L’arte di arrampicare – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

L’arte di arrampicare – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Parlare di arrampicata in un’associazione che si occupa di educazione, può creare perplessità.

L’arrampicata è un’arte? In che senso? Cosa c’entra l’arrampicata con l’educazione?

Senza togliere nulla alla sua necessaria professionalità, l’educatore deve avere anche delle doti “artistiche”. Mi riferisco, per esempio, alla capacità di relazione che l’insegnante deve sviluppare con ogni studente, necessaria perché i ragazzi siano aperti a ciò che noi insegniamo. È importante anche la capacità di passare all’educato ciò che non è previsto dal programma, ma che è necessario, perché riguarda la sua vita; si pensi al rispetto per le persone e le cose, che sta alla base di qualsiasi tipo di relazione e apprendimento. È un’arte anche la capacità d’insegnare a “sognare cose belle e grandi”. Una volta ho accompagnato in gita degli alunni di IV Primaria, che, arrivati in piazza Dante a Verona, autonomamente, senza che l’insegnante dicesse qualcosa, si sono messi ai piedi della statua del poeta a recitate a memoria il XXXIII canto dell’Inferno, quello del Conte Ugolino, che avevano studiato a scuola. Si correggevano tra loro quando sbagliavano, ma con un entusiasmo incredibile, tanto che erano additati e applauditi dai ragazzi delle scuole superiori lì presenti. Dante li aveva conquistati.

Cos’è, dunque, che fa di qualsiasi attività un’arte? Credo sia il fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di bello e grande, più grande delle nostre immediate possibilità forse, ma che fomenta la sua contemplazione e il suo servizio, anche se non ci sentiamo del tutto adeguati. In fondo è quello che succede a chi s’innamora e che vede nell’amato/a qualcosa di più grande di lui/lei, ma che lo spinge alla sua contemplazione e al suo servizio… per amore.

L’arte non si possiede solo in modo innato, nel senso che c’è chi l’ha e chi non l’ha. È il sogno che forma l’artista, come succede a chi impara a costruire una nave perché vuole vedere il mare infinito. L’artista è un artigiano che sogna con il suo lavoro. 

Ecco cosa vedo in comune tra l’insegnamento e l’arrampicata, senza per questo negare legami tra l’insegnamento e tante altre discipline: l’unità tra sogno e tecnica.

A me piace arrampicare e vedo molti che si appassionano e imparano.

Scuola e arrampicata hanno bisogno di un approccio laboratoriale, cioè non solo teorico (“Io ti spiego e poi tu esegui”), ma anche pratico: ti faccio vedere come si fa a “scrivere” e attraverso vari passaggi (a volte anche insegnando fisicamente a impugnare la matita) ti aiuto a raggiungere l’obiettivo…

Se io “amo ciò che ti voglio insegnare”, posso aprirti orizzonti d’apprendimento molto belli.

Molti bambini diventano “tifosi” della squadra che “tifa” papà! E rimangono fans della stessa squadra anche nel periodo adolescenziale, quando spesso entrano in contrasto con i genitori e rifiutano molte delle cose che propongono. Il tifo non è arte, ma ci dice che è condividendo ciò che si ama che si trasmette appieno.

Quali sono i legami tra scuola e arrampicata?

Una volta un amico mi chiese: “ Che provi quando “chiudi una via” e raggiungi l’obiettivo?”. Non so perché gli ho risposto: “E cosa prova un ballerino, quando finisce di danzare?” Certo, c’è la soddisfazione per aver danzato bene e il sentire un pubblico che l’applaude, ma prova molto di più nella danza stessa: mentre l’esegue, ne percepisce, nel fisico e nella mente, l’armonia e bellezza.

Qualche esegeta interpreta il rapporto con Dio come una danza, dove a ballare sei tu con Lui…

Io credo che ci sia una “musica” anche nell’arrampicata.

In una salita provo piacere anche durante il suo sviluppo, sebbene ansimi; il mio fisico e la mia mente apprezzano il movimento ben fatto, l’armonia dei passaggi e la loro fluidità. E poi c’è salita e salita: alcune sono più belle di altre proprio per l’eleganza con cui possono essere interpretate. Arrampicare è come risolvere un’equazione col corpo.

In un articolo, in cui s’intervistava una forte scalatrice che aveva ottenuto una grande performance, alla domanda “Come hai fatto a prepararti per “aprire” quella via?” essa, prima di parlare di allenamento e studio del precorso, ha risposto “Sapendo che potevo fallire. Per me è stata un’illuminazione. L’arrampicata è come la vita: è costituita anche da fallimenti, ma spesso è attraverso di essi che cresciamo. Dapprima perché diveniamo realisti, impariamo a conoscerci, e poi perché le cadute possono divenire una rampa di lancio per decollare: è anche attraverso i fallimenti che s’impara. In arrampicata chi vuole “aprire una via” difficile lo fa, oltre che con un allenamento specifico, tentandola decine e decine di volte, e ogni volta “volando”, cioè cadendo (con la corda ovviamente), finché non riesce a “liberarla”, cioè la conclude.

Anche a scuola l’importante non è mettersi a confronto con gli altri, ma ragionare sui margini di miglioramento personali.

“Difficile” spesso vuol dire “superiore al mio livello”. Questa è una condizione normale per chi arrampica cercando di superare il proprio livello, ma lo è anche per chi studia.

Possiamo convincere i nostri ragazzi che una cosa può essere difficile, ma non impossibile, predisponendo un valido piano inclinato che permetta loro di raggiungere l’obiettivo con gradualità, ma anche facendoli “innamorare” della cosa che devono imparare, e insegnando loro a vedere i fallimenti come un mezzo per crescere.

Un istruttore, che t’insegna ad arrampicare, deve, prima di tutto, saper scalare. Non solo, ma deve aver provato anche lui la fatica e i fallimenti che si provano esercitando quest’arte. Anche lui deve aver avuto le braccia “ghisate”, cioè dure e pesanti come la ghisa, inefficaci perché piene di acido lattico. Così può mettersi nei panni del suo allievo, capire le difficoltà che sta provando, di volta in volta, e dargli dei validi suggerimenti per superarle. Pure nell’insegnamento non basta conoscere la materia e le tecniche per insegnarla, occorre anche saper percepire le difficoltà che provano gli alunni in ogni momento dell’apprendimento, perché le abbiamo provate anche noi.

Di solito si arrampica in coppia: c’è chi sale per primo e chi lo “assicura” tenendo la corda, rimanendo in basso. Ovviamente il “primo” ogni tanto “infila” la corda nei chiodi allineati lungo la parete, per evitare di cadere fino in fondo. Il primo è chi rischia di più, e si deve fidare di chi lo assicura, che a sua volta deve stare molto attento per frenare l’eventuale caduta.

Ho visto ragazzini, pur sotto l’occhio attento degli istruttori, arrampicare e assicurare in questo modo. È una grande scuola di responsabilità: la tua vita sta nelle mie mani.

Ultimamente rimango stupito nel vedere i ragazzini della squadra sportiva, di dodici anni, fare delle salite che io mi sogno: è incredibile vedere la dinamicità dei loro gesti e le difficoltà che, con apparente naturalezza, superano. Certo non si può chiedere a un ultracinquantenne di correre i 100 m alle Olimpiadi, e così bisogna ragionare anche nell’arrampicata, ma si può capire che l’obiettivo principale per un bravo insegnante è rendere i suoi alunni migliori di lui.

Ho visto un padre e un giovane figlio che arrampicavano. A salire da “primo” era il figlio, mentre il padre, pur essendo un bravo scalatore, lo “assicurava” da sotto, tenendo la corda. Questo, secondo me, può essere il paradigma dell’educazione. Se un padre vuole educare in profondità, non risolve solo le questioni al figlio, ma, oltre ad insegnargli come si fa, lo spinge ad affrontare le difficoltà “da primo”, pur proteggendolo con l’equivalente di una corda. Credo che anche noi insegnanti possiamo agire così.

Michael Dall’Agnello

Perché dare la vita a un mortale Essere genitori alla fine del mondo- (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Perché dare la vita a un mortale Essere genitori alla fine del mondo- (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Il 29 ottobre 2021 è stato conferito al filosofo francese Fabrice Hadjadj il Premio Internazionale alla Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, giunto alla sua 39ma edizione.

Con l’occasione abbiamo voluto riportare il testo integrale della conferenza Perché dare la vita a un mortale? Essere genitori alla fine del mondo, tenuta dall’autore nel 2016 a Verona, presso l’auditorium Bisoffi, organizzata dalle scuole Gavia, Braida e ABiCi (ora pubblicata nel volume Perché dare la vita a un mortale & altre lezioni italiane, Edizioni ARES, 2020).

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Paese: USA – Durata: 109 minuti – Regia: Chuck Konzelman, Cary Solomon

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON: tradotto in italiano significa “non pianificato”, e così è stata anche la mia scelta improvvisata di rispondere ad un invito per un’anteprima al cinema.

Un film che ti rimane “dentro”, che ti interroga, ti fa sussultare intimamente e commuovere per il grande Dono della Vita. Alla fine della proiezione ho pensato immediatamente al volto dei miei bambini e mi sono detta: “Se sono qui su questa poltroncina di teatro è perché Qualcuno mi Ama, mi ha custodito e mi custodisce, anche se io non ne sono cosciente”.

Il film racconta la vita di Abby Jonson, giovane donna americana che sin dalla giovinezza si batte per i diritti delle donne. Ai tempi del college si lascia ammaliare dalle feste giovanili, dallo sballo e s’innamora di un ragazzo più grande di lei con cui intrattiene rapporti sessuali occasionali. Quando scopre di essere incinta, senza averlo “pianificato”, viene assalita dal timore di dover rivelare il tutto ai suoi ignari genitori, che sicuramente non avrebbero approvato questo suo stile di vita. Si lascia consigliare dal ragazzo e padre del bambino che subito le suggerisce di abortire tramite un’agenzia apposita. Viene lasciata sola nella scelta e nella rielaborazione e il tutto si traduce in un’operazione fredda e alienante che la riduce ad uno zombie svuotato che a malapena ricorda ciò che è accaduto.

Dopo qualche mese decide di presentare il ragazzo ai genitori per potersi unire in matrimonio. I familiari non lo trovano la persona giusta, ma lasciano a lei la libertà di scegliere e così si celebrano le nozze.
Il matrimonio non si traduce in un cammino felice e, dopo un periodo di tensioni e tradimenti, si arriva al divorzio. Abby si accorge però di essere incinta proprio di quell’uomo con cui non vuole più avere niente a che fare e ancora una volta, in solitudine e disorientamento, si rivolge alla clinica Planned Parenthood che, con disinvoltura, la consiglia per un aborto chimico, caldamente raccomandato come veloce, indolore ed efficace.In realtà si rivelerà dolorosissimo, lunghissimo e la convincerà di essere sul punto di morire. Si risveglierà infatti dopo ore di travaglio sul pavimento insanguinato del bagno di casa, stravolta e dolorante per diverse settimane. Sempre sola.
Nonostante queste esperienze che la segneranno per sempre e di cui non parlerà ai familiari, Abby vuole battersi per la libertà riproduttiva della donna, pensando che così facendo si possano ridurre gli aborti, attraverso campagne d’informazione e sensibilizzazione. Diventa dapprima una volontaria della clinica Planned Parenthood e, in breve tempo, la più giovane direttrice della principale clinica abortiva del Texas.

“Gli esperti concordano che in questo stadio il feto non sente nulla” queste le parole rassicuranti di Abby per indurre le pazienti ad abortire in tranquillità, per ricominciare la quotidianità senza pensieri.
Saranno però degli incontri a porre le basi per una conversione totale.
In primis i suoi genitori non approvano questo suo lavoro, questa sua passione e il suo totale coinvolgimento e pregano affinché lei possa cambiare idee e licenziarsi; così come il secondo marito che, amandola profondamente, le esprime tutte le sue perplessità, obiezioni e principi. La lascia però sempre libera di decidere, anche quando Abby scopre di essere felicemente in dolce attesa, nonostante non sia stato “pianificato”.

Un altro incontro decisivo sarà con i giovani attivisti pro-life che con dolcezza e costanza la seguono giornalmente fuori dalla clinica per pregare e dissuadere le donne a non abortire.
Infine, non per importanza, avverrà il riavvicinamento a Dio nella preghiera familiare. Da direttrice avrebbe voluto cambiare in meglio la clinica, ma gradualmente inizia a rendersi conto che la libertà che lei voleva difendere era un inganno per donne spaventate, sole e ignare.

Inaspettatamente un giorno le viene chiesto di assistere il chirurgo per un aborto guidato e ciò a cui assiste attraverso un ecografo la renderà cosciente di ciò che è la straziante realtà di un aborto nel grembo materno. Quello che vede cambia la sua vita per sempre, le fa spalancare gli occhi, dandole la forza e il coraggio per intraprendere una delle battaglie più importanti del nostro tempo.

E’ un film che svela i sottili inganni che una comunicazione appositamente studiata può portare, giustificando l’uccisione di un piccolo essere umano innocente nel luogo che lui ritiene il più sicuro e protetto al mondo: il grembo della sua mamma.
E’ un film che porta speranza lì dove il male sembra invincibile tanto è potente, organizzato e radicato, ma che la preghiera e l’amore disinteressato dei semplici smonta in modi che “non abbiamo pianificato”.
La libertà che Abby reclama per sé e crede non venga capita e concessa dai propri familiari ed amici, in realtà nella storia si rivela una falsa libertà, perché disgiunta dal bene, come quella propagandata dalla clinica che, in realtà, fa di tutto per spingere le donne ad abortire a scopo ideologico e di lucro. La vera libertà è quella che il marito e i genitori insegnano ad Abby, amandola sempre e comunque disinteressatamente, ma accompagnandola ad aprire gli occhi al bene, alla vita e alla verità.
“Unplanned” racconta una storia vera che merita di essere raccontata, ascoltata e meditata.

Gemma Dal Bosco

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Paese: Usa (2009)  – Durata: 90 minuti – Regia: Thomas Carter

Recensione 

Ho proposto la visione del film “Gifted Hands-Il dono” ai ragazzi di III media a conclusione dell’argomento “Il Sistema Nervoso” trattato in scienze a scuola.

Il film racconta, infatti, la storia vera del neurochirurgo Ben Carson, medico tuttora in vita, che per primo riuscì a separare chirurgicamente due gemelli siamesi uniti nella parte posteriore della testa; l’intervento è entrato nella storia della chirurgia per la complessità (22 ore in sala operatoria e 19 chirurghi, oltre a decine di infermiere e tecnici) e il buon esito.

Lo stupore e l’ammirazione che Carson dimostra per il miracolo che è il cervello umano è stato il primo aspetto che ho voluto evidenziare ai miei studenti; ma gli spunti di riflessione di cui è dotato questo film sono davvero numerosi e importanti.

Ben Carson non nasce “bambino prodigio”, anzi. La sua vita scolastica inizia con diversi insuccessi, in parte dovuti a svantaggi familiari (Ben appartiene ad una famiglia povera, senza padre e con una mamma determinata ma analfabeta), in parte alla pigrizia del ragazzo (splendida la scena in cui la mamma spegne il televisore e impone ai figli di spendere il tempo in biblioteca o ad imparare le tabelline).

La madre accompagna Ben nel cammino faticoso dell’impegno, della modifica del proprio carattere, della rinuncia ai capricci per raggiungere obiettivi ambiziosi.

Non manca poi il riferimento al valore della vita e all’importanza della Fede per poter superare momenti di crisi e difficoltà.

Infine, molto interessante per noi insegnanti, la pellicola sottolinea l’importanza della passione che i docenti possono trasmettere agli studenti: il giovane Ben sceglie Medicina per l’interesse che il suo professore di scienze suscita in lui nei confronti del mondo visibile solo al microscopio.

Un film di valore e di valori!

Miriam Dal Bosco

Il Signore degli Anelli  – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Il Signore degli Anelli – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

J. R. R. Tolkien (1954 – 1955)

Quanti avranno già visto il film o letto il libro?

Ciò che vi proponiamo oggi e di rileggerlo anche da un punto di vista educativo, e magari consigliarlo ai nostri ragazzi. Non è forse vero che nei racconti, più che nei ragionamenti, i ragazzi spesso, grazie all’immedesimazione, scoprono anche il valore e la bellezza del bene?

Oltre all’avvincente trama, nasconde molti insegnamenti. Eccone uno dove Gandalf il mago correggere il giudizio di morte che aveva fatto dire a Frodo che sarebbe stato meglio che Bilbo, suo zio, avesse ucciso Gollum, l’essere spregevole che si era impossessato del malefico anello:

Merita la morte! Eccome! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca a essere curato rima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che, prima della fine di questa storia, l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà la Pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo.

Eccone un altro, dove Gandalf intravvede una sorta di provvidenza/destino che opera anche quando ci capitano pesi gravosi, come quello di dover distruggere un anello malefico. Così parla dell’anello malefico che abbandona Gollum per stare con Bilbo e finire in mano a Frodo:

… esso abbandonò Gollum, e capitò in mano alla persona più incredibile: Bilbo della Contea! Dietro a questo incidente c’era una forza in gioco che il creatore dell’anello [Sauron, il signore del male] non avrebbe mai sospettata. È difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante.

Oppure quello di non smettere mai di essere aperti con le persone, perché fino in fondo non si conosce mai nessuno:
Mio caro Frodo! — esclamò Gandalf —. Gli Hobbit sono veramente esseri stupefacenti, come ho sempre sostenuto. Puoi imparare tutto sui loro usi e costumi in un mese, e tuttavia dopo cento anni riescono a meravigliarti ed a stupirti.

E questo, un meraviglioso dialogo, quasi filosofico, tra due “maghi”, in cui uno, Saruman il bianco, ormai pervertito, cerca di convincere Gandalf il grigio a passare dalla sua parte, e dove si contrappongono due idee di conoscenza: la prima che la vede come un modo per ottenere il potere, l’altra per raggiungere la vera sapienza:

Lo guardai, e vidi che le sue vesti non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista.

“Preferivo il bianco”, dissi.

“Bianco” sogghignò. “Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta”.
“Nel qual caso non sarà più bianca” dissi. “E colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza”.

E poi ancora, come a dire che non si dialoga con il male, rappresentato dall’anello:

Si avvicinò posando una lunga mano sul mio braccio. “E perché no, Gandalf?”, bisbigliò. “Perché no? L’Anello Dominante? Se potessimo comandarlo la potenza passerebbe nelle nostre mani”. Dicendo così non riuscì a nascondere la brama che gli brillò improvvisamente negli occhi.

“Saruman”, dissi allontanandomi da lui, “una mano sola alla volta può adoperare l’Unico, e lo sai bene; non darti la pena di dire noi!

Eccone un altro, pronunciato da un Elfo di nome Haldir:

Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.

Ecco un discorso di Sam a Frodo:

– Sam: È come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale. Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire il perché. Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso so. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto. Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa


– Frodo: Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– Sam: C’è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo

E poi: È il lavoro che non è mai iniziato che impiega più tempo a finire.

– Dama Galadriel: Anche la più piccola persona può cambiare il corso del futuro.

– Gildor: Il vasto mondo è tutto intorno a te: puoi recintarti, ma non puoi recintarlo per sempre.

Buona lettura.

Michael Dall’Agnello