Paese: Stati Uniti 1996 – Durata 109 minuti – Regia: Al Pacino
Metà film, metà documentario, Riccardo III – Un uomo, un re (titolo originale Looking for Richard) è anche e soprattutto un omaggio di Al Pacino al teatro e in particolare a Shakespeare.
Egli, che è sia regista che protagonista, con attori amici simula una compagnia che deve mettere in scena il Riccardo III offrendo allo spettatore il resoconto delle prove sia in abiti normali sia in costume alternate a discussioni accalorate sul modo giusto di recitare i testi del grande drammaturgo (compreso un divertente accenno al pentametro giambico, il verso usato nella grande poesia inglese). Arricchiscono il tutto interviste a celebri interpreti shakesperiani e a studiosi universitari come pure visite ai luoghi significativi come la casa natale del bardo o al sito londinese dove sorgeva il Globe Theater.
Come ammette lo stesso regista, il suo sogno è trasmettere agli altri i sentimenti di Shakespeare, nonostante che il linguaggio usato, e le stesse trame dei testi, appaiano alla persona comune lontano e complicati, come emerge da alcune delle risposte date da passanti intervistati. Ma non tutte le persone comuni fermate per strada trovano Shakespeare noioso: la giusta grandezza del suo teatro viene colta da chi dice che “più che aiutare, Shakespeare istruisce”; oppure che egli “dà sentimenti”, e per questo “andrebbe insegnato nelle scuole”. Un altro ancora dice che “quando si sente quello che si dice”, le parole usate, anche se desuete, “hanno un significato più forte”, quasi a replicare a chi trova il linguaggio del bardo inglese irrimediabilmente distante e superato.
La passione di Pacino per l’opera Riccardo III, oltre alla sua indiscutibile bravura, è tale che a mano a mano che passa il tempo si riesce a entrare nella psicologia perversa e luciferina del personaggio oltre a conoscere l’ambientazione storica della tragedia. Figura realmente esistita, egli visse durante la Guerra delle due rose tra York e Lancaster. Riccardo, duca di Gloucester e fratello del re Edoardo malato e prossimo alla morte, è roso dall’ambizione di succedergli, anche a motivo della frustrazione patita a causa di una deformità fisica. Privo di scrupoli pur di conquistare il potere, tesse una fitta trama di congiure per eliminare i possibili rivali alla successione al trono. Ma la storia termina con la sua sconfitta per opera di Enrico Tudor, che lo ucciderà sul campo di battaglia di Bosworth Field ponendo così fine alla guerra civile che per trent’anni aveva insanguinato l’Inghilterra.
È al termine della storia che si trova la battuta più celebre del dramma, quando il re si trova appiedato, incapace quindi di allontanarsi dalla morte certa per mano dei nemici, e con un grido disperato esclama: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”.In conclusione, la scommessa di fondo di Looking for Richard è quella di dimostrare che la grandezza di Shakespeare (ma la cosa si potrebbe dire di ogni classico del teatro) oggi e sempre sta nell’insegnarci a conoscere l’animo umano nelle sue pieghe più intime, non con un discorso astratto, ma attraverso i sentimenti che la voce e il corpo degli attori sanno suscitare: pathei mathos, cioè “imparare attraverso la passione”, avrebbe detto il grande tragediografo greco Eschilo. E del resto è lo stesso Pacino ad avere detto che “Io credo che si reciti solo nella vita, mentre nell’arte si persegue solo la verità”.
di Fabio Gervasio (fonte: Orizzontescuola.it – 23.03.21)
La didattica a distanza sta provocando un grande cambiamento nella scuola a causa dell’uso sempre più pervasivo delle nuove tecnologie. Nell’intervista padre Paolo Benanti, francescano, individua le caratteristiche e i rischi insiti in queste innovazioni, sollevando le questioni etiche implicate dal progresso tecnologico nel campo della comunicazione e dell’informazione.
Tecnologia e didattica: la scuola serve ancora? Verso un’apocalisse? Risponde Padre Paolo Benanti, esperto di Teologia morale e bioetica
Padre Benanti, la crisi pandemica ha costretto il mondo della scuola a ricorrere massicciamente alla tecnologia mediante la didattica a distanza. La DAD è stata fondamentale durante il primo lockdown, oggi sono molti i dubbi in merito al suo utilizzo. Prima della pandemia abbiamo avuto approcci contrastanti nei suoi confronti passando da quello aperto, come nel caso del BYOD (Bring Your Own Device), a quello di totale chiusura, ad esempio vietando l’utilizzo di dispositivi in classe. Parafrasando Umberto Eco, secondo lei dobbiamo avere una visione apocalittica o integrata rispetto all’uso della tecnologia a scuola?
Per rispondere a questa domanda parto da un articolo di recente pubblicazione, febbraio 2021, apparso sulla rivista scientifica “Cyberpsychology, Behavior and Social Networking” e intitolato “Surviving Covid-19: the Neuroscience of Smart Working and Distance Learning”. È un articolo frutto del lavoro di uno studioso italiano, Giuseppe Riva, e di altri studiosi come Brenda Wiederhold e Fabrizio Mantovani, nel quale viene riportato il risultato delle loro ricerche che si sono concentrate sull’osservazione di cosa accade in persone sottoposte ad un processo continuato di apprendimento a distanza e di smart working. Partendo dal risultato del loro studio, e rimanendo sull’aspetto legato al distance learning, possiamo affermare che l’impatto su alcune fasi cognitive del cervello è un impatto particolare.
Per capirci meglio, quando l’apprendimento accade in un ambiente fisico dedicato, all’interno del nostro cervello si attivano dei neuroni che hanno una sorta di funzione GPS e che ci localizzano all’interno di quell’ambiente attivando una forma di memoria che è di tipo autobiografica. Tutto questo avviene all’interno di un ambiente la cui caratteristica è di avere una consistenza tridimensionale. Quando invece l’apprendimento viene surrogato da una tecnologia, la cui caratteristica è di essere di tipo bidimensionale perché ci vediamo attraverso uno schermo, si sperimentano delle sensazioni di disorientamento, ci si sente come di stare senza un posto e proviamo il disabbandono di un luogo, la classe, e questo aspetto bidimensionale produce, inoltre, una riduzione dell’identità professionale e sociale, provocando anche un po’ di Burn Out. È evidente, alla luce di quanto finora osservato, che lo strumento non è neutrale, inoltre è importante ricordare che nella fase dell’apprendimento hanno un ruolo di primo piano i neuroni a specchio, che, in una didattica mediata dallo schermo, non si attivano in maniera adeguata e riducono il senso di leadership nei confronti di chi ci sta parlando. In aggiunta possiamo riscontrare delle oscillazioni intercerebrali che cambiano il modo con cui si realizza una sorta di coinvolgimento con le restanti parti della classe. Quindi se dovessimo chiederci se la Didattica a Distanza possa essere equiparata alla didattica in presenza, alla luce delle ricerche neuroscientifiche la risposta è chiaramente no. Ma la domanda che lei mi ha posto non è semplicemente di carattere funzionale, è anche di carattere etico e quindi dovremmo chiederci anche “come reagire a tutto questo”.
Qui si apre la seconda questione, è chiaro che l’etica è sempre una scelta del bene possibile, allora se dovessimo scegliere tra nulla e la DAD è senz’altro meglio la DAD. Precedentemente abbiamo affermato che la DAD non è equivalente alla didattica in presenza, ma trovare un bilanciamento tra presenza e DAD è un aspetto sul quale dobbiamo affidarci a quelle che sono le migliori conoscenze scientifiche di coloro che stanno cercando di gestire la pandemia, in modo tale che ci possano dire quale sia veramente il momento necessario per sospendere la scuola in presenza per poi passare alla DAD. Senz’altro l’epoca che abbiamo vissuto ci ha fatto vedere che possiamo digitalizzare dei processi, il tempo esteso con cui abbiamo fatto vivere ai nostri ragazzi questi processi ci dicono che non è uguale il processo digitale dal processo fisico. Non è nullo, ma è meno efficace del processo fisico. La scuola ancora serve, allora non si tratta di essere apocalittici o integrati, ma di essere, se volete, etici, cioè di scegliere il massimo possibile per il bene dei ragazzi che abbiamo davanti.
La tecnologia ci sta portando verso un cambio epocale. Lei più volte ha ricordato che già in passato, nel XVI secolo, un altro artefatto tecnologico, la lente convessa, ha prodotto un cambio epocale. Cosa ha comportato il cambiamento in quel periodo e cosa ci dobbiamo aspettare oggi.
Quello che ha apportato la scoperta della lente convessa, con la realizzazione del telescopio e del microscopio, è stato un cambiamento sul come noi studiavamo e capivamo il cosmo e di come studiavamo e capivamo l’uomo. Abbiamo scoperto di non essere il centro dell’universo e abbiamo scoperto di essere fatti di piccole parti viventi che chiamiamo cellule. Entrambe queste cose hanno cambiato i nostri punti di riferimento.
Oggi un cambiamento analogo avviene ad opera del computer che lavora i dati, che non ci permette di studiare l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, ma l’infinitamente complesso delle relazioni che accadono. Questo approccio sta nuovamente cambiando il modo con cui studiamo il cosmo, si pensi al fatto che ascoltiamo i dati che sono sostanzialmente raccolti dai radiotelescopi nello spazio, e allo stesso tempo ascoltiamo l’attivazione neuronale di tutte quelle cellule che di fatto sono all’interno del nostro cervello. Questo cambiamento sta producendo una trasformazione il cui esito non ci è ancora noto, non siamo in grado di vederlo, ma è una trasformazione epocale che in alcuni miei testi ho chiamato Digital Age, o più semplicemente cambio d’epoca.
Cosa ci dobbiamo aspettare? Ci dobbiamo aspettare un cambiamento anche nel nostro modo di passare le competenze ai giovani, perché se cambiano i punti di riferimento, come è cambiato il curriculum scolastico, o il modo in insegnare nel passaggio dalla cultura classica alla cultura scientifica, probabilmente dovrà cambiare qualcosa anche in questa situazione.
La crescita esponenziale della tecnologia ha portato ad una interazione sempre più profonda con l’uomo. In una società liquida, come la definisce Bauman, la disponibilità di grandi volumi di dati, i Big Data, permette la realizzazione di Intelligenze Artificiali sempre più efficienti al punto di condizionarci nelle nostre scelte, lei ci parla di Algocrazia. Questo aspetto ha aperto una riflessione sull’uso corretto della tecnologia, della necessità di un’etica nella tecnologia, l’Algoretica. Ci spiega questi aspetti?
C’è uno studioso statunitense, Langdon Winner, che per spiegare cos’è l’etica della tecnologia chiedeva di osservare i ponti che sono stati realizzati sull’autostrada che da New York porta fino alla spiaggia, Long Island. Ecco, chi guarda i ponti vede solo dei ponti, se però noi scavassimo un pochino più a fondo noteremmo che i ponti sono stati costruiti un po’ più bassi rispetto all’altezza degli autobus, questo per consentire solo alle macchine di poter arrivare alla spiaggia e all’epoca in cui sono stati costruiti, ad opera di Robert Moses, è stata un’azione volontaria fatta per impedire a chi non possedeva una macchina, quindi alle fasce più povere e alle minoranze, di poter raggiungere la spiaggia. Nel suo ragionamento Langdon Winner arriva alla conclusione che ogni artefatto tecnologico è una disposizione di potere.
Oggi la questione non riguarda più la costruzione di ponti in calcestruzzo, ma di algoritmi che ci permettono di entrare o ci tengono fuori dalle basi dei dati, che ci permettono o non ci permettono di fare alcune cose, come ad esempio di volare, di ottenere un prestito, o che in alcuni casi vorrebbero di fatto gestire anche la giustizia. È evidente che il potere non è più in calcestruzzo ma è algoritmico, da qui il termine algocrazia. Cosa è chiamata a fare l’etica della tecnologia? Ad essere quella voce che domanda qual è il senso del bene e che cosa stiamo realizzando. È un nuovo capitolo dell’etica che cerca di rendere computabile agli algoritmi alcuni principi che animano la scelta del bene. Questo nuovo capitolo dell’etica, all’interno di questo viaggio, deve rendere visibili ed efficaci queste istanze, come fossero dei grandi guardrail digitali all’interno di questo mondo sempre più automatizzato.
Gli algoritmi ci condizionano nelle nostre ricerche. In ragazzi in fase di formazione cosa comporta questo aspetto legato all’algoritmo che ci permette di vedere solo alcune delle scelte possibili.
È chiaro che stiamo parlando di algoritmi, tante volte di intelligenze artificiali, che animano le piattaforme sociali. Possiamo pensare agli algoritmi come l’ermo colle di Leopardi, solo che sono meno poetici dell’ermo colle ed escludono lo sguardo su alcune cose e ci fanno focalizzare su altre. Gli studi che si stanno realizzando ci dicono che questi algoritmi sono in grado di creare una sorta di bolla intorno a noi nella quale vediamo sempre lo stesso tipo di notizie ripetute più volte. Questa bolla di ripetizioni plurali, di fatto crea una sorta di filtro sulla realtà e un ragazzo che è nel pieno sviluppo della crescita, che dovrebbe guardare con gli occhi limpidi dello stupore e della meraviglia, potrebbe in qualche modo essere condizionato, essere “educato”, non da un mentore, non da un Socrate, non da qualcuno che vuole il suo bene, ma da uno strumento che ha come unica finalità quello di tenerlo il più possibile su quella piattaforma perché chi la possiede in questo modo guadagna più soldi. Tutto questo è un qualcosa che ci chiede di agire, perché stiamo creando la prima generazione che utilizza il telefonino in maniera indistinta tra adulti e ragazzi. Cosa voglio dire con questo, facciamo un esempio, quando il segno del crescere era il motorino, il motorino non era una motocicletta, era adatto ai ragazzi. Oggi, invece, lo stesso strumento, il telefonino, è identico per un adulto o per un ragazzo. Questo ci porta a riflettere sui cambiamenti necessari per adeguare gli strumenti in base a coloro che saranno gli utilizzatori finali.
Nei suoi interventi l’abbiamo sentita spesso parlare dell’Oracolo di Delfi affiancandolo al nome di una delle più importanti società di database “Oracle”, oracolo, come se avessero in comune degli aspetti ben specifici. Ci spiega questo paragone?
È un gioco di parole. C’è un frammento di Eraclito, uno dei padri della filosofia, che dice che l’oracolo che è in Delfi non parla e non tace ma significa. Oggi quando noi interroghiamo un motore di ricerca esso non parla e non tace ma significa dei dati in base alla nostra ricerca. Quindi io uso questo gioco di parole per dire che tanti nostri contemporanei iniziano ad avere nei confronti del computer, soprattutto del computer che lavoro in internet, che lavora i dati, una sorta di accesso oracolare, come se fosse una specie di divinità, che dà delle sentenze, che dà delle risposte alla loro ricerca, al loro destino, al loro futuro. E questo accade quando lo utilizziamo per cercare, ad esempio, cose importantissime come l’anima gemella.
Anche il mondo della scuola sta vivendo un cambio epocale dove la conoscenza non è più esclusiva dei docenti. Molti ragazzi, definiti per semplicità come nativi digitali, sono più capaci nell’uso delle tecnologie rispetto ai propri insegnanti, gli immigrati digitali. Cosa comporta questo cambio di paradigma e quanto è importante pensare ad un’istruzione che porti ad un’alfabetizzazione digitale.
È fondamentale perché oggi assistiamo ad una nuova forma di analfabetismo. Se nel medioevo l’analfabetismo era entrare in una biblioteca e non saper leggere quello che c’era sui volumi, oggi un analfabetismo digitale lo potremmo definire come l’essere immersi all’interno di un flusso di dati, di parole, di video o di audio, e non sapere riconoscere cos’è la verità e cosa non lo è. Questa nuova forma di analfabetismo digitale può provocare qualcosa di simile a quello che ha provocato per analogia il vero analfabetismo, e cioè la dipendenza di chi non è alfabetizzato da chi invece è alfabetizzato. Questo può causare, di fatto, la cessazione di quella funzione sociale di integrazione, di sviluppo della persona, che è compito della scuola. Allora quella che noi chiamiamo alfabetizzazione digitale altro non è che una serie di strumenti che dobbiamo sviluppare e affinare per permettere alla scuola di svolgere pienamente il suo ruolo educativo, e non solo formativo, per questa generazione di nativi digitali.
Il Professor Floridi asserisce che siamo passati ad un uso tecnologico che dall’online è passato all’onlife, perennemente connessi. La società muta rapidamente con ripercussioni anche sul mondo della scuola. I ragazzi al termine del loro ciclo di studi si troveranno di fronte a lavori inesistenti al momento in cui hanno iniziato questo ciclo. La scuola, quindi, non deve formare persone in base alla società esistente, ma deve dare gli strumenti per poter affrontare le sfide future. Da qualche anno è stato introdotto il Coding nella scuola, è la strada giusta?
Questo è un dibattito molto ampio a livello internazionale. In pratica parte dalla domanda precedente, ci troviamo di fronte a un’inedita generazione che ha bisogno di essere alfabetizzata, ma l’alfabetizzazione non è spontanea, non è come la caccia nei leopardi o nei branchi di lupi, ha bisogno di un “Maestro”. Quindi ci dobbiamo chiedere a cosa li devono educare i “Maestri” del digitale. Negli Stati Uniti hanno risposto a questa domanda affermando che l’obiettivo è quello di arrivare a pensare come le macchine in modo tale da poter interagire nel miglior modo possibile con esse ed è partito il pensiero computazionale ed il Coding. Ma si sono accorti di avere un problema, in pratica non hanno insegnanti adeguati per applicare questi programmi. In Francia, invece, hanno pensato che è più un problema di come sia l’essere umano nel tempo digitale, hanno parlato di umanità digitale ed hanno sviluppato dei programmi.
Ma anche qui il problema è lo stesso, si sono resi conto di non avere professori preparati per tutto questo. Noi in Italia forse siamo un po’ più in ritardo, perché non ci siamo ancora posti fino in fondo questa domanda, se non in contesti come questo. Dobbiamo innanzitutto avviare un dibattito su questo argomento per cercare di dare la migliore risposta possibile e, allo stesso tempo, pensare quali caratteristiche necessitano coloro a cui sarà demandato il compito di fare il “Maestro” di questa generazione.
A questo punto le chiedo cosa voglia dire essere insegnanti di Coding?
Il Coding di fatto è una tecnica. Cerco di spiegarmi con un esempio, per amare la montagna è sufficiente conoscere tutte le tecniche del CAI o degli alpini? È chiaro che se uno conosce queste tecniche può andare in sicurezza in montagna, ma tutto quello che serve per ammirare un bel paesaggio e per capire dove voglio andare quando vado in montagna è richiesto da cose che non sono competenze tecniche, ma sono stature morali della persona. Quindi, insegnare Coding vuol dire dare una tecnica, ma il Coding deve essere inserito all’interno di questo processo più ampio di cura della persona perché non rimanga una tecnica muta ma sia uno strumento che permetta ai ragazzi di diventare le donne e gli uomini che desiderano essere.
Un’ultima battuta, lei spesso parla di un’etica negli algoritmi e nella tecnologia che deve essere pensata prima di mettere in atto le scelte. In particolare qual è la differenza di approccio tra scrivere un algoritmo e programmare in un linguaggio come ad esempio il Python?
È un approccio che chiamo “by design”. In pratica la nostra non deve essere un’azione che va a mettere una pezza ad un qualcosa che già è in atto, ma deve essere pensata a priori per evitare di rincorrere qualcosa che poi ci sfugge di mano. Il principio che dobbiamo adottare, che è alla base del pensiero degli ingegneri, è sintetizzato in “misura due volte e taglia una volta sola”, che sta ad indicare di pensare bene a quello che si sta per fare per prevederne tutte le conseguenze possibili. L’algoritmo è un pensiero mentale, è ottenere una selezione in un numero finito di passaggi, mentre il Python è il linguaggio che consente di farlo ad un computer. Ma è chiaro che se io non penso prima, cioè non sono uomo, poi non posso istruire la macchina. L’etica, che è la parte più nobile dell’umano, va applicata a tutto l’uomo. Solo uomini etici realizzeranno poi un’algoretica, cioè algoritmi giusti e capaci di rispettare gli altri uomini.
L’istituto superiore Alle Stimate, grazie alla collaborazione con il maestro e attore di teatro Ermanno Regattieri, ha avviato un percorso laboratoriale proposto ai ragazzi di prima superiore, allo scopo di potenziare la comunicazione verbale e corporea.
Il laboratorio, intitolato dal maestro Regattieri “Teatro e(è) comunicazione”, si è articolato in un ciclo di dieci appuntamenti mattutini, uno alla settimana e della durata di circa un’ora, e ha avvicinato gli studenti alla disciplina teatrale, partendo dalle basi di riscaldamento e rilassamento, per poi passare all’equilibrio, alla postura e al punto fisso teatrale.
L’obiettivo principale del corso è stato quello di mostrare agli allievi lo stretto legame tra il “fare teatro” e il comunicare quotidiano. Ad ogni incontro, la classe si è cimentata in esercitazioni riguardanti il ritmo e la concentrazione, stimolando conoscenza e memoria.
Ciascuna prova si focalizzava su un aspetto specifico, via via aumentando in complessità: la consapevolezza della propria presenza individuale in quanto corpo e l’espressione di gesti volontari o spontanei si sono rivelati la scintilla di riflessione di concetti quali essenza e motivazione.
Da un punto di vista educativo, i ragazzi hanno partecipato ad un’esperienza di gruppo che ha favorito non solo la coesionedella classe nella sua interezza, ma anche l’integrazione dei singoli, il rispetto dei tempi dell’altro e il valore dell’ascolto.
Muoversi, agire, parlare insieme in una determinata superficie ha facilitato quell’intreccio di coordinazione e relazione che vivono giornalmente nella realtà.
Ogni studente con la sua personalità ha affrontato le diverse fasi del percorso, ampliando il suo bagaglio caratteriale ed emotivo: obiettivo comune si è rivelato essere la ricerca di un ruolo all’interno della collettività, assumendo particolari modelli comportamentali a seconda del bisogno e della situazione.
Il ragazzo timido, abituandosi e adattando la sua capacità comunicativa, si è sforzato di aprirsi maggiormente e di esprimere la propria opinione; l’alunno vivace, a sua volta, ha appreso l’importanza del controllo studiato a favore di un messaggio più incisivo. Entrambi hanno messo in atto alcune strategie e hanno superato quelle dinamiche di timore provocate dal giudizio spesso discriminatorio e dall’idea di essere diversi, quindi strani e incompresi. Mediante i dialoghi e i lavori di gruppo, inoltre, gli studenti hanno intrecciato tra loro nuove relazioni, superando in parte quel senso di vergogna tipico della loro età.
Alla comunicazione gestuale è seguita quella verbale: giocare con suoni, parole e frasi, associati ad un’azione o meno, ha dimostrato come, in teatro come nella vita, i linguaggi a nostra disposizione siano molteplici, sebbene la lingua utilizzata sia generalmente una e uguale per tutti.
Esercizi di lettura espressiva ed interpretazione, così come improvvisazioni libere e guidate, hanno permesso lo sviluppo di sensazioni e creatività, in un’atmosfera serena e ludica, priva di valutazioni, nella quale il “copiare” non viene criticato negativamente.
Il compito da svolgere? Abituarsi a comunicare e a dare peso espressivo ai discorsi. In tal modo, ogni ragazzo o ragazza saprà trasmettere con maggior efficacia non solo un’idea ma anche la propria personalità. Non si tratta di un percorso semplice: impegno, coraggio, pazienza, fantasia sono i principali ingredienti. Mettersi a nudo, anche solo un pochino, non è mai scontato, adolescenti e adulti compresi.
Tuttavia, se la classe si trasforma da pubblico giudicante a squadra, allora, in quell’istante, rivelarsi per ciò che si è ci permetterà di offrire agli altri, ma soprattutto a noi stessi, un’immagine positiva e genuina. Sarà emozionante e liberatorio.
In quest’ultimo anno sono diversi gli ambiti che hanno subito forti limitazioni. Certo la scuola ne sta risentendo, ma anche una forma importante di educazione e formazione: la rappresentazione teatrale. Ne abbiamo voluto parlare con Alessandro Anderloni, ben conosciuto nel territorio veronese, regista e autore teatrale cui abbiamo voluto porre alcune domande:
“Scuola e teatro”: due mondi diversi ma le cui strade si intrecciano. Spesso lei ha portato le scuole a teatro e il teatro nelle scuole: quali frutti possono nascere da questo connubio?
Nel marzo del 2020 ho dovuto interrompere, bruscamente e con incredulità, sette laboratori teatrali nelle scuole. Non avrei mai pensato, allora, che a causa del Covid-19 per un anno non avrei più rivisto le aule, le palestre, i cortili dove giocavo al teatro con centinaia di bambini e bambine, adolescenti e giovani. Nel 2020, dopo venticinque anni, per la prima volta, ne mese di maggio non ho portato in scena alcuno spettacolo. Ricordo che in quei giorni mesti ho iniziato a contare i giovani attori e le giovani attrici che ho incontrato nel mio cammino di teatro a scuola: ho superato i 4.500 e poi mi sono fermato.
C’è una differenza tra il teatro con le scuole e il teatro per le scuole. Le produzioni di teatro per le scuole sono, nel panorama italiano, molte e di buona qualità. Scarseggiano, in vero, spettacoli pensati nello specifico per la fascia d’età dai 16 ai 18 anni. Straripano invece gli spettacoli dedicati alle scuole primarie, spesso con esiti ottimi, altre volte senza grandi risultati artistici. Non ci si improvvisa, come spesso si è portati a pensare, a far teatro per i bambini e gli adolescenti. Non sono una categoria di grado inferiore. Anzi, sono un pubblico esigente, attentissimo, onesto, spietato. E chiunque abbia provato ad andare in scena davanti a un teatro colmo di bambini e ragazzi ne sa qualcosa, e spesso lo ha pagato sulla sua pelle, con grida, risate, perfino rivolte dal pubblico. Dovrebbero imparare dai ragazzi gli adulti, laddove applaudono e lodano spettacoli per piaggeria verso il regista o l’attore o l’attrice di turno, la “diva” della TV, il fenomeno da social network. Ai bambini non ne cale: chiunque tu sia, o sul palcoscenico funzioni o non meriti il tempo e l’attenzione che sono pronti a darti se invece li convinci. Il teatro per le scuole, dove non si riduca a un pacchetto confezionato, è il banco di prova delle storie e di chi le sa raccontare, scava nella professione del teatrante e si confronta con il più esigente dei pubblici, scrive il futuro della fantasia, dell’immaginazione e della coscienza civica degli adulti di domani.
E il teatro con le scuole?
Se assistiamo a un fiorire di compagnie che si propongono con spettacoli per i bambini, spesso con lauti e giustificati (benché spesso squilibrati) finanziamenti pubblici, i professionisti del teatro che scelgano di fare teatro con i bambini, gli adolescenti e i giovani sono pochi. Come sono pochi, sporadici e provvisori i corsi e i laboratori che le scuole, di ogni ordine e grado, riescono a organizzare e a proporre ai loro studenti. E uso la parola “riescono” non senza motivo, ché il teatro a scuola è lasciato in Italia alla buona volontà, al coraggio, alla fantasia, alla capacità manageriale e alla passione di insegnanti, professori (quasi sempre professoresse) e dirigenti.
Per strade le più diverse, inseguendo bandi, industriandosi e lottando per cercare finanziamenti, trovando quasi sempre pochi soldi, le scuole autonomamente organizzano una delle più preziose attività che l’esperienza di studio può offrire. Non è il caso di ricordare qui i benefici personali e di gruppo che il “gioco del teatro” lascia a chi lo abbia praticato a scuola: sono grandissimi, contribuiscono a risolvere situazioni critiche, formano la personalità, accrescono la consapevolezza, abbattono le differenze, ribaltano gli stereotipi, annullano i conflitti. Potrei continuare, potrei citare nomi, fatti, situazioni, dati. Non c’è corso organizzato da compagnie o da teatri, residenza artistica più o meno articolata, attività a iscrizione o a pagamento che scateni liberi l’energia e coinvolga nel profondo quanto lo faccia un laboratorio a scuola. Perché il teatro a scuola è democratico: non ci iscrive, si viene coinvolti e si fa; perché è libero: non si guadagnano giudizi, non si vincono premi, non si cerca la celebrità; perché è naturale: non ci si esibisce e non si scimmiottano gli adulti come colpevolmente, e con danni enormi, assistiamo in raccapriccianti trasmissioni televisive che trasformano i bambini i marionette cantanti o danzanti per compiacere genitori e spettatori spesso colpevolmente inconsapevoli della violenza che stanno compiendo sui loro figli o i figli altrui.
Ma se la scuola è il luogo privilegiato per fare teatro in giovane età, perché allora sono così poche e sporadiche le esperienze di teatro e così pochi i professionisti della scena che vi si dedicano?
Le due circostanze sono l’una concausa con l’altra. Se alcune scuole faticano, senza che nessun progetto o piano di istruzione ministeriale le abbia mai aiutate, a organizzare laboratori di teatro a scuola, altre pigramente o distrattamente nemmeno ci provano. D’altra parte, se drammaturgi, registi, attori e compagnie sono solerti a imbastire spettacoli per le scuole, molto meno si sobbarcano la fatica, il disagio, l’azzardo, il rischio, la tensione di entrare nella gabbia dei leoncini e delle leoncine. Perché il più blasonato regista che varchi la porta della palestra della scuola di periferia dove lo aspettano venti ragazzi di 14 anni che se ne infischiano del suo profilo su Wikipedia o dei Premi Ubu che ha vinto, si troverà a tirar fuori, se ne è capace, non solo il suo “mestiere” di teatrante ma soprattutto la sua sensibilità, la sua capacità empatica, l’umiltà del confronto e la fermezza della disciplina. E non potrà mentire sulle storie.
Molta della sperimentazione, della così detta avanguardia, dei post-realismi, post-modernismi, pre-futurismi e via discorrendo, a scuola non ingannano nessuno. A scuola non ci sono prestigiose platee davanti alle quali pavoneggiarsi, conciliaboli di appassionati ad osannarti, critici pronti con solerzia a incensarti. A scuola c’è da combattere con gli orari, con la disponibilità delle palestre, con la puzza di sudore dell’ora di ginnastica appena terminata, con i volti di tutti i colori e le mille lingue e le mille culture e provenienze e religioni dei giovani attori e attrici.
A scuola c’è da fare tutto con niente, inventarsi costumi, scenografie e trucco senza spendere i soldi che non ci sono, accondiscendere alla mamma iper-apprensiva che teme che il proprio figlio non riesca a fare gli scalini senza farsi male e perdonare padre che si dimentica delle prove generali del figlio, trovare il luogo per lo spettacolo senza che nessuno te lo metta a disposizione a prezzi accessibili, organizzare i piani di sicurezza e ora anche i piani sanitari. Occorre continuare? Ecco perché si fa così poco teatro con le scuole.
A suo modo di vedere, il teatro giova solo ai ragazzi o può essere uno strumento utile anche agli insegnanti o ai giovani che aspirano a diventarlo?
Il teatro porta nelle scuole una preziosa anarchia, una vitalità incontrollabile, un dinamismo temuto e utilissimo, un sovvertimento delle consuetudini, un rovesciamento delle certezze. Un buon progetto di teatro può cambiare una scuola. E se può cambiare un’istituzione così ingessata, burocratizzata e oggi follemente ossessionata dalla sicurezza (forse è per questo che è così osteggiato “là” dove si decide?) non sarà difficile pensare che potrà cambiare non solo i ragazzi ma anche gli insegnanti. Il teatro costringe a giocare, e riattiva nella scuola il suo ruolo di luogo in cui giocando si impara, si cresce, ci si prepara al futuro. È il gioco che cambia le carte in tavola, laddove il gioco è guidato da professionisti che lo conducono con gli strumenti propri del teatro. Dove sono gli insegnanti o i professori, nonostante la loro buona fede e buona volontà, a fare teatro, i risultati saranno sempre sotto le aspettative. E come un regista non dovrebbe fare il professore, così il professore non dovrebbe pretendere di fare il regista, contendendo così la sua passione ed evitando di scaricare sul teatro a scuola le frustrazioni di una carriera nel mondo del teatro sperata, a cui ha dovuto rinunciare per insegnare. Lasciamo fare il teatro a scuola a chi il teatro lo fa di mestiere.
Ma dal “fare teatro2 gli insegnanti possono apprendere moltissimo. L’espressività della persona, declinata in linguaggio fisico, vocale e spirituale, è il fulcro dell’attività teatrale a scuola e offre a chi insegna un tesoro di conoscenze e tecniche inestimabili. Per un insegnante attento e ricettivo, l’attività teatrale con i suoi studenti, soprattutto quanto sia vissuta non da puro spettatore ma da collaboratore se non da partecipante lui o lei stessa, è un’occasione unica per imparare quello che la scuola o l’esperienza di insegnamento non gli ha mai potuto offrire. Non si tratta di trasformare gli insegnanti in attori dietro la cattedra, ma di attingere dalle tecniche del teatro ciò che, adattato, può essere utilizzato in classe. Si tratta altresì di scoprire come la storia, la letteratura, perfino la matematica si possono insegnare con il teatro. La collaborazione e la fiducia reciproca tra insegnante ed esperto teatrale a scuola sono una miscela dalle possibilità immense, i risultati possibili sono sorprendenti. Nel rispetto dei ruoli, nella disponibilità a collaborare, nascono esperienze indimenticabili, e spettacoli splendidi.
Il 2021, 700° anniversario dalla morte di Dante, sarebbe stata un’ottima occasione per portare i ragazzi a teatro. Tutto è perduto? So che lei non si è dato per vinto e sta proponendo alcune iniziative per celebrare il Sommo Poeta anche in questo difficile periodo. Vuole parlarcene?
Negli ultimi tre anni ho incontrato più di cinquemila studenti e studentesse con Dante. Ho perduto il conto delle conferenze, dei monologhi, dei laboratori nelle scuole, con studenti dai 3 ai 18 anni. Le potenzialità teatrali della Commedia di Dante sono sconfinate. La Commedia, con i suoi novecento personaggi, è teatro, la sua lingua è teatrale, il soggetto, la vicenda, l’intreccio sono una miniera drammaturgica. Dante lo sapeva. Aveva scritto perché la sua Commedia fosse detta e ascoltata, prima ancora che letta. Chi ha provato a raccontarla o a portarla in scena con i più giovani sa quanto sia forte la capacità empatica e di coinvolgimento di questo testo, come scavi in profondo anche nei bambini e nei giovani, se si trovano le chiavi di lettura per toglierlo da pregiudizi scolastici o peggio da gelosie accademiche. Non si può dire che l’Italia, Verona in particolare, abbiano approfittato dell’anniversario dantesco per portare Dante nelle scuole. Attenzione: non Dante per le scuole ma con le scuole. Vedo molti vanitosi in giro, profluvi di letture dantesche con il malcelato desiderio di mettersi in mostra o di dimostrare le proprie abilità recitative o avvalorare la propria conoscenza che quasi sempre si ferma all’Inferno, quando invece ai bambini piace soprattutto il Paradiso con la sua architettura di luce e suono, di speranza e felicità.
Nonostante la quasi immobilità delle istituzioni pubbliche, il silenzio dei comitati ufficiali, l’assenza totale di risorse, a Verona siamo riusciti a portare Dante nelle scuole, e in presenza, stante la drammatica situazione sanitaria. Migliaia di studenti e studentesse, come ho detto, si sono confrontati con la Commedia. Cento bambini e bambine della scuola primaria Rubele da un anno hanno pronto uno spettacolo di teatro e musica su Dante a Verona. Questa pandemia ci permetterà mai di portarlo in scena? Ci ha aiutato, e ne siamo riconoscenti, la Cantina Valpantena producendo per l’occasione la bottiglia “Dante a Verona”. Otto scuole dei quartieri di Veronetta e Porto lavorano con me e con Mirco Cittadini sul progetto “Verona, città del Paradiso” che trecento bambini e bambine racconteranno con un video che sarà presentato a primavera. E il progetto ha il sostegno generoso e lungimirante dell’Assessorato all’Istruzione del Comune di Verona. Io ho detto e dico Dante in decine di istituti superiori di primo e di secondo grado, in provincia e in città. Ma forse è nel Carcere di Montorio, con i detenuti del gruppo teatrale che da sei anno conduco con Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni, dove le Dante risuona più forte. È là che le parole di Virgilio a Catone «libertà va cercando» ci interrogano e ci scaraventano davanti a noi stessi. Dante è molto più in carcere che nelle aule delle accademie.
E se Verona non ha il coraggio, nel 2021, di chiamare la sua piazza come tutti i veronesi e le veronesi già la chiamano, “Piazza Dante”, Poteva almeno risparmiarci di chiudere per quattro mesi Dante in una scatola proprio nell’anno dell’anniversario. Il benemerito restauro della statua di Ugo Zannoni non si doveva forse fare prima e inaugurare la statua restaurata all’aprirsi dell’anno delle celebrazioni? Lo capisce anche un bambino. Ecco, sogno un “Comitato Dante 2021” di bambini e bambine.
Per tutto il 2021 cammineremo con Dante. Centinaia saranno gli eventi del progetto “Dante Settecento”. Seguiteli sulla pagina Facebook: Dante Settecento. Camminate con noi.
In un non luogo e un non tempo quest’uomo dall’aria trascurata, incapace di adattarsi alla vita, si ritrova solo a fronteggiare il dilagare di una mostruosa pandemia: la rinocerontite.
Che sarà mai questa strana malattia, che in modo contagioso trasforma una a una tutte le persone in rinoceronti?
All’inizio ci si fa poco caso al rinoceronte che galoppa sulla scena, sfiorando vetrine, alzando un polverone, schiacciando un gattino sotto le sue zampe. Se ne parla nei pettegolezzi da bar, del rinoceronte avvistato, e di quell’altro poi, che galoppava in senso opposto -che sia lo stesso?-. Si disquisisce su questioni marginali, quanti corni abbia, se sia africano o asiatico, lasciandosi trascinare in discussioni inconcludenti e rivendicazioni personali.
C’è anche chi nega che esistano. Chi pensa che la cosa non lo riguardi. Chi si arrabbia con le istituzioni e rivendica giustizia. Chi pensa al complotto e chi si spaventa. Chi non se ne cura, perché bisogna continuare a fare il proprio dovere. Chi piange sui danni personali che il rinoceronte gli procura. Chi scappa tenendo ben stretto ciò che gli sta più a cuore.
Ad ogni pandemia pare che corrispondano le stesse reazioni!
Eppure in questo caso la malattia ha risvolti diversi dai nostri: più diventa contagiosa, più diventa affascinante. Il rinoceronte appare libero, un po’ alla volta il suo verso rauco si fa canto attraente, il suo galoppare travolgente diventa danza, il colorito verde e la pelle rugosa risultano proprio belli. I rinoceronti sono diventati la normalità e chiunque è diverso si sente un mostro, si vede brutto, si fa schifo e prova vergogna di se stesso.
“Il rinoceronte” nasce dall’esperienza che Ionesco ha avuto del Nazismo, ma nella sua assenza di connotazioni spazio-temporali parla a ciascuno di noi. Quante tendenze, quante nuove ideologie galoppano sulla scena dei nostri giorni portando con sé nuovi modi di intendere la libertà. Possiamo davvero ritenerci immuni da queste mode che sovvertono ogni categoria etica e ci inducono a credere che “Il bello è brutto, il brutto è bello”, come recitano le streghe del Macbeth?
Berenger vive il dramma profondo di chi vuole restare uomo, di chi non si arrende e vuole conservare la propria originalità in un mondo dove la normalità è il conformismo dettato dalla maggioranza.
Anche a noi, come a ciascun personaggio del dramma, si ripropone la scelta: lottare per restare uomini o arrenderci e diventare rinoceronti.
Giovedì 11 marzo, si è tenuto l’incontro – DANTE POETA FILOSOFO – il Prof. Alberto Torresani storico e saggista che ha approfondito la figura del “sommo” poeta
Di seguito riportiamo la registrazione dell’incontro
Paese: Spagna (2018) – Durata: 124 minuti – Regia: Javier Fesser
Lo sport, il basket in particolare, fa da sfondo a una storia così piacevole e diretta, lo sport visto come qualcosa che unisce, che diverte, che fa bene alla salute fisica e mentale, che crea grandi amicizie.
Non ci resta che vincere, il film affronta il tema del deficit mentale con realismo e rispetto, una commedia interessante che propone una visione della disabilità mentale, affrontando il tema con massimo rispetto e grande umanità.
Marco Montes, allenatore di basket arrogante e litigioso, che a causa del suo temperamento irrascibile finisce per essere licenziato, arrestato e costretto ad allenare i Los Amigos, improvvisata squadra di pallacanestro formata da persone con deficit intellettivi.
Il film tratta la tematica della disabilità rapportata allo sport; evidenziando le peculiari caratteristiche dei vari personaggi: chi cade in attimi catatonici, chi non si lava per paura dell’acqua, chi conosce a memoria gli orari di tutti i voli; porta lo spettatore a riflettere che proprio le loro imperfezioni e le loro meravigliose stramberie li rendono unici e irripetibili e che la loro forza sta nell’essere una squadra nonostante tutto e tutti.
Mentre Marco Montes cerca il modo giusto di allenare la squadra dei Los Amigos, riceve da loro una lezione di vita; fa di tutto per mettere “ordine”, preoccupato di dare regole e schemi di gioco, ma la squadra di amici, con semplicità, gli mostra che per affrontare un gioco come il basket, fatto di canestri, punti, regole e tempi da rispettare, la “normalità” non è assolutamente necessaria e dove manca la tecnica di gioco, supplisce lo spirito di squadra.
Tutto il film è pervaso da un clima gioioso e scanzonato, la comicità che viene fuori dalle scene degli allenamenti è davvero irresistibile, non solo per le strampalate dinamiche che si innescano tra i diversi protagonisti, ma soprattutto, per l’innato talento comico degli attori disabili, che il regista ha preferito lasciare liberi di improvvisare, offrendo così momenti di spontanea bizzarria.
Non mancano però circostanze in cui l’emozione prende il sopravvento, come quando Marco finalmente abbraccia l’idrofobico Juanma convincendolo a fare la doccia, o la suggestiva partita finale, che può essere definita una delle scene più cariche di pathos e adrenalina di tutto il film.
Ciò che muove i componenti di questo gruppo è la pura e ingenua voglia di giocare, di divertirsi insieme come una vera squadra, non solo sul campo ma soprattutto nella vita, lasciando da parte il concetto di vittoria e sconfitta, travolgendo lo scettico e ombroso Marco, e il pubblico in un exploit di gioia di vivere, ricordando allo spettatore che godere dei momenti felici insieme a coloro cui vogliamo bene è più importante di qualsiasi trofeo.
Papa Francesco – Libreria Editrice Vaticana – 2020
In occasione dell’anno olimpico, Lucio Coco ha raccolto alcuni pensieri di Papa Francesco sul tema dello sport. Per il Pontefice esso è infatti espressione di valori positivi ed universali, che possono avere come fine ultimo anche quello dell’espressione della fede.
Questo libro, edito nel 2020 in occasione dell’anno olimpico (spostato poi al 2021 a causa dell’emergenza sanitaria), vede raccolte 92 citazioni di Papa Francesco sul tema dello sport, argomento molto caro al Pontefice, soprattutto per i forti contenuti valoriali insiti nello sport stesso; spesso infatti, parlando alle Società Sportive, alle squadre, alle delegazioni, agli atleti e ai comitati, ma anche ai fedeli in Piazza San Pietro, il Papa non dimentica di sottolineare la grande forza che c’è dietro allo sport, ma al tempo stesso la sua responsabilità educativa, in quanto sinonimo di inclusione, di sacrificio, di rispetto.
Da queste “pillole” si evince come lo sport abbia una fortissima funzione pedagogica: valori come la lealtà, il senso di giustizia, il gusto per la bellezza, la capacità di sacrificio, la costanza e molti altri sono indispensabili per formare persone a tutto tondo, che uniscano l’edificazione dell’anima al miglioramento sia della tecnica che del loro corpo.
Un aspetto che non può prescindere da qualsiasi attività sportiva e che aiuta nella crescita personale è sicuramente il rispetto delle regole: senza di esse non ci può essere gioco, divertimento e, come nella vita, esse non devono essere viste come ostacoli, ma come limiti entro i quali perseguire la felicità, imparando ad esserne padroni e non schiavi. Pensate a cosa sarebbe un gioco senza regole: “non ci sarebbe più competizione, ma solo prestazioni individuali e disordinate; al contrario, lo sportivo impara che le regole sono essenziali per vivere insieme, che la felicità non la si trova nella sregolatezza, ma nel perseguire con fedeltà i propri obiettivi” (da un discorso ai membri del CSI, 11.05.2019). Per questo lo sport aiuta a maturare l’importanza delle regole scritte, ma anche di quelle “morali”, come il fair play, il rispetto dell’altro, il dominio di sé e insegna che non ha valore una vittoria conseguita barando o ingannando gli altri, come nel triste caso del doping.
Fa parte del clima olimpico anche l’incontro tra popoli di diverse razze, culture, credo religioso. I cerchi olimpici stessi esprimono questo intreccio, volto all’accoglienza, alla volontà di dialogo, alla fiducia nell’altro. In un mondo egoista ed individualista, questi ed altri valori, come lo spirito di squadra, ci portano a far parte di una sola famiglia umana, dove non vince colui a cui piace “comerse la pelota (trattenere la palla) solo per sé” (da un discorso ai dirigenti e ai calciatori del Villareal, 23.02.2017), ma chi corre a sostegno degli altri, dove anche la disabilità diventa un valore aggiunto; secondo il Papa, infatti, la realtà degli Special Olympics “alimenta la speranza di un futuro positivo e fecondo dello sport, perché fa sì che esso diventi una vera occasione di inclusione e di coinvolgimento” (agli atleti Special Olympics, 13.10.2017).
Come visto nelle citazioni riportate sopra, il Pontefice parla non solo agli atleti, ma mette in gioco anche dirigenti, allenatori, operatori sportivi e tutte le figure che ruotano attorno allo sport; benché spesso non siano sotto i riflettori, anche loro sono chiamati ad essere in prima linea nella trasmissione di messaggi positivi e a garantire che lo sport che promuovono sia limpido e leale.
L’ultimo capitolo di questo volumetto è dedicata a “Sport e Fede”, uniti nel portare avanti i valori comuni di cui abbiamo parlato, come lealtà, condivisione, accoglienza, fiducia: essi appartengono ad entrambe le realtà e permettono di creare un ponte di dialogo tra la Chiesa stessa, i fedeli, ma anche verso chi si è sentito lontano o escluso. Lo sport è poi espressione di gioia, promuove virtù come umiltà, pazienza, sobrietà, che vanno di pari passo con la riconoscenza verso il Creatore e la testimonianza del Vangelo, insegna il sacrificio, la costanza per raggiungere un obiettivo. Quante Società Sportive hanno avuto le loro origini in un Oratorio? Quante volte i grandi Santi hanno sfruttato proprio la voglia di condivisione, di felicità, di spirito di squadra, per avvicinare ragazzi lontani ai valori della Fede? Ecco, quindi, che Chiesa e sport sono unite da un doppio filo, poiché entrambi concorrono alla crescita umana e si fanno strumento reciproco per trasmettere i propri valori. “La Chiesa si interessa di sport perchè le sta a cuore l’uomo, tutto l’uomo, e riconosce che l’attività sportiva incide sulla formazione della persona, sulle relazioni, sulla spiritualità” (alla Federazione Italiana Tennis, 08.05.2015).
Infine, ai giovani lancia questo messaggio, che ritengo di dover riportare. “È importante, cari ragazzi, che lo sport rimanga un gioco! Solo se rimane un gioco fa bene al corpo e allo spirito. E proprio perché siete sportivi, vi invito a fare qualcosa di più: a mettervi in gioco nella vita come nello sport. Mettervi in gioco nella ricerca del bene, nella Chiesa e nella società, senza paura, con coraggio ed entusiasmo. Mettervi in gioco con gli altri e con Dio; non accontentarsi di un “pareggio” mediocre, dare il meglio di se stessi, spendendo la vita per ciò che davvero vale e che dura per sempre. Non accontentarsi di queste vite tiepide, vite “mediocremente pareggiate”: no, no! Andare avanti, cercando la vittoria sempre!” (ai partecipanti all’incontro promosso dal CSI, 07.06.2014).
di Fabio Gervasio (fonte: Orizzontescuola.it – 19.01.21)
La difficile situazione che la scuola sta affrontando, secondo lo psicanalista Massimo Recalcati, non deve essere vista necessariamente come un ostacolo, ma come parte del processo formativo, dal momento che è soprattutto il momento della prova ad avere un valore educativo. Questo è possibile purché non si ceda, genitori, studenti e docenti, al vittimismo del modello imperante della Scuola Narciso, ma si assuma quello di Telemaco, che integra il trauma nella didattica, prendendo atto che il processo di apprendimento non è mai banalmente lineare, ma piuttosto spiraliforme, fatto di fatto di cadute e ripartenze.
Didattica a distanza, intervista a Massimo Recalcati: “Ammiro i molti insegnanti che l’hanno dovuta utilizzare”, una riflessione tra crisi e prospettive future.
Professor Recalcati, ci lasciamo alle spalle il 2020, un anno fortemente segnato dalla crisi pandemica legata al Covid-19. Un anno che ha trasformato le nostre abitudini e ci ha fatto vivere varie fasi passando da quella eroica della prima ondata, dove ha prevalso il noi all’io, all’angoscia, lo smarrimento, che ha caratterizzato la seconda ondata, dove a prevalere è stata l’insofferenza nei confronti delle restrizioni e degli stessi eroi, i sanitari, che avevamo osannato. Lei ha affermato che tra le due ondate ha prevalso l’anima cicala dell’uomo. Tutta questa situazione come sta influenzando la stabilità psico-emotiva dei nostri ragazzi?
“Loro sono stati i primi a credere che la vita avesse ripreso il suo corso normale. Ma che questo sia accaduto è nell’ordine delle cose. I ragazzi sono fatti per vivere all’aperto e non nel chiuso delle loro case. La loro spinta vitale ha incoraggiato la credenza che tutto fosse finito con l’arrivo dell’estate. Non era loro compito frenare gli entusiasmi. Eppure i libri di storia della medicina ci dicevano del carattere inevitabile della seconda ondata. Ma nessuna voce adulta si è alzata con forza per rendere questa verità pubblica e adottare di conseguenza le misure sanitarie necessarie. Perché? Per la paura di perdere consensi? Per non incrinare l’illusione collettiva che si era impadronita del nostro paese? Per tutelare il settore del turismo? Non so bene. In ogni caso quelle parole avrebbero dovuto essere pronunciate con decisione da parte del nostro governo. E questo non è accaduto. Anzi il Ministro della Salute aveva pronto per le stampe un suo libro dove raccontava come abbiamo sconfitto il Covid…”
Nell’emergenza Covid-19 un’istituzione in particolare ha avuto sempre i riflettori puntati addosso, la Scuola. La didattica a distanza ha dimostrato tutti i suoi limiti. Nella seconda ondata alunni ed insegnanti stanno vivendo un vero e proprio rifiuto verso di essa. Lei già da qualche anno, in tempi non sospetti, aveva lanciato l’allarme nei confronti di una didattica digitalizzata, valorizzando il ruolo fondamentale del corpo e della relazione nella didattica. Ci spiega meglio questo concetto?
“Non c’è dubbio che la vita della scuola implica i corpi, l’esistenza di una comunità in presenza. Ed è indubbio che la DAD sia stata una faticosissima supplenza all’impossibilità dell’incontro in presenza. Io non sono un sostenitore della DAD. Ma devo dire che in questo anno tremendo ho imparato ad ammirare lo sforzo di molti insegnanti che l’hanno dovuta utilizzare. Io stesso mi sono cimentato nei miei corsi universitari con questo sistema. È difficile. Molto difficile. Ne risente sia la trasmissione del sapere sia la qualità dell’apprendimento. È un’evidenza. Ma è per me altrettanto evidente che ogni percorso di formazione si fa con quello che c’è e non con quello che dovrebbe idealmente esserci, si fa con il reale e non con l’ideale. Nel tempo del Covid noi tutti siamo confrontati traumaticamente col reale. Ogni formazione avviene attraverso i colpi impietosi del reale. Non c’è mai programmazione ideale, non c’è mai cammino rettilineo, non c’è mai semplice progressione. La formazione non risponde al paradigma della scala; innalzamento progressivo senza inciampi dal gradino più basso a quello più alto. Il processo di formazione è piuttosto spiraliforme, fatto di smarrimenti, cadute, sconfitte e riprese, ricominciamenti, riaperture, rilanci. Questo tempo tremendo fa parte della formazione. Lo dobbiamo pensare come parte del processo formativo e non come un suo ostacolo. Come accade con la DAD. Giocoforza. Se aspettiamo la normalizzazione della vita della Scuola per fare esistere la Scuola siamo perduti”.
Dalla chiusura della prima fase, ed il conseguente ricorso alla DAD, si è passati ad un timido tentativo di riapertura, con l’estate trascorsa a studiare il problema della sicurezza, per poi richiudere appena la curva del contagio ha iniziato a crescere nuovamente. Lei ci parla di una scuola in terapia intensiva, il cui male ha origine ben prima dell’emergenza sanitaria. Quattro riforme negli ultimi 20 anni non hanno migliorato la situazione. Lei ritiene che è ora di ripensare seriamente la forma dell’istituzione scuola e che l’emergenza in atto dovrebbe essere considerata come il giusto stimolo per fare questa riflessione. Partiamo dai complessi della scuola, lei nel suo libro “L’ora di lezione: Per un’erotica dell’insegnamento” ne individua tre in particolare con una doppia chiave di lettura sia diacronica che sincrona: La Scuola-Edipo, la Scuola-Narciso e la Scuola-Telemaco. Ce li racconta?
“Io spero che quello che è accaduto costringa innanzitutto i nostri governanti a non dimenticare il valore della scuola, della ricerca e della formazione. Il valore di un paese si misura dalla centralità che in esso occupa l’esistenza della scuola. Anche in termini di investimenti naturalmente. Soprattutto in un tempo come questo dove il rischio che avvertiamo tutti è quello di non avere più futuro. L’esistenza della Scuola contribuisce in modo determinate a fare esistere il futuro. Senza centralità della Scuola un paese è senza avvenire. Oggi il primo compito che ogni educatore deve perseguire è quello di costruire il futuro con quello che c’è adesso a disposizione, foss’anche la DAD.
La Scuola Edipo è quella Scuola fondata sul criterio verticale dell’autorità e sulla continuità tra famiglia e insegnanti. Essa concepisce l’educazione come un raddrizzamento ortopedico e normativo delle differenze.
Questa rappresentazione della Scuola è in chiaro declino. Giustamente. Non bisogna rimpiangerla nostalgicamente. Al suo posto prevale però una Scuola che esalta il narcisismo dei figli, che riflette a sua volta quello dei loro genitori: competizione, performance, gara cognitiva. È una rappresentazione tecnocratica della Scuola come Azienda. Ma la Scuola Narciso ha anche un’altra faccia. Quella della Scuola come asilo sociale, luogo di intrattenimento o di parcheggio dei nostri figli. Allora si abbassa l’asticella della prova, si riduce la domanda di sapere, ci si adatta all’apatia frivola dei nostri figli che fanno sempre più fatica ad impegnarsi con rigore e che, nonostante questo, vengono difesi strenuamente dai loro genitori. La Scuola Azienda e la Scuola asilo sociale sono le due facce predominanti della Scuola Narciso che è egemone nella nostra epoca. Nel tempo del Covid ad esse dobbiamo aggiungere un altro volto della Scuola Narciso: la tentazione di identificare vittimisticamente questa generazione di allievi con la generazione Covid. Il rischio è quello di enfatizzare le privazioni e i sacrifici ai quali il Covid costringe oggettivamente i nostri figli annullando ulteriormente il carattere formativo della prova e commiserando i nostri poveri ragazzi ai quali è stata sottratta la Scuola. La psicoanalisi insegna che se si vittimizzano i figli si toglie loro la possibilità di soggettivarsi come soggetti responsabili della loro vita. È un grande rischio che dobbiamo tenere presente.
La Scuola Telemaco oggi è quella che non cede alla tentazione della vittimizzazione. Il Telemaco omerico, infatti, non si limita a lamentarsi per quello che sta accadendo a Itaca a causa dell’assenza del padre. Non sceglie la via della vittimizzazione. La generazione Telemaco è quella che impugna il proprio destino senza aspettare il ritorno del padre, ovvero senza identificarsi passivamente a chi ha subito un torto e deve essere risarcito. Non devono esistere ristori per questa generazione di allievi. Piuttosto la Scuola Telemaco è la Scuola dei figli che si mettono in viaggio.
Che sanno attraversare l’assenza del padre senza rimpiangere la Scuola Edipo e senza sprofondare nello stagno della Scuola Narciso. Lo ripeto: questa grande crisi generata dalla pandemia non deve essere considerata una interferenza al processo di formazione ma come una sua parte costituente. Quello che dà forma alla vita è il reale del trauma: compito della Scuola dovrebbe essere quello di integrare questo trauma nella didattica. In che modo? Per esempio mostrando che si può sempre fare qualcosa di generativo con quello che c’è. Testimoniando che il desiderio è più forte della paura, più forte della rassegnazione, più forte della tentazione torbida del vittimismo”.
Sono un’insegnante di Scienze Motorie presso l’Istituto Comprensivo Perlasca di Maserà di Padova e allenatrice / giudice di Ginnastica Ritmica presso l’ASD Ginnastica Ritmica Padova.
Con i miei alunni abbiamo studiato la Carta dei Diritti dei ragazzi nello Sport, formata da dieci articoli, che in Italia è stata accettata e firmata il 27 maggio del 1991. Ci è balzato all’occhio che l’articolo sul “diritto di fare sport” dei ragazzi in questo periodo di pandemia è negato ai “non agonisti”, cioè a tutti quei bambini/ragazzi che prima andavano in palestra, in piscina, nella scuola di danza, ecc… per fare attività motoria di base una o due volte la settimana e che dalla fine di ottobre non possono più farlo; in questo modo sono stati privati di uno dei momenti più importanti per la crescita di un bambino dal punto di vista fisiologico, psicologico, di socializzazione e di salute!
Credo che in un momento drammatico e delicato come questo la scuola abbia il diritto e il dovere di “recuperare” in qualche modo quanto viene “tolto” ai nostri giovani non agonisti. Maestri e insegnanti di Scienze Motorie, pur nella difficoltà di rispettare i rigidi protocolli (distanza di almeno 2 m in palestra, uso della mascherina, niente contatti, niente spogliatoi, niente palloni, niente giochi di squadra) hanno il dovere di dare la possibilità agli alunni di fare sport! Con il nuovo anno scolastico ho dovuto cambiare radicalmente la mia modalità di insegnamento, aumentando rispetto al passato lo studio di argomenti teorici, modificando i classici test d’ingresso che ormai facevo da anni; anche il mio rapporto con i ragazzi è cambiato, il Covid unisce e accomuna “sulla stessa barca” dei gesti quotidiani e ripetuti più volte nell’arco della giornata docenti e alunni, ogni classe appare come una piccola famiglia con le sue particolari dinamiche di crescita. All’inizio dell’anno scolastico svolgevo le mie attività pratiche all’aperto oppure facevamo delle lunghe passeggiate nei paesi limitrofi, poi sono state abolite le passeggiate e per un breve periodo non potevamo andare in palestra (visto che la nostra disciplina era diventata ad alto rischio….) quindi abbiamo dedicato del tempo ad attività teoriche in classe, molto utili ma non sempre gradite a tutti gli alunni.
Alla fine di novembre finalmente abbiamo ripreso l’attività pratica in palestra, ma sempre con regole restrittive e allora ho pensato che la mia passione primaria, la ginnastica ritmica, mi poteva aiutare in qualche modo a fare delle lezioni divertenti e diverse dal solito: il binomio “musica e movimento” era perfetto per dare un po’ di allegria e leggerezza alla lezione ma sempre aggiungendo qualcosa di nuovo, quindi ho cominciato a strutturare in maniera diversa le lezioni pratiche. Ho proposto ai ragazzi, ciascuno dotato di un telo mare per delimitare il suo spazio e come appoggio per gli esercizi al suolo, un riscaldamento con la musica durante il quale io faccio tutti gli esercizi con loro. Fin dall’inizio i risultati sono stati superiori alle mie aspettative, infatti tutti gli alunni, maschi e femmine e persino quelli che erano “giustificati” in gradinata, hanno partecipato attivamente all’esperimento, creando un corpo unico al suono della musica, distanti ma uniti dalle note musicali e dai vari movimenti come un’orchestra o un corpo di ballo! Dopo questa fase di riscaldamento globale ho dedicato sempre 10 minuti ad un allenamento che i ragazzi possono trovare fra le applicazioni del cellulare (tipo Seven work out) per fare un po’ di preparazione fisica sempre con l’ausilio di un sottofondo musicale e insegnando loro la corretta esecuzione degli esercizi. Al termine di questa fase la richiesta degli alunni era quella di poter “correre liberamente” e quindi ho dato spazio alle loro richieste facendo piccole gare in coppia e a squadre, studiano i vari tipi di corsa. A differenza degli anni scorsi, in cui terminavo la lezione con un’attività ludica/sportiva, ho provato a concludere la lezione con alcuni esercizi di stretching e di rilassamento, utilizzando anche delle musiche rilassanti e ancora una volta i ragazzi mi hanno sorpresa, molti mi chiedono questa parte finale della lezione perché vogliono rilassarsi e riposare….. All’inizio del secondo quadrimestre ho provato ad inserire anche la realizzazione di una coreografia con la musica in cui i ragazzi possono esprimersi liberamente in una piccola parte inventata da loro e in un’altra in cui richiedo loro un’esecuzione sincronizzata degli stessi movimenti, tutto ciò per creare un modo diverso per fare squadra ed aumentare la “sintonia” tra di loro; nelle classi seconde e terze sono arrivata a fare delle piccole “competizioni” degli alunni suddivisi in due squadre con la giuria formata dai compagni: i ragazzi sono stimolati a dare il massimo, si divertono e sviluppano le loro capacità motorie, in particolare quelle coordinative. Concludendo: anche questo difficile periodo di confinamento e restrizioni è un’occasione per cercare di andare oltre, stimolando fantasia, partecipazione e nuovi modi di aggregazione anche nell’attività fisica per non far mancare ai nostri ragazzi un diritto fondamentale quale quello di fare sport!