione nella sua pretesa di trasformare il mondo e l’uomo. Napoleone si rende conto che la Rivoluzione non può essere semplicemente affermazione di ideali e politica del Terrore verso chi non è rivoluzionario, ma che occorre operare una netta cesura con il passato per operare una decisa riorganizzazione dell’intera vita sociale, capace di mostrare che i principi rivoluzionari sono in grado di realizzare una nuova qualità di vita per i popoli che seguiranno questa strada.

Questa prospettiva segna un po’ tutta la prima fase della sua carriera, quella appunto da Tolone alla repressione dei monarchici, a Parigi, alla Campagna d’Italia del ‘96/’97, fino alla campagna d’Egitto. Però negli stessi anni si rende conto che se la Rivoluzione francese consiste solo nell’imporre con le armi nuovi principi di libertà non può avere un successo duraturo (perché il criterio della verità politica è il successo) e allora comincia a considerare quanto e come del passato sia necessario ricomprendere all’interno della nuova visione. 

Questo secondo me caratterizza tutta la sua seconda fase, cioè quella dal colpo di Stato del 1799 all’inizio della pacificazione con la Chiesa, all’instaurazione dell’Impero fino al matrimonio con Maria Luisa d’Asburgo del 1810. Questa seconda fase è interessantissima, infatti, non a caso, è stato accusato di cesarismo, di aver tradito gli ideali della Rivoluzione francese, ecc.; in realtà lui ha inglobato caratteristiche dei sistemi passati in una nuova cornice, ad esempio ricrea una nobiltà, perché per costituire il nuovo soggetto politico, lo Stato rivoluzionario, occorre individuare dei quadri qualificati, ma ora è una nobiltà del merito rivoluzionario.

Allo stesso modo trasforma l’esercito da guardiano della Rivoluzione ad ascensore sociale, perché se il fondamento della sovranità è la nazione in armi allora chi è in grado di comandare uomini e vincere battaglie è anche in grado di collaborare a costruire la politica di potenza della Francia rivoluzionaria.

Allo stesso modo si comporta nel riorganizzare amministrativamente il paese, nel ristabilire la pace religiosa e soprattutto nell’elaborare i nuovi principi giuridici che dovranno guidare tutti gli aspetti della rinnovata vita sociale (la riforma del Codice civile è un’opera che ha lasciato il seme dei principi rivoluzionari nelle legislazioni europee di tutto l’Ottocento).In tutte queste riforme Napoleone è assolutamente realista nel senso pieno della parola, cioè capisce che se la politica deve essere il regnum hominis deve governare tutto in modo ragionevole, e infatti non è un caso che dagli inizi dell’Ottocento ristrutturi l’organizzazione complessiva del paese.

Secondo lei quando si parla di Napoleone non si corre il rischio di soffermarsi comprensibilmente solo sull’individuo, trascurando il fatto che se ha potuto fare quello che ha fatto, è perché godeva anche dell’appoggio della borghesia e aveva dalla sua parte l’esercito?

Certamente conta il carattere di Napoleone, risoluto, abile, opportunista, ma conta anche il fatto che ha saputo interpretare lo spirito del tempo. Questo ci aiuta anche a capire perché Hegel stesso descrisse il suo ingresso a Jena con quelle famose parole “Ho visto lo spirito del mondo a cavallo”. Hegel aveva colto che Napoleone rappresentava lo spirito del tempo, nel senso che è colui che capisce che si può consolidare la Rivoluzione soltanto se i nuovi principi diventano non tanto dei riferimenti simbolici, come per esempio era stato il cambio del calendario o addirittura il tentativo di instaurare un nuovo culto religioso, quanto forma concreta della vita; allora è più importante riorganizzare i dipartimenti, stabilire la certezza del diritto secondo i nuovi principi, (che non sono totalmente rivoluzionari perché si conferma per esempio la predominanza del ruolo maschile nel matrimonio, ma al contempo si sancisce la possibilità del divorzio, cosa che in una visione da Ancien Regime non sarebbe mai stata possibile) in modo da rendere definitive alcune conquiste della Rivoluzione, come quando si stabilisce in modo netto la centralità e le caratteristiche della proprietà privata; permettendo a tutta una generazione che ha partecipato con entusiasmo alla Rivoluzione francese di essere sicuri che nessun ritorno ai privilegi nobiliari sui beni e sulle terre sarà più possibile.

Ecco in questo Napoleone è moderno, in quanto ha capito che cambiare le leggi contribuisce a cambiare la mentalità, perché la legge applicata fa cambiare nell’arco di una generazione il modo di pensare ad una realtà, non è l’enunciazione (anche ben argomentata) di un principio filosofico astratto a favorire il cambiamento progressivo della mentalità.

Non è quindi un caso che nella sua riforma scolastica e universitaria avrà un ruolo infimo la filosofia, perché non c’è più bisogno di pensare, ora c’è bisogno di agire, di organizzare e costruire (quindi incrementa lo studio delle materie scientifiche e tecniche).

E per organizzare uno Stato di nuovo tipo occorre che tutti i gangli rispondano efficacemente alle indicazioni del centro, da qui quel modello centralistico dell’amministrazione dei dipartimenti francesi, che verrà applicato come modello a tutte le regioni d’Europa che verranno conquistate e che lascerà un segno duraturo nell’ordinamento di molti paesi.

L’idea di uno Stato centralista efficiente dove si fa carriera secondo le capacità e non secondo la nascita o il privilegio sarà apprezzatissima dalla borghesia francese che ha appoggiato fin dall’inizio la Rivoluzione francese, perché c’è una cesura netta con il passato.

Ma Napoleone ha avuto il consenso anche da parte del popolo, perché per lui il popolo è la nazione in armi e la nazione deve essere vittoriosa (non dimentichiamo che il successo è la verifica della verità in un contesto in cui la politica è tutto), ma il successo va conquistato con la propria libera iniziativa e l’utilizzo consapevole delle proprie capacità.

Da questo punto di vista ciascuno, qualunque fosse la sua origine, poteva mostrare nei fatti a Napoleone le proprie capacità funzionali al successo dello Stato e insieme al proprio avanzamento sociale, come ci ricorda il famoso motto di Napoleone: “nello zaino di ogni soldato c’è un bastone da maresciallo”, e infatti molti suoi generali sono persone che si sono fatte dal nulla. 

La grandezza militare di Napoleone non risiede infatti solo nella sua visione innovativa della strategia e nell’acume personale sul campo, ma anche nella capacità di scegliere gli uomini; ha dimostrato così nei fatti che si può per certi versi piegare il destino, ovvero che il compiersi del destino è nelle nostre mani. Questo ci porta a riflettere sulla sua posizione religiosa: non è ateo, semmai ha una visione religiosa per cui Dio c’è, ma non c’entra più di tanto nella vita terrena, lo dimostra il famoso esempio dell’incoronazione imperiale nel 1804, quando prende dalle mani del pontefice la corona e se la pone da solo sulla testa; in qualche modo tutti i poteri diversi dalla politica non vengono cancellati, ma devono subordinarsi alla volontà dell’uomo di costruire il regnum hominis (un atteggiamento diverso e più rispettoso verso la religione Napoleone lo mostrerà negli anni dell’esilio, ma non dimentichiamo che anche qui gioca il criterio del successo, ora è un vinto e il Signore ha avuto più successo di lui!).

Il suo tentativo di instaurare un regnum hominis basato su un’applicazione ragionevole dei principi rivoluzionari è confermato dal fatto che, salvo qualche caso in cui si è comportato come dittatore senza scrupoli, è stato capace di trattare in modo dignitoso anche gli sconfitti: non è un caso per esempio che, giunto al culmine della sua epopea, lui pensi di instaurare un nuovo sistema europeo che abbia al centro la Francia, sposando la figlia dell’imperatore d’Austria, anche se ormai l’imperatore d’Austria non è più l’imperatore del Sacro Romano Impero, per segnalare che il vecchio sistema europeo è finito, ma che nel “nuovo sistema” c’è spazio per tutti, purché si accetti il principio che la politica diventi la nuova religione civile. 

La volontà generale che guida la politica è rappresentata da chi la interpreta: finché c’è lui, e finché lui vince, è lui l’interprete del popolo francese, e non solo francese, ma anche di tutti quelli che sostengono la rivoluzione, e questo spiega il successo che ha avuto in tante parti dell’Europa; anche quando parte per la famosa Campagna di Russia sono tanti gli italiani che partono volontari, è vero che l’Italia era sotto il controllo napoleonico, però è anche vero che molti sono partiti proprio credendo in lui, e questo documenta quanto la sua prospettiva fosse affascinante.

Naturalmente oggi siamo consapevoli che Napoleone era portatore di un ideale astratto di rivoluzione politica,  perché sappiamo che col crescere dell’egemonia napoleonica sull’Europa è cresciuto un movimento che riteneva parziali e astratti gli ideali della Rivoluzione, un movimento che culturalmente possiamo definire romantico, e che politicamente è stato il movimento del risveglio delle nazioni, non a caso la battaglia decisiva che conclude l’epica napoleonica non è stata una battaglia della disastrosa campagna di Russia, ma la battaglia di Lipsia del 1813, che è chiamata anche la battaglia delle Nazioni contro Napoleone.

In questo senso l’ultimo tentativo politico di Napoleone (i famosi “cento giorni”) sarà un tentativo di riverniciare la sua prospettiva politica a partire dall’ideale della libertà della nazione francese, ma, come ben sappiamo, ormai la sua parabola era finita.

Nonostante la complessità della figura prima richiamata, è opportuno secondo lei dare un giudizio, o bisognerebbe evitare di sovrapporre interpretazioni morali che leggano anacronisticamente uomini e fatti del passato?

Questa è una domanda di metodo: lo storico innanzitutto è chiamato a comprendere il dinamismo della realtà e a capire il senso di una svolta che accade in un determinato periodo storico, non è chiamato a giudicare moralmente in prima battuta il personaggio, il partito o il movimento che è da studiare. In questo senso uno storico vero può studiare senza pregiudizio anche un personaggio o movimento come Hitler o i nazisti e dire che hanno svolto un importante ruolo storico; a maggior ragione questo vale per Napoleone, che sicuramente non è paragonabile alla ferocia e alla disumanità di Hitler. 

Se inquadriamo Napoleone nel suo contesto occorre riconoscere che ha dato una notevole svolta alla storia moderna, anche se, guardando alla sua prospettiva da un punto di vista globale, possiamo affermare che prevalgano le criticità sugli elementi positivi. 

La storia è sempre un’avventura dell’uomo alla ricerca del significato della vita nella realtà terrena: concezioni come quella della cancel culture del passato in nome degli ideali politically correct attuali, non sono concezioni storiche, sono concezioni ideologiche, che finiranno quando finirà il politically correct

Guardando l’epoca rivoluzionaria dal punto di vista storico si può dire che Napoleone è stato un punto di svolta della storia moderna e contemporanea, perché ha inaugurato un periodo storico centrato sull’idea della rivoluzione, ovvero che la politica è la nuova visione inglobante del mondo e questo ha segnato un’epoca che secondo alcuni studiosi arriva fino al 1989, ovvero l’epoca in cui la politica è tutto, sia che al centro ci sia la politica giacobina o i nazionalismi o invece la politica comunista o fascista o nazista. Da questo punto di vista è stato molto interessante il lavoro di François Furet, che è partito individuando i punti deboli dell’interpretazione marxista della Rivoluzione francese, per sviluppare un’interpretazione originale e acuta della visione “politicista” della Rivoluzione.

Tra le opere che ci ha lasciato, alcune sono interessanti anche per capire in modo sintetico la figura di Napoleone: ad es. il Dizionario critico della Rivoluzione francese dedica spazio all’età napoleonica e alla figura stessa di Napoleone.Furet mette poi in luce nel libro Il passato di un’illusione che c’è un parallelismo tra la concezione di Rivoluzione della Rivoluzione francese e quella della Rivoluzione bolscevica, che ha caratterizzato, come ci ricorda Eric Hobsbawm, il secolo breve che è appena terminato. Quindi è veramente interessante notare come Napoleone sia all’origine di un ciclo storico che mette la politica al centro di tutto. Alla luce di questo, per capire Napoleone sono più utili libri come quello di Furet piuttosto che le varie biografie su di lui, che magari indugiano molto sui particolari, come gli amori che ha avuto, che però non sono decisivi.

C’è qualche altro personaggio della storia a cui si sentirebbe di accostare Napoleone?

Non solo per le sue grandi capacità militari ma anche per le intuizioni politiche che hanno condizionato il periodo storico a lui successivo, Napoleone si dice tradizionalmente che vada messo a confronto con altri due personaggi che hanno fatto compiere grandi svolte alla storia, Alessandro Magno e Cesare. C’è qualcosa di vero in questo parallelismo se teniamo il confronto sul piano dell’analogia, perché sicuramente le concezioni del senso della storia dei tre erano molto diverse. Però è vero che Alessandro Magno cambia il senso della storia greca e così Giulio Cesare con la storia romana. Sono state svolte storiche globali perché non hanno riguardato solo una serie di conquiste, ma anche un modo di concepire la politica, lo stato, il potere, che diventano diversi da quel momento in poi. Costoro sono tra gli individui cosmico-storici di Hegel, e in questo senso Hegel era davvero attento alla dimensione storica, anche se noi poi possiamo criticare la sua interpretazione filosofica immanentistica della storia, ed è la dimostrazione di quello che dice anche Augusto Del Noce, che occorre fare un’interpretazione transpolitica della storia, cioè bisogna leggerla in profondità, al di là dei particolari e dei dettagli, individuando i punti di svolta della storia e mettendo a confronto gli ideali.

Quale potrebbe essere un’indicazione didattica utile per chi deve insegnare Napoleone nella scuola secondaria?

Sul piano didattico punterei molto sul fatto che la storia è fatta dagli uomini e non dalle strutture, quindi una figura come quella di Napoleone metodologicamente è utile da approfondire. E’ importante poi riuscire a collegare la sua figura con la problematica culturale e politica del periodo, piuttosto che approfondire la dimensione militare del suo Impero.

Certamente Napoleone fu un genio militare, ma questi aspetti vanno ridotti all’essenziale, perché il focus è mostrare come lui ha interpretato il suo tempo e cercato di guidare la storia in quel periodo.

Un’ultima indicazione didattica: potrebbe essere interessante, mentre si sviluppa la storia del progetto napoleonico, fare un flash con la storia d’Italia, perché nel 1796, quando arriva in Italia invitando a realizzare delle repubbliche sorelle di quella francese, innesta per certi versi l’idea dell’unità d’Italia. Ma Vincenzo Cuoco, che è stato un patriota filofrancese, e che ha vissuto in diretta il fallimento della Repubblica partenopea, perché il popolo dell’Italia meridionale ha preferito seguire gli Insorgenti e tornare sotto i Borboni piuttosto che restare sotto i liberatori francesi, studiando i motivi del fallimento del progetto di “liberazione” rivoluzionario, comunica al giovane Manzoni l’idea che le rivoluzioni imposte ai popoli non possono funzionare e che le vere rivoluzioni possono realizzarsi solo riscoprendo le proprie tradizioni e virtualità: nasce da questi dialoghi l’ideale del Risorgimento italiano, che è quindi una visione ben diversa da quella della Rivoluzione francese. Ricordo a questo proposito il saggio del Manzoni La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, che dice che quella francese è una rivoluzione sbagliata perché fondata su principi astratti, mentre quella italiana è una rivoluzione positiva proprio perché vuole realizzare una realtà che già era insita nel popolo. L’Italia infatti è «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor»; perciò il compito è quello di ritrovare l’indipendenza in nome dei valori tradizionali, ecco il senso dell’idea del Risorgimento.

Didatticamente diventa perciò interessante svolgere prima la Rivoluzione francese e il progetto napoleonico e poi mostrare come già in radice l’idea del Risorgimento italiano fosse diversa.

Alessandro Cortese

Francesco legge Dante: un commento alla lettera apostolica Candor Lucis aeternae – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Francesco legge Dante: un commento alla lettera apostolica Candor Lucis aeternae – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Il 25 marzo 2021, Solennità dell’Annunciazione del Signore e giornata nazionale dedicata alla riscoperta delle opere di Dante Alighieri (il “Dantedì”, istituito dal Consiglio dei ministri il 17 gennaio 2020), papa Francesco ha emanato la lettera apostolica Candor Lucis aeternae (“Splendore della Luce eterna”, dalla prima frase della versione originale in latino del documento), interamente dedicata al Sommo Poeta.

Con questa lettera, consultabile anche sul sito istituzionale della Santa Sede – http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/papa-francesco-lettera-ap_20210325_centenario-dante.html (25-04-2021) -, il Santo Padre non solo si accoda ai numerosi uomini di cultura e delle istituzioni, intellettuali o semplici appassionati che da tutte le parti del mondo hanno decantato, in queste settimane, le opere del poeta fiorentino, scomparso a Ravenna esattamente 700 anni fa.

Con tale lettera papa Francesco vuole infatti rafforzare la continuità del suo magistero con quello dei predecessori. Non poche sono state, nel passato più o meno recente, le parole spese dai Romani Pontefici per esaltare le opere dell’Alighieri e, allo stesso tempo, per suggerirne la lettura e l’approfondimento spirituale alle comunità cristiane di tutto il mondo.

Non è un caso quindi che, dopo una breve introduzione in cui il papa individua in Dante colui che, meglio di molti altri, «ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore» [pag. 2], Francesco dedichi una buona parte della lettera a presentare i principali interventi pontifici su Dante sin dai tempi di Benedetto XV (autore, nel 1921, della lettera enciclica In praeclara summorum, interamente dedicata al Poeta). In questo senso la Candor Lucis aeternae rappresenta uno strumento straordinario per poter ripercorrere, secondo una prospettiva originale, la storia della Chiesa cattolica nell’ultimo secolo.

Il Santo Padre sofferma la sua analisi storica in particolare sul rilancio della figura di Dante Alighieri durante il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), al termine del quale Paolo VI, oltre ad emanare la lettera apostolica Altissimi cantus per il settimo centenario della nascita di Dante, donò ai padri conciliari una copia della Commedia.  A seguito del rinnovamento conciliare e dinanzi alla necessità di individuare modelli culturali in grado di arginare la crisi educativa della società europea, divenuta lampante soprattutto dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si può notare come i papi e la Chiesa abbiano sempre più individuato in Dante e nelle sue opere  un’ancora di salvezza per il Vecchio Continente. Si legge infatti nel documento papale che «l’opera di Dante […] è parte integrante della nostra cultura, ci rimanda alle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente, rappresenta il patrimonio di ideali e di valori che anche oggi la Chiesa e la società civile propongono come base della convivenza umana, in cui possiamo e dobbiamo riconoscerci tutti fratelli» [pag. 6]. La citazione precedente rappresenta forse il passo cruciale della lettera, scritta da un papa latino-americano, giunto dalla “fine del mondo”, che si sente profondamente europeo e che individua in Dante un araldo dell’europeità e della fraternità cristiana.

L’attenzione successiva di Francesco si sofferma sul valore strettamente educativo della Commedia, in cui il viaggio attraverso le tre cantiche rappresenta un «paradigma della condizione umana» [pag. 7] e in cui il Dante-pellegrino assume la fisionomia del «profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità» [pag. 8]. Nella Commedia, sottolinea Francesco, Dante si fa paladino della libertà dell’uomo e della ricerca di Dio, vengono esaltate le virtù della misericordia e della giustizia, trova spazio l’eroicità tipicamente femminile di Maria, Beatrice e Lucia e la povertà di Francesco d’Assisi.

La proposta educativa di Dante, ribadisce il Santo Padre nella parte conclusiva del testo, rimane attuale ancora oggi perché «il suo umanesimo è ancora valido» [pag. 14] ossia perché è ancora in grado, come pochi altri casi, di parlare direttamente al cuore dell’uomo e di indirizzarlo alla ricerca di quel Dio in grado di colmare le speranze profonde dell’umanità. È per questo motivo che, come si può leggere in conclusione alla lettera, il papa invita la cristianità a divenire “compagna di viaggio” di Dante e intraprendere, insieme a lui, quell’unica Via che permette di «vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità» [pag. 13].

A noi insegnanti, insieme a tutto il mondo intellettuale di questo Paese, è dunque richiesto di lasciarsi conquistare dalla bellezza delle opere del Sommo Poeta e, di conseguenza, divenire testimoni della modernità del messaggio dantesco per un’umanità che ha sempre più sete di speranza e di pace.

Stefano Sasso

L’uomo senza volto – (Newsletter n.9 aprile 2021)

L’uomo senza volto – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Paese: USA – Durata: 114 minuti – Regia: Mel Gibson

Recensione 

Un ragazzino sogna di essere celebrato come eroe dall’accademia militare e dai membri della sua famiglia, il suo punto di riferimento è John Wayne, ma il suo bisogno più grande è quello di colmare il vuoto di una figura paterna assente.

Tra il 12enne Chuck Norstadt e l’insegnante Justin McLeod (Mel Gibson) nasce un legame di amicizia che per entrambi costituisce la trama di un percorso di crescita personale; Chuck cerca un padre/guida per fuggire la mediocrità di un contesto familiare in cui non riesce a trovare un suo spazio, Justin, rimasto sfigurato dopo un grave incidente, prova ad autopunirsi rifugiandosi in una vita solitaria fatta di musica, scultura, pittura e poesia. 
L’uomo senza volto rivela quasi subito la natura ambivalente di un ‘eroe’ diviso tra zone oscure e obblighi morali; natura che si rispecchia in un viso per metà perfetto e per metà devastato dalle cicatrici di gravissime ustioni e rimanda al personaggio Due Facce della serie di fumetti Batman.

L’arrivo di Charles porta una ventata d’aria fresca nella vita tormentata del professore; con lui può tornare ad insegnare, ma non solo: torna a parlare, a sorridere, a scherzare, a confortare… ad amare; nonostante il pregiudizio delle persone che li circondano che non riescono ad andare oltre l’apparire e non colgono la bellezza che traspare dalla relazione tra il professore e il ragazzo. La colpa di cui il professor Mc Leod viene accusato è quella di amare il suo alunno, di amarlo come un vero padre, come quel padre che Charles non ha mai avuto accanto, di abbracciarlo con l’innocente speranza di un semplice conforto.
Impara o vattene, è il motto un po’ sbrigativo del processo educativo di Justin e Chuck, spinto da un forte desiderio di conoscenza, vince la repulsione iniziale per la deformità corporea e dei modi poco ortodossi del maestro, per progredire in un percorso di conoscenza, ma soprattutto di scoperta di sé. Il filo conduttore della loro relazione è l’impostazione di un educazione “al maschile” l’incentivo a cogliere la sfida e la necessità di porsi sempre obiettivi ambiziosi. Chuck proclama la sua voglia di cambiare il sistema e il desiderio di staccarsi in volo da terra per vedere le cose dalla giusta prospettiva (bellissima la scena del volo con il piccolo aeroplano sospeso sopra le acque dell’Atlantico).
In una società bigotta che finge di essere rivoluzionaria per poi fermarsi alla superficie della verità e osservare solo una parte del volto, l’amicizia tra Chuck e Justin resiste alla maldicenza e alla illazione e rivela la tristezza di un mondo che, se trasformato in palcoscenico, costringe ognuno a recitare una parte, a discapito della scoperta di sè.

L’uomo senza volto può essere definito un racconto di formazione che esalta il tema dell’amicizia senza mai cadere nel retorico, ma soprattutto fa riscoprire la bellezza dell’insegnamento in cui l’adulto, l’insegnante, affianca e guida il ragazzo nel suo percorso crescita, con il desiderio di portarlo alla scoperta di sé e dei propri talenti.
Il finale riprende i cappelli lanciati in aria del sogno di Chuck nel prologo: oltre il muro di folla, il saluto di Justin, del maestro all’allievo, è un messaggio di incoraggiamento e speranza di chi ha percorso un tratto di strada al suo fianco e ora è pronto a farsi da parte per lasciarlo entrare nell’età adulta.

Francesca Guglielmi

Dante Filosofo – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Dante Filosofo – (Newsletter n.9 aprile 2021)

     In occasione del centenario della morte di Dante, un secolo fa Benedetto Croce scrisse il saggio Poesia e non poesia in Dante, sostenendo che accanto a brani lirici di imponente grandezza (Farinata degli Uberti, il conte Ugolino, Ulisse ecc.) il resto del poema si potesse considerare tessuto connettivo con divagazioni filosofiche e teologiche del tutto obsolete. Il saggio era funzionale alla concezione estetica del Croce, ma non coglieva l’essenza della concezione dantesca. La sua Commedia è una solida architettura di idee che ha operato la sintesi tra la cultura classica e il mondo cristiano.

La struttura presenta un canto di introduzione e tre cantiche di trentatre canti ciascuna racchiusi in rigorosa terza rima. Compaiono centinaia di personaggi che con la loro storia personale soddisfano la fame di conoscenza del poeta e qualche volta vengono incontro al suo desiderio di vendetta. Il poema è una cattedrale di idee, folto di statue, ma senza nascondere la rigorosa architettura gotica sottostante, lo stile architettonico più innovativo rispetto all’antichità classica.

     Dante è vissuto nel XIII secolo, per certi aspetti il più glorioso della cultura italiana. Il secolo inizia con san Francesco, un uomo moderno nel senso che somiglia più a noi che agli uomini dell’età classica. È il primo che si accorge del paesaggio, degli animali, della realtà che lo circonda, dove tutte le cose proclamano di non essersi fatte da sé, perché le ha fatte un altro, Dio, che perciò merita ogni attenzione. La notizia più importante è che Dio si è fatto uomo per condurre l’uomo a Dio. Il presepio di Greccio aveva il valore di una testimonianza totale: rievocare il Natale come era avvenuto la prima volta a Nazaret in Palestina.

     Il secolo prosegue con san Tommaso d’Aquino, l’intellettuale più rigoroso che viene conquistato dal realismo di Aristotele. In quel momento, specialmente a Parigi, di Aristotele si apprezzava la logica e la filosofia della natura. Tommaso e il suo maestro Alberto Magno sono convinti che la grandezza di Aristotele vada cercata soprattutto nella metafisica e nell’etica in grado di umanizzare gli usi e costumi ereditati dalla società germanica.

     Dante crebbe in una Firenze dominata dalla fazione dei Guelfi: Federico II era morto nel 1250 e il figlio Manfredi nel 1266, nel corso della battaglia di Benevento che cancellava la rotta dei Guelfi avvenuta a Montaperti nel 1260, quando fu solamente Farinata degli Uberti a impedire che Firenze venisse rasa al suolo. Il partito dei Guelfi era dominato dall’affarismo più scatenato. Uniche oasi concesse alla cultura erano gli Studia generalia dei Domenicani a Santa Maria Novella e dei Francescani a Santa Croce dove venivano discusse le tesi di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura mediante lezioni aperte al pubblico e frequentate anche da Dante. Questi apparteneva a una famiglia che possedeva due poderi, ma vantava la presenza di un trisavolo cavaliere, Cacciaguida e perciò in qualche misura aristocratica, perché non amava i “súbiti guadagni” di chi “Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene”.

     Dante è essenzialmente un autodidatta. Certamente ci furono alcuni soggiorni di studio a Verona nei primi anni dopo l’esilio, dove poté esaminare i codici della biblioteca capitolare e a Bologna, sede della più famosa facoltà di diritto civile. In Firenze, il personaggio più in vista era Guido Cavalcanti che aveva fama di filosofo. Dante sentiva che la sua posizione era tra gli aristocratici, coloro che in guerra andavano a cavallo, mentre in tempo di pace poteva partecipare ai tornei letterari suscitati dall’entusiasmo per il “dolce stil nuovo” che aveva eclissato la fama della scuola poetica siciliana. Il frutto maturo di questa stagione è la Vita nuova, il mirabile libretto in versi e in prosa che fece di Dante il più promettente letterato della città.

     Col nuovo secolo, Dante si impegnò anche in politica, ma il suo insuccesso fu completo. Assistette allo scontro delle fazioni interne ai Guelfi, ossia tra Bianchi e Neri, i partiti che facevano capo ai Cerchi e ai Donati. Dante non apparteneva al partito dei Donati che risultarono vincitori. Essi si affrettarono a imbastire un processo per baratteria terminato con la condanna a morte di Dante che per due mesi aveva esercitato la carica di priore. Il poeta si trovava fuori di Firenze e vi rimase per il resto della vita. I fuorusciti Bianchi tentarono per qualche anno di radunare un esercito formato dai feudatari del Casentino, ma senza successo. Dante, deluso dalla politica, decise di “far parte per se stesso”, conquistato da un progetto filosofico. Gli uomini sarebbero sempre rimasti fuorviati se non partecipavano a un convivio di sapienza che li scampasse dall’errore. Iniziò il progetto del Convivio che doveva essere un trattato in lingua volgare composto di quattordici canzoni, ciascuna seguita da commento, più un trattato introduttivo. Dopo quattro canzoni il progetto si interruppe. Si deve supporre  che Dante sia rimasto folgorato dal progetto della Commedia, un poema a cui avrebbero posto mano “e cielo e terra” per spiegare a tutti in lingua volgare, ma con l’allettamento del verso, la filosofia di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura, in grado di ricondurre Chiesa e Impero nel proprio ordine razionale, assicurando agli uomini la pace e la felicità. Sembra che i primi sette canti dell’Inferno siano stati composti intorno al 1304 e i critici ritengono che siano canti tipicamente fiorentini.

     Dante scriveva un ottimo latino che impiegò per il De vulgari eloquentia e per il De monarchia, ma non era un umanista alla maniera del Petrarca che cercava la gloria con la poesia latina.

Dante perciò è poeta-filosofo perché si propone di rendere accessibile la conoscenza della filosofia esposta in latino da san Tommaso anche a coloro che non conoscono quella lingua. Gli episodi lirici della Commedia hanno il compito di attirare mediante drammatizzazione l’attenzione del lettore, ma perché accolga la conclusione filosofica e teologica del problema affrontato.

Se chi legge la Commedia fosse serio, al termine della lettura del poema dovrebbe apparire una persona trasformata in radice. Proverebbe ripugnanza di appartenere al gruppo degli ignavi che non scelgono né il bene né il male, finendo come “color che non fur mai vivi”, rifiutati anche dall’Inferno. Inoltre il sapiente lettore saprebbe che nell’Inferno i dannati sono divisi secondo il loro peccato più grave. Si può peccare per debolezza, per malizia o per matta bestialità. Nello stesso girone vengono condannati alla medesima pena coloro che hanno mancato gravemente contro una virtù. Infatti, la virtù è come il culmine tra due bassi avvallamenti occupati dai vizi per eccesso e per difetto. Ad esempio, il coraggio è il culmine tra la codardia di chi teme anche la propria ombra e la temerarietà di chi presume di sé e si espone per spavalderia a pericoli inutili. La pena segna il contrappasso rispetto alla colpa: i golosi che in vita si sono dedicati alla scoperta di sapori sottili e rari, trascurando la sobrietà del cibo e della bevanda, sono condannati a vivere in “grandine grossa, acqua tinta e neve/ per l’aere tenebroso si riversa; / putre la terra che questo riceve” (Inf. VI, 10-12).

     Forse è bene capirsi. Da due millenni e mezzo c’è l’accordo, e non solamente in occidente, che un uomo vale per le qualità possedute. Ne esistono quattro –prudenza, giustizia, fortezza, temperanza- che risultano fondamentali perché ogni altra qualità umana si può ascrivere come parte potenziale a una di quelle citate. Tali virtù si acquistano con la costante ripetizione degli atti corrispondenti e si perdono con la loro omissione. Non può essere considerato virtuoso un uomo carente in modo grave anche di una sola delle virtù indicate.

Alasdair McIntyre con un libro divenuto famoso, Dopo la virtù, dimostrò che non esiste una fondazione filosofica della morale più valida di quella presente nell’Etica nicomachea di Aristotele.

Dante è vissuto in una città dilaniata dai contrasti tra partiti guidati da famiglie rivali, ha assistito all’incendio delle case dei nemici politici, alla loro cacciata in esilio, ai loro tentativi di rientrare alla testa di un esercito che a sua volta avrebbe cacciato dalla città i perdenti di oggi. In termini monetari si potrebbe affermare che le spese di guerra, notoriamente improduttive, erano infinitamente superiori ai profitti che si potevano sperare e perciò risultava spaventosa la condizione della Romagna “che non è mai sanza guerra nel cuor dei suoi tiranni”. La geografia dell’Inferno, con la presentazione icastica dei dannati sottoposti alla legge del contrappasso diventa la più splendida dimostrazione della verità della filosofia di san Tommaso d’Aquino, divenuto il più grande interprete di Aristotele.

    Il Purgatorio è un’esigenza di ragione: se in Paradiso si entra solamente quando i conti con la giustizia sono stati pareggiati, occorre il soggiorno in un luogo di purificazione che renda ciascuno “puro e disposto a salire alle stelle”. I personaggi qui incontrati da Dante e Virgilio rivelano il rimpianto del tempo perduto per non aver aderito a un programma razionale di vita. Ora si trovano a dover ascendere la montagna dalle sette balze, ossia la purificazione dalle scorie del peccato. Incantevole l’episodio di Casella il cui amoroso canto fa dimenticare per un poco alle anime di “ire a farsi belle”, sollecitate dal rimprovero di Catone: “Che è ciò, spiriti lenti?/ qual negligenza, quale stare è questo?/ Correte al monte a spogliarvi lo scoglio/ ch’esser non lascia a voi Dio manifesto/: nel corso della vita terrena solamente l’arte è in grado di consolare e riempire la vita di un uomo. 

     Virgilio conduce Dante fino al culmine della montagna, metafora della ragione che conduce ogni uomo ad ammettere la possibilità dell’esistenza di Dio. Dante con ogni probabilità poté riflettere sull’affermazione di san Tommaso d’Aquino che non si deve credere per fede ciò che si può comprendere facendo uso della ragione. Esiste perciò la teologia che è lo sforzo della ragione umana per introdursi nel mistero divino reso manifesto dalla fede, che a sua volta risulta dalla piena adesione dell’uomo alla rivelazione divina. Dante perciò affronta il giudizio circa le tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Superato l’esame può entrare nel Paradiso e salire fino all’Empireo passando attraverso il cielo della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove e di Saturno. Infine, preceduto dalla supplica di san Bernardo di Chiaravalle alla Vergine, viene ammesso all’ultima visione, a contemplare il mistero della Trinità.     

La grandezza di Dante filosofo e d’aver rispettato i campi di competenza altrui: egli considera come il suo peggior nemico Bonifacio VIII, ma ne contesta solamente le scelte politiche che non condivide, senza rifiutare la religione del papa inventandone una nuova. Quando Enrico VII accenna a rivendicare i diritti del Sacro Romano Impero, Dante si pone immediatamente al suo seguito indicando quali sono i diritti dell’Impero. L’Imperatore ha ricevuto direttamente da Dio il potere e deve provvedere al bene della pace superiore ad ogni altro per la vita dei cittadini. Papa e Imperatore hanno il compito di assicurare a ciascun uomo, il primo la vita eterna e il secondo la felicità sulla terra. Perciò Papa e Imperatore devono collaborare, essendo ciascuno autonomo nel proprio ambito di competenza. Nella realtà le cose andarono diversamente. Enrico VII venne in Italia, alcuni comuni lo rifiutarono, il papa si trovava ad Avignone e non andò a Roma per l’incoronazione, mentre vi andò Roberto d’Angiò re di Napoli per impedire ad Enrico VII di rafforzarsi in Italia. Infine l’imperatore morì nei pressi di Siena lasciando ogni cosa più confusa di prima. Dante perdette definitivamente la possibilità di ritornare a Firenze, dovette “salire e scendere per l’altrui scale” imparando “quanto sa di sale il pane” così ottenuto. Trovò rifugio presso Can Grande della Scala a Verona e da ultimo a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove concluse la redazione del Paradiso.

Prof. Alberto Torresani

DANTE – Un giovane di 700 anni che non può restare parcheggiato sul comodino – (Newsletter n.9 aprile 2021)

DANTE – Un giovane di 700 anni che non può restare parcheggiato sul comodino – (Newsletter n.9 aprile 2021)

di Gianluca Zappa (fonte: Il Sussidiario.net – 25.03.2021)

Secondo l’autore, insegnante, l’anniversario dantesco è l’occasione quanto mai opportuna per rileggere Dante, specie in questo periodo di incertezza e angoscia generale. Non lo dobbiamo lasciare sul comodino, ma fare i conti con lui, con la sua parola profetica e coraggiosa.

“I Budda vanno sopra i comodini” cantava Franco Battiato in Magic Shop, un brano del lontano 1979, che era un’entrata a gamba tesa contro la stupidità del consumismo arrembante. All’epoca, figuriamoci oggi! Il  Budda che stavolta corre il rischio di finire sul comodino si chiama Dante Alighieri. Veramente è già finito sui meme, sui social, negli spot pubblicitari, nei biglietti di auguri, nei messaggini che accompagnano i cioccolatini… Cosa non si fa e non si farà in questo 2021, settecentesimo anniversario della sua morte! C’è una ditta di abbigliamento che propone una maglietta per adolescenti con la stampa, in bella evidenza, di una frase che Dante non ha mai detto. Riguarda la fama umana, ma è una parafrasi, anzi, magari lo fosse: è un riassunto di quello che Dante scrive nel canto XI del Purgatorio! Se un verso ha da finire su una maglietta, che sia per lo meno un vero verso! Niente da fare.

Del resto il genio di Dante ha prodotto un’opera densa di tanti endecasillabi folgoranti (che dicono un paesaggio, uno stato d’animo, un evento, un’esperienza, un mondo, addirittura un mistero inesprimibile), che è inevitabile saccheggiarla come un ricchissimo serbatoio di immagini. E in fondo è giusto così: i grandi poeti, è noto, sono quelli che dicono la parola che tutti volevano dire, ma che non riuscivano a trovare, sono quelli che riescono a leggerci meglio di quanto noi non siamo capaci. Quindi ben vengano i versi di Dante anche sulle magliette, anzi, sarebbe bello che ognuno indossi la maglietta col verso che ritiene “suo”, quella che più lo descrive, lo conforta, lo aiuta, gli illumina la vita. Ma perché questo accada, bisogna fare i conti, in modo serio, con l’autore e con la sua opera.

In verità a me sembra che Dante sia come una bella donna alla quale nessuno, o pochissimi, proprio per la sua straordinaria grande bellezza, osano avvicinarsi. Oppure come un tesoro prezioso riconosciuto da tutti, noto a tutti, sulla bocca di tutti, per ottenere il quale nessuno vuole impegnarsi ad usare la pala. Sì, qualche verso biascicato, più o meno verificato; qualche episodio famoso più o meno conosciuto e pochissimo compreso; qualche terzina recitata a memoria come una filastrocca, un po’ come il “m’illumino d’immenso” di Ungaretti; sì, qualche episodio della sua vita, retaggio dell’istruzione scolastica, un po’ di gossip su quella storia con Beatrice alle spalle di Gemma… Tutta questa fuffa sì, va bene. Ma fare della Divina Commedia quello che può diventare davvero, per tutti, e cioè il libro della vita dentro il quale non si finisce mai di penetrare… questo è un altro paio di maniche. Il Budda sul comodino, appunto. 

Il fatto è che Dante e il suo “poema sacro” mettono paura. Là dentro, lo si sa bene, ci sono troppe cose: più di seicento personaggi con le loro storie, spesso tratte dal mito, spesso da un mondo medievale sideralmente lontano da quello contemporaneo; e poi riferimenti dotti ad altri poeti e teologi e filosofi; e allegorie difficili, alcune anche impossibili da decifrare (per cui bisogna mandare a memoria non solo l’allegoria, ma anche tutte le interpretazioni dell’allegoria, entrando in un imbuto senza fine che toglie il respiro); e poi astronomia, e scienze dell’epoca (trivio e quadrivio); e quel volgare che troppo spesso richiede una spiegazione che puoi trovare solo in nota.

Ecco, le note… Se pensi alla Divina Commedia pensi, più che alle terzine di Dante, a tutto l’apparato monumentale che la accompagna e quasi l’invade.

A scuola il testo ci è arrivato così, come un insieme di canti slegati, di personaggi slegati, di frammenti l’uno vicino all’altro, da studiare, da approfondire, da “trattenere” in qualche modo. Le note sostanziavano i nostri incubi. Roba da specialisti, non per l’uomo comune. Buffo destino per un poeta che proprio lì, in quel poema, ha scritto che “non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso”.

“Ritenere”… trattenere dentro di sé, in qualche modo rivivere, immedesimarsi, penetrare dentro un’esperienza. Dante ci invita a questo, questo definisce vera scienza, vero conoscere (ciò che tutti gli uomini desiderano). Ci si pone di fronte con tutta la forza della sua visione, con la serietà gioiosa di chi ha davvero visto Dio, e ci chiede di seguirlo nel suo viaggio bello e drammatico dall’esito glorioso. Ci apostrofa, ci scongiura di fare la strada con lui in questo “cammin santo” che si confronta con quelle Colonne d’Ercole (prendo a prestito la bella intuizione di Davide Rondoni che ho sentito parlare la scorsa settimana in una delle lezioni dei Colloqui Fiorentini) che rappresentano il mistero della nostra vita, di ogni istante della nostra vita. La Commedia è divina perché è profondamente umana, nel senso che nasce, vive e chiama in causa l’uomo, tutto l’uomo, ogni uomo.

Ci siamo proprio noi lì dentro, i nostri desideri, le nostre domande, i nostri errori. Gli sviamenti, le insoddisfazioni, i limiti, le paure, ma anche la nostra continua esigenza di perdono e di significato, di verità, di bellezza, di amore. Qualcuno ha detto che il viaggio nell’aldilà è in effetti un viaggio nell’aldiqua. È una bella immagine, ma dobbiamo andare al grande e felice messaggio che Dante ci vuole lasciare: a questo poema (che narra una storia sacra, e che è scritto quindi secondo l’allegoria dei teologi, come la Bibbia) hanno posto mano “e cielo e terra”. La realtà davanti alla quale ci pone Dante è dunque questa: Dio mi ha incontrato, mi ha visitato, mi ha abbracciato! Solo questo, nientemeno che questo. Il Cielo è venuto incontro alla terra e l’ha redenta. È il Natale e la Pasqua insieme. Può bastare o abbiamo bisogno di altro?

Certo, questo annuncio è una sfida, perché è verificabile e reperibile solo dentro un’esperienza. “Expertus potest credere”, cantava la Chiesa con un inno composto, pare, proprio da quel san Bernardo che Dante sceglie come sua ultima guida nell’imminenza di Dio. Ma è una sfida per la vita, non per la morte.

Il centenario di Dante cade in un 2021 quasi dilaniato dalla paura, dall’angoscia, dall’incertezza. Mai come oggi abbiamo bisogno della forza profetica di qualcuno che ci dica che cambiare vita è per il bene. E Dante è questo profeta, un uomo che ha dimostrato, con coraggio e coerenza, di essere uno che dice il vero fino in fondo, che “vede e vuol dirittamente e ama”. Di uno così abbiamo un’autentica, stringente necessità. Dobbiamo smettere di fuggire il suo poema o di girargli intorno smozzicandone qualche bella immagine. Dobbiamo farci i conti. Non merita, non può finire sul comodino!

Gianluca Zappa

A scuola con Dante – (Newsletter n.9 aprile 2021)

A scuola con Dante – (Newsletter n.9 aprile 2021)

Nel 2021 ricorre il VII centenario della morte di Dante Alighieri, il sommo Poeta che più di tutti ha “sdoganato” la lingua italiana e ha consegnato ai posteri uno dei più grandi capolavori dell’intelletto umano.

Uomo del suo tempo, pienamente inserito nella realtà sociale, politica e culturale del Medioevo, Dante si è tuttavia fatto interprete delle immortali aspirazioni del cuore e della mente dell’uomo.

Prof. Rizzi, sappiamo che lei utilizza molto – e con grande profitto – la Divina Commedia nelle sue lezioni con alunni della scuola secondaria di I grado. Come riesce ad entusiasmare i ragazzi del III millennio all’opera dantesca, così lontana dai loro riferimenti culturali?

«Nel mezzo del cammin di nostra vita…» sembra un incipit rivolto primariamente a persone già ricche di esperienze e con anni alle spalle, ma Dante voleva essere davvero così “esclusivo” o avrebbe avuto il piacere di sapere che il suo testo interpella e coinvolge anche i più giovani o addirittura i giovanissimi? Effettivamente quest’anno con i ragazzi di una seconda secondaria abbiamo intrapreso il viaggio che Dante ha inaugurato e di cui si propone come guida: per me è stata la prima volta che mi capitava di provare a rendere destinatari della “Divina Commedia” dei ragazzi di dodici anni. Indubbiamente all’inizio dell’anno, durante il periodo delle “fatidiche” programmazioni, avevo qualche dubbio su come potesse essere recepito e accolto questo testo, cioè sulla possibilità per ragazzi della scuola secondaria di primo grado di avere gli strumenti e le capacità per, non solo comprendere, ma anche apprezzare – e magari anche entusiasmarsi – per le terzine più famose della letteratura italiana. L’opportunità e l’efficacia della proposta, mi sono detto, passerà inevitabilmente dalla capacità di intercettare un loro interesse, una loro domanda o semplicemente una loro curiosità. Dante può rappresentare un punto di attrazione per i giovanissimi oppure come i tanti oggetti “culturali” (musei, mostre, conferenze, ecc.) alle loro orecchie il solo nome o la sola proposta produce un immediato calo dell’interesse e un crollo, quasi spontaneo, della loro attenzione? Tanti sono gli elementi che potrebbero scoraggiare quest’occasione che abbiamo scelto di perseguire quest’anno: l’ostacolo linguistico, la non immediatezza di alcuni temi trattati, la difficoltà oggettiva di alcuni contenuti, la lontananza storica, culturale delle vicende narrate, ecc. A ciò si deve aggiungere il fatto che parlare oggi a un ragazzo di seconda media di poesia significa, di fatto, perdere il contatto comunicativo: come iniziare a parlare in un’altra lingua, oscura e incomprensibile, e per giunta di scarso interesse. La poesia – queste sono le percezioni emerse più volte dai ragazzi – è lenta, “faticosa”, noiosa e i poeti sono inutilmente complessi, orgogliosi dei loro giochi di parole e completamente ripiegati su una sorta di sentimentalismo vuoto ed emotivo, un inno soggettivo e melanconico di un malessere di cui, sinceramente, se ne può fare anche a meno. MA – e questo ma vuole richiamare quello che spiega il motivo per cui Dante ha desiderato raccontarci il suo viaggio, forse il “ma” più importante della letteratura italiana: «MA per trattare del ben ch’i vi trovai, / dirò delle altre cose ch’i’ v’ho scorte» – i ragazzi a questa età sono appassionati di storie e sono avidi di esperienze. Storie, insomma, quelle in cui loro sguazzano quotidianamente e in cui sono totalmente immersi: i videogiochi ormai onnipresenti e che potrebbero essere considerati, a dirla grossa, i romanzi della nostra epoca; i social, con le “storie” di Instagram o i video di Youtube. Allora la domanda diventa: la storia di Dante può strappare dagli schermi la loro attenzione e accendere la loro curiosità? Come sempre, infatti, dipende dalle storie che si scelgono di raccontare: a me sembra che Dante abbia scritto “LA” storia che, se ben adattata, non può lasciare indifferenti. Adattamento: utilizziamo un testo in prosa con numerosi riferimenti alle terzine originali e, a volte, concedendoci il piacere di qualche episodio completo dall’”originale”. L’approccio narrativo, le storie dei singoli personaggi, i numerosissimi argomenti che scaturiscono dalla lettura sono gli ami che, una volta lanciati, prendono i ragazzi nella rete delle curiosità, delle domande, di un apprendimento che non nasce da un’imposizione esterna e si traduce solo in un mero accumulo di nozioni, ma una voglia di sapere che mi sembra possa essere considerata il vero obiettivo dello studio della letteratura. In più, aggiungerei il fatto che, sebbene oggettivamente alcuni contenuti siano difficili e distanti dalla loro esperienza quotidiana, il fatto di proporgli un testo “arduo”, di alzare un po’ l’asticella dell’ostacolo da saltare, ha prodotto una sorta di sfida rispetto alla quale i ragazzi di dodici anni – sì, anche quelli “di oggi” – non si sono tirati indietro. Anzi, in conclusione, direi che prenderli sul serio, trattarli da “grandi”, forse è proprio quello che cercano maggiormente e di cui hanno bisogno a questa età.

Quali sono i feedback che riceve dagli alunni durante e dopo le sue lezioni? Mi spiego meglio: riescono i contenuti dell’opera dantesca a “fare breccia” nelle menti e nei cuori dei suoi giovani allievi?

In un tema, nel quale ho chiesto loro di scrivere in merito a quale argomento avesse colto di più la loro attenzione, le “storie” che hanno generato più sorpresa (ma si potrebbe dire anche paura, commozione, ribellione, ecc.) sono state quelle degli Ignavi e quella del Conte Ugolino. Degli Ignavi colpisce come essi, non avendo scelto né il bene né il male, proprio per questo motivo, si trovino «a Dio spiacenti e a’ nemici sui», esclusi anche dall’Inferno. La prima volta che ho letto questo brano a ottobre sono stato letteralmente travolto da domande: moti di indignazione, domande esistenziali (“Non vado a Messa spesso né faccio nulla di male: perciò finirò in questo gruppo?”), considerazioni svariate sul perché e il percome Dante avesse fatto bene/male a creare questo specie di sottogruppo rigettato da tutti e punito in un modo così orribile e repellente. Anche durante il corso dell’anno questo episodio è stato uno di quelli che maggiormente ha “fatto breccia” ed è stato più volte richiamato all’attenzione e alla memoria. Per esempio in occasione del Dantedì a scuola abbiamo proposto alcune letture di Dante e il brano più scelto dai ragazzi è stato proprio questo. Molte altre vicende dell’Inferno hanno “fatto breccia”: Paolo e Francesca, Pier Delle Vigne, Ulisse, il Conte Ugolino e Lucifero. Indubbiamente l’Inferno è quello che ha attirato di più e che ha prodotto maggior curiosità. Ho percepito l’emozione sincera di alcuni ragazzi alla lettura del brano sul Conte Ugolino (un ragazzo è andato a Pisa in quei giorni e mi ha contattato online solo per dirmi che aveva visto la Torre della Fame), ho colto la curiosità di vari alunni nel vedere Dante mettere il suo maestro all’Inferno o nel vedere la forza con cui condanna uomini di Chiesa e alcuni papi. Seguire le storie dei personaggi, permettere loro di raccontarle e di riscriverle, chiedere la loro opinione: tutte modalità didattiche che sono servite a coinvolgerli e a mantenere vivo il contatto con il testo. Tre esempi concreti che hanno permesso di mantenere accesa la loro attenzione nel corso della lettura; potremmo intitolarli: “Trova la legge del contrappasso”, “Improvvisati un nuovo Dante”, “Leggi, rileggi e…impara a memoria”. La curiosità di vedere le pene dei dannati ha portato la stragrande maggioranza della classe a procedere in autonomia nella lettura per vedere la pena successiva: più di metà della classe aveva concluso la lettura dell’Inferno quando ancora in classe stavamo commentando le Malebolge. Scoprire la pena, saper spiegare il contrappasso, conoscere la struttura dell’Inferno (mi sono servito anche di qualche tavola e di qualche video), spiegare i diversi tipi di peccati, la loro tipologia e le loro caratteristiche, il “protagonista” di questo o di quell’episodio, sono stati gli elementi che hanno catturato la loro curiosità. Mi sono divertito molto nel leggere alcuni temi che gli ho assegnato in cui dovevano, per esempio, raccontare un certo episodio immedesimandosi in un personaggio dantesco oppure inventare una nuova pena per una categoria di peccatori contemporanea che a loro parere Dante avrebbe inserito nella Commedia se l’avesse scritta oggi. Vederli scrivere dei testi, tentando di mantenere il sapore dantesco, catalogando come traditori i cyber-bulli, condannando le slealtà quali le mormorazioni, le prese in giro o denunciando il razzismo…mi sembrano esempi significativi di come, sul modello di Dante, si possa prendere posizione rispetto ad alcuni comportamenti, la cui maggior consapevolezza li potrà aiutare nel mantenersene a distanza. Poi certo c’è stato anche chi si è divertito a descrivere le pene più crudeli per chi non studia o per coloro che non tifano una certa squadra, ma questo fa parte del gioco. Ho trovato molto utile, e mi sembra sia stato apprezzato, anche il fatto di imparare alcuni brani a memoria per poi recitarli: l’iscrizione sulla porta dell’Inferno, il discorso di Ulisse, la preghiera di san Bernardo…o addirittura un intero canto! Ho lanciato quest’ultima sfida durante la prima lezione e so che c’è qualcuno tra gli studenti che ci sta provando…vedremo nel prossimo mese

Quale reazione suscita l’aldilà in ragazzi abituati a una visione tutt’altro che trascendente, immersi costantemente nel presente?

Mi viene in mente una barzelletta in cui la maestra chiese alla classe chi tra gli studenti volesse andare all’Inferno: tutti gli alunni impauriti e timorosi rimasero al loro posto senza fiatare né alzarono la mano. Allora la maestra riprese: «Chi vuole andare in Paradiso?». Tutti nella classe risposero in fretta sbracciandosi e urlando uno sopra l’altro: «Io, io!». Solo Pierino non aveva mosso ciglio e non aveva alzato la mano a nessuna delle votazioni. La maestra preoccupata gli chiese: «Pierino, tu non vuoi andare in Paradiso?» e Pierino le rispose: «Per la verità, per ora, sto bene anche qua!» I ragazzi, nonostante le apparenze, pensano molto all’aldilà, e mi sembra che vadano presi sul serio, senza storielle o favolette che non accontentano più, non bastano alla loro età. Cercano spiegazioni, chiedono perché, vogliono, e a volte esigono, da genitori e professori o educatori in genere, la verità. Molti durante quest’età hanno già conosciuto la morte o la sofferenza perché magari hanno perso qualche persona cara: i nonni, una zia, il vicino di casa o un conoscente di famiglia per qualche incidente. Credo sia doveroso provare ad aiutarli a darsi delle risposte, sapendo che le domande sulla morte o sulle realtà ultime già le coltivano in modo vivo e personale. Credo che la Divina Commedia li possa aiutare a formarsi un pensiero, a riflettere sul bene e sul male, a mettersi in discussione: il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Ecco credo che Dante aiuti a non rimanere indifferente, a porsi domande, a non accontentarsi. Il problema della mancanza di trascendenza non è dentro gli alunni, ma è fuori di loro ed è così invadente questa sorta di appiattimento sull’oggi, sul possesso, sul “mio”, che penso che Dante possa solo essere un’occasione in più per ciascuno per alzare lo sguardo e gustarsi un po’ il panorama e cercare l’orizzonte. Viva Dante se riesce davvero a scuotere un po’ le rassicuranti, quanto ingannevoli, certezze della comodità e di un certo clima consumistico e egocentrico! Viva Dante se riesce a restituire un poco di interiorità e di capacità critica e di riflessione! Viva Dante se si generano discussioni e nascono occasioni di confronto su che cos’è il bene e che cos’è il male, su chi è l’uomo e chi è Dio. Direi che Dante può stimolare ad avere prospettiva, e non solo in una dimensione di fede, anzi direi che prima ancora incoraggia una riflessione a partire semplicemente da chi è l’uomo, da quali siano i suoi desideri e come questi si possano configurare in un orizzonte ampio di senso. I ragazzi di dodici anni frequentemente sono abituati a stare in superficie (spesso è la superficie di qualche schermo che diventa un filtro che può separarli o allontanarli irrimediabilmente dalla realtà stessa) e non sono abituati a scendere in profondità e a coltivare uno spirito riflessivo, tanto da diventare assuefatti o anestetizzati rispetto a ciò che li circonda. Sembrano indifferenti (solo sembrano!), ma bussando al cuore con la potenza del racconto di Dante credo che naturalmente si sentano scossi, messi in discussione, e diventino perciò attivi e partecipi: durante le lezioni molte volte, senza che io lo stimolassi, proiettavano ciò che leggevano sulla loro vita e molte volte sono venute fuori domande più esistenziali e cariche di significato. Direi che Dante incoraggia a guardarsi dentro e ciò è utile ad ogni età, particolarmente efficace in un’età in cui i ragazzi strutturano i primi “esperimenti” di pensiero critico e iniziano a prendere decisioni in autonomia.

Nella recente lettera apostolica Candor lucis aeternae, papa Francesco parla della vita di Dante come “paradigma della condizione umana”. È d’accordo con questa affermazione? 

Intanto mi ha fatto molto piacere costatare che anche Papa Francesco abbia dedicato attenzione all’anniversario dantesco. Sono convinto che lo stile “pastorale” di questo pontefice abbia intravisto in Dante un elemento di dialogo, un terreno fertile di semina e di confronto con l’uomo di oggi. Se è vero che la letteratura fa vivere le grandi storie in quanto esse sono espressione e simbolo dell’aspetto più profondo dell’umanità (e proprio perciò esse hanno la capacità di interrogare l’uomo di ogni epoca), allora credo che il Papa abbia desiderato, non solo unirsi ai cori di omaggio al Sommo Poeta, ma anche cogliere l’opportunità per incoraggiare l’uomo di oggi alla speranza cristiana. Lasciar parlare Dante attraverso la bellezza dei versi della Commedia perché essa “attrae” – un’altra parola chiave per Papa Francesco – e offre, allo stesso tempo, un cammino e una luce di speranza. Per dirla con Dostoevskij: «Lo conoscevi questo segreto? Ciò che fa paura è che la bellezza non sia soltanto spaventosa ma anche misteriosa. Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo». La bellezza, anelata e cercata da ogni uomo, – come il bene e il buono – spalanca le porte alla gioia ed è Dante stesso a confermarcelo, quando ormai arrivato alla fine del suo viaggio nell’Aldilà, nella festosità della rosa dei beati, intravede la Madonna e La descrive con parole semplicissime ma dense di significato: «Vidi ridere una bellezza». Per me questa è la sintesi più potente per raffigurarci il Paradiso, l’esito finale del viaggio «da l’infima lacuna de l’universo» alla visione stessa di Dio, a cui Dante ci stimola a guardare e a cui il Papa ci incoraggia a fare affidamento con fiducia. “Siamo nati e non moriremo mai più”, è uno degli appunti di Chiara Corbella Petrillo, una giovane madre e sposa prossima alla beatificazione (consiglio la lettura della commovente biografia): è un’altra testimonianza forte e audace di chi ha già percorso questo cammino.

Daniele Marazzina

Riccardo III – Un uomo, un re  – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Riccardo III – Un uomo, un re – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Paese: Stati Uniti 1996 – Durata 109 minuti – Regia: Al Pacino

Metà film, metà documentario, Riccardo III – Un uomo, un re (titolo originale Looking for Richard) è anche e soprattutto un omaggio di Al Pacino al teatro e in particolare a Shakespeare.

Egli, che è sia regista che protagonista, con attori amici simula una compagnia che deve mettere in scena il Riccardo III offrendo allo spettatore il resoconto delle prove sia in abiti normali sia in costume alternate a discussioni accalorate sul modo giusto di recitare i testi del grande drammaturgo (compreso un divertente accenno al pentametro giambico, il verso usato nella grande poesia inglese). Arricchiscono il tutto interviste a celebri interpreti shakesperiani e a studiosi universitari come pure visite ai luoghi significativi come la casa natale del bardo o al sito londinese dove sorgeva il Globe Theater.

Come ammette lo stesso regista, il suo sogno è trasmettere agli altri i sentimenti di Shakespeare, nonostante che il linguaggio usato, e le stesse trame dei testi, appaiano alla persona comune lontano e complicati, come emerge da alcune delle risposte date da passanti intervistati. Ma non tutte le persone comuni fermate per strada trovano Shakespeare noioso: la giusta grandezza del suo teatro viene colta da chi dice che “più che aiutare, Shakespeare istruisce”; oppure che egli “dà sentimenti”, e per questo “andrebbe insegnato nelle scuole”. Un altro ancora dice che “quando si sente quello che si dice”, le parole usate, anche se desuete, “hanno un significato più forte”, quasi a replicare a chi trova il linguaggio del bardo inglese irrimediabilmente distante e superato.

La passione di Pacino per l’opera Riccardo III, oltre alla sua indiscutibile bravura, è tale che a mano a mano che passa il tempo si riesce a entrare nella psicologia perversa e luciferina del personaggio oltre a conoscere l’ambientazione storica della tragedia. Figura realmente esistita, egli visse durante la Guerra delle due rose tra York e Lancaster. Riccardo, duca di Gloucester e fratello del re Edoardo malato e prossimo alla morte, è roso dall’ambizione di succedergli, anche a motivo della frustrazione patita a causa di una deformità fisica. Privo di scrupoli pur di conquistare il potere, tesse una fitta trama di congiure per eliminare i possibili rivali alla successione al trono. Ma la storia termina con la sua sconfitta per opera di Enrico Tudor, che lo ucciderà sul campo di battaglia di Bosworth Field ponendo così fine alla guerra civile che per trent’anni aveva insanguinato l’Inghilterra.

È al termine della storia che si trova la battuta più celebre del dramma, quando il re si trova appiedato, incapace quindi di allontanarsi dalla morte certa per mano dei nemici, e con un grido disperato esclama: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”.In conclusione, la scommessa di fondo di Looking for Richard è quella di dimostrare che la grandezza di Shakespeare (ma la cosa si potrebbe dire di ogni classico del teatro) oggi e sempre sta nell’insegnarci a conoscere l’animo umano nelle sue pieghe più intime, non con un discorso astratto, ma attraverso i sentimenti che la voce e il corpo degli attori sanno suscitare: pathei mathos, cioè “imparare attraverso la passione”, avrebbe detto il grande tragediografo greco Eschilo. E del resto è lo stesso Pacino ad avere detto che “Io credo che si reciti solo nella vita, mentre nell’arte si persegue solo la verità”.

Alessandro Cortese

Tecnologia e didattica – (Newsletter n.8 marzo 2021)

Tecnologia e didattica – (Newsletter n.8 marzo 2021)

di Fabio Gervasio (fonte: Orizzontescuola.it – 23.03.21)

La didattica a distanza sta provocando un grande cambiamento nella scuola a causa dell’uso sempre più pervasivo delle nuove tecnologie. Nell’intervista padre Paolo Benanti, francescano, individua le caratteristiche e i rischi insiti in queste innovazioni, sollevando le questioni etiche implicate dal progresso tecnologico nel campo della comunicazione e dell’informazione.

Tecnologia e didattica: la scuola serve ancora? Verso un’apocalisse? Risponde Padre Paolo Benanti, esperto di Teologia morale e bioetica

Padre Benanti, la crisi pandemica ha costretto il mondo della scuola a ricorrere massicciamente alla tecnologia mediante la didattica a distanza. La DAD è stata fondamentale durante il primo lockdown, oggi sono molti i dubbi in merito al suo utilizzo. Prima della pandemia abbiamo avuto approcci contrastanti nei suoi confronti passando da quello aperto, come nel caso del BYOD (Bring Your Own Device), a quello di totale chiusura, ad esempio vietando l’utilizzo di dispositivi in classe. Parafrasando Umberto Eco, secondo lei dobbiamo avere una visione apocalittica o integrata rispetto all’uso della tecnologia a scuola?

Per rispondere a questa domanda parto da un articolo di recente pubblicazione, febbraio 2021, apparso sulla rivista scientifica “Cyberpsychology, Behavior and Social Networking” e intitolato “Surviving Covid-19: the Neuroscience of Smart Working and Distance Learning”. È un articolo frutto del lavoro di uno studioso italiano, Giuseppe Riva, e di altri studiosi come Brenda Wiederhold e Fabrizio Mantovani, nel quale viene riportato il risultato delle loro ricerche che si sono concentrate sull’osservazione di cosa accade in persone sottoposte ad un processo continuato di apprendimento a distanza e di smart working. Partendo dal risultato del loro studio, e rimanendo sull’aspetto legato al distance learning, possiamo affermare che l’impatto su alcune fasi cognitive del cervello è un impatto particolare.

Per capirci meglio, quando l’apprendimento accade in un ambiente fisico dedicato, all’interno del nostro cervello si attivano dei neuroni che hanno una sorta di funzione GPS e che ci localizzano all’interno di quell’ambiente attivando una forma di memoria che è di tipo autobiografica. Tutto questo avviene all’interno di un ambiente la cui caratteristica è di avere una consistenza tridimensionale. Quando invece l’apprendimento viene surrogato da una tecnologia, la cui caratteristica è di essere di tipo bidimensionale perché ci vediamo attraverso uno schermo, si sperimentano delle sensazioni di disorientamento, ci si sente come di stare senza un posto e proviamo il disabbandono di un luogo, la classe, e questo aspetto bidimensionale produce, inoltre, una riduzione dell’identità professionale e sociale, provocando anche un po’ di Burn Out. È evidente, alla luce di quanto finora osservato, che lo strumento non è neutrale, inoltre è importante ricordare che nella fase dell’apprendimento hanno un ruolo di primo piano i neuroni a specchio, che, in una didattica mediata dallo schermo, non si attivano in maniera adeguata e riducono il senso di leadership nei confronti di chi ci sta parlando. In aggiunta possiamo riscontrare delle oscillazioni intercerebrali che cambiano il modo con cui si realizza una sorta di coinvolgimento con le restanti parti della classe. Quindi se dovessimo chiederci se la Didattica a Distanza possa essere equiparata alla didattica in presenza, alla luce delle ricerche neuroscientifiche la risposta è chiaramente no. Ma la domanda che lei mi ha posto non è semplicemente di carattere funzionale, è anche di carattere etico e quindi dovremmo chiederci anche “come reagire a tutto questo”.

Qui si apre la seconda questione, è chiaro che l’etica è sempre una scelta del bene possibile, allora se dovessimo scegliere tra nulla e la DAD è senz’altro meglio la DAD. Precedentemente abbiamo affermato che la DAD non è equivalente alla didattica in presenza, ma trovare un bilanciamento tra presenza e DAD è un aspetto sul quale dobbiamo affidarci a quelle che sono le migliori conoscenze scientifiche di coloro che stanno cercando di gestire la pandemia, in modo tale che ci possano dire quale sia veramente il momento necessario per sospendere la scuola in presenza per poi passare alla DAD. Senz’altro l’epoca che abbiamo vissuto ci ha fatto vedere che possiamo digitalizzare dei processi, il tempo esteso con cui abbiamo fatto vivere ai nostri ragazzi questi processi ci dicono che non è uguale il processo digitale dal processo fisico. Non è nullo, ma è meno efficace del processo fisico. La scuola ancora serve, allora non si tratta di essere apocalittici o integrati, ma di essere, se volete, etici, cioè di scegliere il massimo possibile per il bene dei ragazzi che abbiamo davanti.

La tecnologia ci sta portando verso un cambio epocale. Lei più volte ha ricordato che già in passato, nel XVI secolo, un altro artefatto tecnologico, la lente convessa, ha prodotto un cambio epocale. Cosa ha comportato il cambiamento in quel periodo e cosa ci dobbiamo aspettare oggi.

Quello che ha apportato la scoperta della lente convessa, con la realizzazione del telescopio e del microscopio, è stato un cambiamento sul come noi studiavamo e capivamo il cosmo e di come studiavamo e capivamo l’uomo. Abbiamo scoperto di non essere il centro dell’universo e abbiamo scoperto di essere fatti di piccole parti viventi che chiamiamo cellule. Entrambe queste cose hanno cambiato i nostri punti di riferimento.

Oggi un cambiamento analogo avviene ad opera del computer che lavora i dati, che non ci permette di studiare l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, ma l’infinitamente complesso delle relazioni che accadono. Questo approccio sta nuovamente cambiando il modo con cui studiamo il cosmo, si pensi al fatto che ascoltiamo i dati che sono sostanzialmente raccolti dai radiotelescopi nello spazio, e allo stesso tempo ascoltiamo l’attivazione neuronale di tutte quelle cellule che di fatto sono all’interno del nostro cervello. Questo cambiamento sta producendo una trasformazione il cui esito non ci è ancora noto, non siamo in grado di vederlo, ma è una trasformazione epocale che in alcuni miei testi ho chiamato Digital Age, o più semplicemente cambio d’epoca.

Cosa ci dobbiamo aspettare? Ci dobbiamo aspettare un cambiamento anche nel nostro modo di passare le competenze ai giovani, perché se cambiano i punti di riferimento, come è cambiato il curriculum scolastico, o il modo in insegnare nel passaggio dalla cultura classica alla cultura scientifica, probabilmente dovrà cambiare qualcosa anche in questa situazione.

La crescita esponenziale della tecnologia ha portato ad una interazione sempre più profonda con l’uomo. In una società liquida, come la definisce Bauman, la disponibilità di grandi volumi di dati, i Big Data, permette la realizzazione di Intelligenze Artificiali sempre più efficienti al punto di condizionarci nelle nostre scelte, lei ci parla di Algocrazia. Questo aspetto ha aperto una riflessione sull’uso corretto della tecnologia, della necessità di un’etica nella tecnologia, l’Algoretica. Ci spiega questi aspetti?

C’è uno studioso statunitense, Langdon Winner, che per spiegare cos’è l’etica della tecnologia chiedeva di osservare i ponti che sono stati realizzati sull’autostrada che da New York porta fino alla spiaggia, Long Island. Ecco, chi guarda i ponti vede solo dei ponti, se però noi scavassimo un pochino più a fondo noteremmo che i ponti sono stati costruiti un po’ più bassi rispetto all’altezza degli autobus, questo per consentire solo alle macchine di poter arrivare alla spiaggia e all’epoca in cui sono stati costruiti, ad opera di Robert Moses, è stata un’azione volontaria fatta per impedire a chi non possedeva una macchina, quindi alle fasce più povere e alle minoranze, di poter raggiungere la spiaggia. Nel suo ragionamento Langdon Winner arriva alla conclusione che ogni artefatto tecnologico è una disposizione di potere.

Oggi la questione non riguarda più la costruzione di ponti in calcestruzzo, ma di algoritmi che ci permettono di entrare o ci tengono fuori dalle basi dei dati, che ci permettono o non ci permettono di fare alcune cose, come ad esempio di volare, di ottenere un prestito, o che in alcuni casi vorrebbero di fatto gestire anche la giustizia. È evidente che il potere non è più in calcestruzzo ma è algoritmico, da qui il termine algocrazia. Cosa è chiamata a fare l’etica della tecnologia? Ad essere quella voce che domanda qual è il senso del bene e che cosa stiamo realizzando. È un nuovo capitolo dell’etica che cerca di rendere computabile agli algoritmi alcuni principi che animano la scelta del bene. Questo nuovo capitolo dell’etica, all’interno di questo viaggio, deve rendere visibili ed efficaci queste istanze, come fossero dei grandi guardrail digitali all’interno di questo mondo sempre più automatizzato.

Gli algoritmi ci condizionano nelle nostre ricerche. In ragazzi in fase di formazione cosa comporta questo aspetto legato all’algoritmo che ci permette di vedere solo alcune delle scelte possibili.

È chiaro che stiamo parlando di algoritmi, tante volte di intelligenze artificiali, che animano le piattaforme sociali. Possiamo pensare agli algoritmi come l’ermo colle di Leopardi, solo che sono meno poetici dell’ermo colle ed escludono lo sguardo su alcune cose e ci fanno focalizzare su altre. Gli studi che si stanno realizzando ci dicono che questi algoritmi sono in grado di creare una sorta di bolla intorno a noi nella quale vediamo sempre lo stesso tipo di notizie ripetute più volte. Questa bolla di ripetizioni plurali, di fatto crea una sorta di filtro sulla realtà e un ragazzo che è nel pieno sviluppo della crescita, che dovrebbe guardare con gli occhi limpidi dello stupore e della meraviglia, potrebbe in qualche modo essere condizionato, essere “educato”, non da un mentore, non da un Socrate, non da qualcuno che vuole il suo bene, ma da uno strumento che ha come unica finalità quello di tenerlo il più possibile su quella piattaforma perché chi la possiede in questo modo guadagna più soldi. Tutto questo è un qualcosa che ci chiede di agire, perché stiamo creando la prima generazione che utilizza il telefonino in maniera indistinta tra adulti e ragazzi. Cosa voglio dire con questo, facciamo un esempio, quando il segno del crescere era il motorino, il motorino non era una motocicletta, era adatto ai ragazzi. Oggi, invece, lo stesso strumento, il telefonino, è identico per un adulto o per un ragazzo. Questo ci porta a riflettere sui cambiamenti necessari per adeguare gli strumenti in base a coloro che saranno gli utilizzatori finali.

Nei suoi interventi l’abbiamo sentita spesso parlare dell’Oracolo di Delfi affiancandolo al nome di una delle più importanti società di database “Oracle”, oracolo, come se avessero in comune degli aspetti ben specifici. Ci spiega questo paragone?

È un gioco di parole. C’è un frammento di Eraclito, uno dei padri della filosofia, che dice che l’oracolo che è in Delfi non parla e non tace ma significa. Oggi quando noi interroghiamo un motore di ricerca esso non parla e non tace ma significa dei dati in base alla nostra ricerca. Quindi io uso questo gioco di parole per dire che tanti nostri contemporanei iniziano ad avere nei confronti del computer, soprattutto del computer che lavoro in internet, che lavora i dati, una sorta di accesso oracolare, come se fosse una specie di divinità, che dà delle sentenze, che dà delle risposte alla loro ricerca, al loro destino, al loro futuro. E questo accade quando lo utilizziamo per cercare, ad esempio, cose importantissime come l’anima gemella.

Anche il mondo della scuola sta vivendo un cambio epocale dove la conoscenza non è più esclusiva dei docenti. Molti ragazzi, definiti per semplicità come nativi digitali, sono più capaci nell’uso delle tecnologie rispetto ai propri insegnanti, gli immigrati digitali. Cosa comporta questo cambio di paradigma e quanto è importante pensare ad un’istruzione che porti ad un’alfabetizzazione digitale.

È fondamentale perché oggi assistiamo ad una nuova forma di analfabetismo. Se nel medioevo l’analfabetismo era entrare in una biblioteca e non saper leggere quello che c’era sui volumi, oggi un analfabetismo digitale lo potremmo definire come l’essere immersi all’interno di un flusso di dati, di parole, di video o di audio, e non sapere riconoscere cos’è la verità e cosa non lo è. Questa nuova forma di analfabetismo digitale può provocare qualcosa di simile a quello che ha provocato per analogia il vero analfabetismo, e cioè la dipendenza di chi non è alfabetizzato da chi invece è alfabetizzato. Questo può causare, di fatto, la cessazione di quella funzione sociale di integrazione, di sviluppo della persona, che è compito della scuola. Allora quella che noi chiamiamo alfabetizzazione digitale altro non è che una serie di strumenti che dobbiamo sviluppare e affinare per permettere alla scuola di svolgere pienamente il suo ruolo educativo, e non solo formativo, per questa generazione di nativi digitali.

Il Professor Floridi asserisce che siamo passati ad un uso tecnologico che dall’online è passato all’onlife, perennemente connessi. La società muta rapidamente con ripercussioni anche sul mondo della scuola. I ragazzi al termine del loro ciclo di studi si troveranno di fronte a lavori inesistenti al momento in cui hanno iniziato questo ciclo. La scuola, quindi, non deve formare persone in base alla società esistente, ma deve dare gli strumenti per poter affrontare le sfide future. Da qualche anno è stato introdotto il Coding nella scuola, è la strada giusta?

Questo è un dibattito molto ampio a livello internazionale. In pratica parte dalla domanda precedente, ci troviamo di fronte a un’inedita generazione che ha bisogno di essere alfabetizzata, ma l’alfabetizzazione non è spontanea, non è come la caccia nei leopardi o nei branchi di lupi, ha bisogno di un “Maestro”. Quindi ci dobbiamo chiedere a cosa li devono educare i “Maestri” del digitale. Negli Stati Uniti hanno risposto a questa domanda affermando che l’obiettivo è quello di arrivare a pensare come le macchine in modo tale da poter interagire nel miglior modo possibile con esse ed è partito il pensiero computazionale ed il Coding. Ma si sono accorti di avere un problema, in pratica non hanno insegnanti adeguati per applicare questi programmi. In Francia, invece, hanno pensato che è più un problema di come sia l’essere umano nel tempo digitale, hanno parlato di umanità digitale ed hanno sviluppato dei programmi.

Ma anche qui il problema è lo stesso, si sono resi conto di non avere professori preparati per tutto questo. Noi in Italia forse siamo un po’ più in ritardo, perché non ci siamo ancora posti fino in fondo questa domanda, se non in contesti come questo. Dobbiamo innanzitutto avviare un dibattito su questo argomento per cercare di dare la migliore risposta possibile e, allo stesso tempo, pensare quali caratteristiche necessitano coloro a cui sarà demandato il compito di fare il “Maestro” di questa generazione.

A questo punto le chiedo cosa voglia dire essere insegnanti di Coding?

Il Coding di fatto è una tecnica. Cerco di spiegarmi con un esempio, per amare la montagna è sufficiente conoscere tutte le tecniche del CAI o degli alpini? È chiaro che se uno conosce queste tecniche può andare in sicurezza in montagna, ma tutto quello che serve per ammirare un bel paesaggio e per capire dove voglio andare quando vado in montagna è richiesto da cose che non sono competenze tecniche, ma sono stature morali della persona. Quindi, insegnare Coding vuol dire dare una tecnica, ma il Coding deve essere inserito all’interno di questo processo più ampio di cura della persona perché non rimanga una tecnica muta ma sia uno strumento che permetta ai ragazzi di diventare le donne e gli uomini che desiderano essere.

Un’ultima battuta, lei spesso parla di un’etica negli algoritmi e nella tecnologia che deve essere pensata prima di mettere in atto le scelte. In particolare qual è la differenza di approccio tra scrivere un algoritmo e programmare in un linguaggio come ad esempio il Python?

È un approccio che chiamo “by design”. In pratica la nostra non deve essere un’azione che va a mettere una pezza ad un qualcosa che già è in atto, ma deve essere pensata a priori per evitare di rincorrere qualcosa che poi ci sfugge di mano. Il principio che dobbiamo adottare, che è alla base del pensiero degli ingegneri, è sintetizzato in “misura due volte e taglia una volta sola”, che sta ad indicare di pensare bene a quello che si sta per fare per prevederne tutte le conseguenze possibili. L’algoritmo è un pensiero mentale, è ottenere una selezione in un numero finito di passaggi, mentre il Python è il linguaggio che consente di farlo ad un computer. Ma è chiaro che se io non penso prima, cioè non sono uomo, poi non posso istruire la macchina. L’etica, che è la parte più nobile dell’umano, va applicata a tutto l’uomo. Solo uomini etici realizzeranno poi un’algoretica, cioè algoritmi giusti e capaci di rispettare gli altri uomini.

Fabio Gervasio