Psicomotricità: la disciplina che punta al “ben-essere” del bambino – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Psicomotricità: la disciplina che punta al “ben-essere” del bambino – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Intervista ad Agnese Checchinato – dott.ssa in Scienze Psicologiche dello Sviluppo e dell’Educazione, Insegnante di Massaggio Infantile Shantala

L’educazione di un bambino riguarda tante realtà. In primis, senz’ombra di dubbio, la famiglia. Anche il ruolo della scuola è indiscutibile così pure le attività pomeridiane quali, ad esempio, lo sport.

Uno dei corsi che riscuote sempre più interesse e che vede un numero sempre maggiore di bambini iscritti è la psicomotricità; la sua importanza e peculiarità si è resa evidente quando, nei primi mesi del 2021, mentre tutte le attività sportive venivano sospese, una delle poche a proseguire è stata proprio la psicomotricità. Il nome ci richiama il fatto che l’attività fisica influisca non solo sul benessere del corpo ma anche della mente. 

  1. È così? Che cosa si insegna ai bambini in un corso di psicomotricità? A quali bambini è particolarmente adatto? A quali fasce d’età?

Vorrei iniziare con un ringraziamento per avermi dato la possibilità di parlare di questo tema importante e molto attuale. Come appena ricordato, infatti, nei primi mesi di questo anno particolare una delle attività a non essere sospesa è stata quella della psicomotricità che, infatti, non rientra fra le attività sportive ma è una disciplina a sé che coinvolge il corpo, lo schema corporeo, il movimento, il pensiero e le emozioni. Quindi, a differenza di un’attività sportiva, in cui l’insegnante o l’istruttore insegna delle tecniche specifiche di movimento, oppure strategie di azione o di collaborazione con i compagni, all’interno di un incontro di psicomotricità il conduttore non “insegna” nulla, per così dire, ma predispone l’ambiente in modo tale che il bambino possa sperimentarsi sia individualmente (seguendo i propri interessi e la propria curiosità) sia in gruppo (sperimentando dinamiche di socialità e di interazione). 

Corpo e mente sono strettamente legati e in Psicomotricità lo si coglie immediatamente, infatti il ben-essere del corpo influenza positivamente anche il pensiero e le emozioni e viceversa. Spesso piuttosto che ricercare un movimento particolare, fatto in un certo modo, cerchiamo di far trovare il desiderio del movimento, la motivazione al movimento che infatti è strettamente legata al ben-essere. Tutto questo può portare a grandi soddisfazioni e miglioramenti. La psicomotricità, a livello preventivo, è utile a tutti i bambini ma anche agli adulti perché permette di rafforzare il collegamento mente – corpo con tutte le sue meravigliose potenzialità. 

  1. Che formazione deve avere l’insegnante?

Per quanto riguarda la formazione specifica dello Psicomotricista, per esercitare questa professione è necessario aver conseguito il Certificato di Competenza Professionale di Psicomotricista dopo aver concluso l’iter triennale in una delle Scuole di Psicomotricità presenti sul territorio italiano o europeo. A Verona, ad esempio, troviamo la Scuola Professionale di Psicomotricità C.I.S.E.R.P.P. Scuola convenzionata con l’Institut Supérieur de Rééducation Psychomotrice di Parigi – Accreditata presso la FFP (Féderation française Psychomotriciens), l’APPI (Associazione professionale psicomotricisti italiani), l’AIFP (Associazione Italiana Formatori in Psicomotricità). La Scuola ha il Patrocinio del Comune e della Provincia di Verona e dell’ULSS 20 – Veneto Membro FISSPP (Federazione Italiana Scuole Superiori Professionali di Psicomotricità). 

Per chi volesse proseguire gli studi, nell’ambito della ricerca, a Verona è presente anche il Master Universitario Internazionale in Psicomotricità di durata biennale.

Ci tengo a fare, poi, una piccola precisazione: chi conduce un percorso di Psicomotricità solitamente non viene chiamato “Insegnante” ma semplicemente Psicomotricista, proprio perché, come ho appena accennato nella domanda precedente, l’obiettivo non è quello di insegnare qualcosa ma è quello di predisporre l’ambiente e la relazione con il bambino, in modo tale che quest’ultimo possa esprimersi al meglio delle proprie capacità grazie alla spinta della curiosità e al desiderio di sperimentare e sperimentarsi.

  1. Come si svolge una lezione di psicomotricità? Servono particolari attrezzature? 

Non c’è una regola precisa per svolgere un incontro di psicomotricità, ci sono più che altro delle fasi, potremmo dire. 

Si può partire da un momento di condivisione iniziale (un saluto in cerchio o l’occasione per raccontare ciò che i bambini desiderano agli altri o allo Psicomotricista), poi c’è un momento di attività motoria globale che potrebbe consistere nell’ideazione e creazione di percorsi motori per sperimentare la coordinazione, l’equilibrio, lo spazio, il tempo, il ritmo e cosi via… 

C’è sicuramente un momento dedicato al gioco simbolico per riprodurre situazioni conosciute e sperimentare vari ruoli e vari personaggi differenti.  

Grande importanza avrà anche l’attività di coordinazione fine o di coordinazione oculo-manuale come le costruzioni o la sperimentazione grafica, che rientrano nell’attività grafomotoria (ad es. disegno) per poi concludere con un momento di rilassamento e di condivisione finale.

Per svolgere un incontro di psicomotricità non sono necessarie attrezzature particolari (a parte materassoni, moduli morbidi di forme e dimensioni differenti); ciò che viene privilegiato è materiale non strutturato che permetta al bambino di ingegnarsi, di creare e di provare esperienze nuove e differenti, uscendo dalla modalità conosciuta al di fuori della palestra di psicomotricità. Ciò a cui tiene molto il professionista di questa disciplina è la suddivisione dei materiali in aree specifiche dello spazio e dell’ambiente in cui si svolge l’attività, questo prende il nome di Setting Psicomotorio. 

Il Setting risulta fondamentale allo psicomotricista per condurre l’incontro e per far si che le esperienze e le attività abbiamo obiettivi e modalità coerenti e funzionali.

  1. Quali risultati ci si può aspettare?

Questa domanda richiederebbe una risposta lunga e complessa perché i risultati dipendono da una molteplicità di fattori, ma anche dalla tipologia di soggetti che partecipano all’attività. 

In linea generale, però, si può certamente dire che seguendo un percorso di psicomotricità il bambino andrà ad affinare e a rafforzare le sue competenze motorie per quanto riguarda la coordinazione generale e quella fine, la gestione dello spazio e del tempo (sia nella pratica che a livello astratto), la sua conoscenza del ritmo (da quello musicale a quello corporeo ma anche di altri tipi di ritmo come quello quotidiano che regola le nostre giornate). Tutti questi aspetti insieme concorreranno nel rafforzare lo schema corporeo del bambino e anche la sua l’immagine corporea, cioè l’immagine che ha di sé stesso e quindi l’autostima. Ovviamente per qualcuno questi risultati potranno sembrare impercettibili mentre per altri estremamente evidenti. Ogni storia è a sé ma se si avrà la pazienza di aspettare e di lasciarsi stupire i risultati arriveranno!

Miriam Dal Bosco

L’arte di arrampicare – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

L’arte di arrampicare – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Parlare di arrampicata in un’associazione che si occupa di educazione, può creare perplessità.

L’arrampicata è un’arte? In che senso? Cosa c’entra l’arrampicata con l’educazione?

Senza togliere nulla alla sua necessaria professionalità, l’educatore deve avere anche delle doti “artistiche”. Mi riferisco, per esempio, alla capacità di relazione che l’insegnante deve sviluppare con ogni studente, necessaria perché i ragazzi siano aperti a ciò che noi insegniamo. È importante anche la capacità di passare all’educato ciò che non è previsto dal programma, ma che è necessario, perché riguarda la sua vita; si pensi al rispetto per le persone e le cose, che sta alla base di qualsiasi tipo di relazione e apprendimento. È un’arte anche la capacità d’insegnare a “sognare cose belle e grandi”. Una volta ho accompagnato in gita degli alunni di IV Primaria, che, arrivati in piazza Dante a Verona, autonomamente, senza che l’insegnante dicesse qualcosa, si sono messi ai piedi della statua del poeta a recitate a memoria il XXXIII canto dell’Inferno, quello del Conte Ugolino, che avevano studiato a scuola. Si correggevano tra loro quando sbagliavano, ma con un entusiasmo incredibile, tanto che erano additati e applauditi dai ragazzi delle scuole superiori lì presenti. Dante li aveva conquistati.

Cos’è, dunque, che fa di qualsiasi attività un’arte? Credo sia il fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di bello e grande, più grande delle nostre immediate possibilità forse, ma che fomenta la sua contemplazione e il suo servizio, anche se non ci sentiamo del tutto adeguati. In fondo è quello che succede a chi s’innamora e che vede nell’amato/a qualcosa di più grande di lui/lei, ma che lo spinge alla sua contemplazione e al suo servizio… per amore.

L’arte non si possiede solo in modo innato, nel senso che c’è chi l’ha e chi non l’ha. È il sogno che forma l’artista, come succede a chi impara a costruire una nave perché vuole vedere il mare infinito. L’artista è un artigiano che sogna con il suo lavoro. 

Ecco cosa vedo in comune tra l’insegnamento e l’arrampicata, senza per questo negare legami tra l’insegnamento e tante altre discipline: l’unità tra sogno e tecnica.

A me piace arrampicare e vedo molti che si appassionano e imparano.

Scuola e arrampicata hanno bisogno di un approccio laboratoriale, cioè non solo teorico (“Io ti spiego e poi tu esegui”), ma anche pratico: ti faccio vedere come si fa a “scrivere” e attraverso vari passaggi (a volte anche insegnando fisicamente a impugnare la matita) ti aiuto a raggiungere l’obiettivo…

Se io “amo ciò che ti voglio insegnare”, posso aprirti orizzonti d’apprendimento molto belli.

Molti bambini diventano “tifosi” della squadra che “tifa” papà! E rimangono fans della stessa squadra anche nel periodo adolescenziale, quando spesso entrano in contrasto con i genitori e rifiutano molte delle cose che propongono. Il tifo non è arte, ma ci dice che è condividendo ciò che si ama che si trasmette appieno.

Quali sono i legami tra scuola e arrampicata?

Una volta un amico mi chiese: “ Che provi quando “chiudi una via” e raggiungi l’obiettivo?”. Non so perché gli ho risposto: “E cosa prova un ballerino, quando finisce di danzare?” Certo, c’è la soddisfazione per aver danzato bene e il sentire un pubblico che l’applaude, ma prova molto di più nella danza stessa: mentre l’esegue, ne percepisce, nel fisico e nella mente, l’armonia e bellezza.

Qualche esegeta interpreta il rapporto con Dio come una danza, dove a ballare sei tu con Lui…

Io credo che ci sia una “musica” anche nell’arrampicata.

In una salita provo piacere anche durante il suo sviluppo, sebbene ansimi; il mio fisico e la mia mente apprezzano il movimento ben fatto, l’armonia dei passaggi e la loro fluidità. E poi c’è salita e salita: alcune sono più belle di altre proprio per l’eleganza con cui possono essere interpretate. Arrampicare è come risolvere un’equazione col corpo.

In un articolo, in cui s’intervistava una forte scalatrice che aveva ottenuto una grande performance, alla domanda “Come hai fatto a prepararti per “aprire” quella via?” essa, prima di parlare di allenamento e studio del precorso, ha risposto “Sapendo che potevo fallire. Per me è stata un’illuminazione. L’arrampicata è come la vita: è costituita anche da fallimenti, ma spesso è attraverso di essi che cresciamo. Dapprima perché diveniamo realisti, impariamo a conoscerci, e poi perché le cadute possono divenire una rampa di lancio per decollare: è anche attraverso i fallimenti che s’impara. In arrampicata chi vuole “aprire una via” difficile lo fa, oltre che con un allenamento specifico, tentandola decine e decine di volte, e ogni volta “volando”, cioè cadendo (con la corda ovviamente), finché non riesce a “liberarla”, cioè la conclude.

Anche a scuola l’importante non è mettersi a confronto con gli altri, ma ragionare sui margini di miglioramento personali.

“Difficile” spesso vuol dire “superiore al mio livello”. Questa è una condizione normale per chi arrampica cercando di superare il proprio livello, ma lo è anche per chi studia.

Possiamo convincere i nostri ragazzi che una cosa può essere difficile, ma non impossibile, predisponendo un valido piano inclinato che permetta loro di raggiungere l’obiettivo con gradualità, ma anche facendoli “innamorare” della cosa che devono imparare, e insegnando loro a vedere i fallimenti come un mezzo per crescere.

Un istruttore, che t’insegna ad arrampicare, deve, prima di tutto, saper scalare. Non solo, ma deve aver provato anche lui la fatica e i fallimenti che si provano esercitando quest’arte. Anche lui deve aver avuto le braccia “ghisate”, cioè dure e pesanti come la ghisa, inefficaci perché piene di acido lattico. Così può mettersi nei panni del suo allievo, capire le difficoltà che sta provando, di volta in volta, e dargli dei validi suggerimenti per superarle. Pure nell’insegnamento non basta conoscere la materia e le tecniche per insegnarla, occorre anche saper percepire le difficoltà che provano gli alunni in ogni momento dell’apprendimento, perché le abbiamo provate anche noi.

Di solito si arrampica in coppia: c’è chi sale per primo e chi lo “assicura” tenendo la corda, rimanendo in basso. Ovviamente il “primo” ogni tanto “infila” la corda nei chiodi allineati lungo la parete, per evitare di cadere fino in fondo. Il primo è chi rischia di più, e si deve fidare di chi lo assicura, che a sua volta deve stare molto attento per frenare l’eventuale caduta.

Ho visto ragazzini, pur sotto l’occhio attento degli istruttori, arrampicare e assicurare in questo modo. È una grande scuola di responsabilità: la tua vita sta nelle mie mani.

Ultimamente rimango stupito nel vedere i ragazzini della squadra sportiva, di dodici anni, fare delle salite che io mi sogno: è incredibile vedere la dinamicità dei loro gesti e le difficoltà che, con apparente naturalezza, superano. Certo non si può chiedere a un ultracinquantenne di correre i 100 m alle Olimpiadi, e così bisogna ragionare anche nell’arrampicata, ma si può capire che l’obiettivo principale per un bravo insegnante è rendere i suoi alunni migliori di lui.

Ho visto un padre e un giovane figlio che arrampicavano. A salire da “primo” era il figlio, mentre il padre, pur essendo un bravo scalatore, lo “assicurava” da sotto, tenendo la corda. Questo, secondo me, può essere il paradigma dell’educazione. Se un padre vuole educare in profondità, non risolve solo le questioni al figlio, ma, oltre ad insegnargli come si fa, lo spinge ad affrontare le difficoltà “da primo”, pur proteggendolo con l’equivalente di una corda. Credo che anche noi insegnanti possiamo agire così.

Michael Dall’Agnello

Perché dare la vita a un mortale Essere genitori alla fine del mondo- (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Perché dare la vita a un mortale Essere genitori alla fine del mondo- (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Il 29 ottobre 2021 è stato conferito al filosofo francese Fabrice Hadjadj il Premio Internazionale alla Cultura Cattolica di Bassano del Grappa, giunto alla sua 39ma edizione.

Con l’occasione abbiamo voluto riportare il testo integrale della conferenza Perché dare la vita a un mortale? Essere genitori alla fine del mondo, tenuta dall’autore nel 2016 a Verona, presso l’auditorium Bisoffi, organizzata dalle scuole Gavia, Braida e ABiCi (ora pubblicata nel volume Perché dare la vita a un mortale & altre lezioni italiane, Edizioni ARES, 2020).

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Paese: USA – Durata: 109 minuti – Regia: Chuck Konzelman, Cary Solomon

“Unplanned”- La storia VERA di ABBY JOHNSON: tradotto in italiano significa “non pianificato”, e così è stata anche la mia scelta improvvisata di rispondere ad un invito per un’anteprima al cinema.

Un film che ti rimane “dentro”, che ti interroga, ti fa sussultare intimamente e commuovere per il grande Dono della Vita. Alla fine della proiezione ho pensato immediatamente al volto dei miei bambini e mi sono detta: “Se sono qui su questa poltroncina di teatro è perché Qualcuno mi Ama, mi ha custodito e mi custodisce, anche se io non ne sono cosciente”.

Il film racconta la vita di Abby Jonson, giovane donna americana che sin dalla giovinezza si batte per i diritti delle donne. Ai tempi del college si lascia ammaliare dalle feste giovanili, dallo sballo e s’innamora di un ragazzo più grande di lei con cui intrattiene rapporti sessuali occasionali. Quando scopre di essere incinta, senza averlo “pianificato”, viene assalita dal timore di dover rivelare il tutto ai suoi ignari genitori, che sicuramente non avrebbero approvato questo suo stile di vita. Si lascia consigliare dal ragazzo e padre del bambino che subito le suggerisce di abortire tramite un’agenzia apposita. Viene lasciata sola nella scelta e nella rielaborazione e il tutto si traduce in un’operazione fredda e alienante che la riduce ad uno zombie svuotato che a malapena ricorda ciò che è accaduto.

Dopo qualche mese decide di presentare il ragazzo ai genitori per potersi unire in matrimonio. I familiari non lo trovano la persona giusta, ma lasciano a lei la libertà di scegliere e così si celebrano le nozze.
Il matrimonio non si traduce in un cammino felice e, dopo un periodo di tensioni e tradimenti, si arriva al divorzio. Abby si accorge però di essere incinta proprio di quell’uomo con cui non vuole più avere niente a che fare e ancora una volta, in solitudine e disorientamento, si rivolge alla clinica Planned Parenthood che, con disinvoltura, la consiglia per un aborto chimico, caldamente raccomandato come veloce, indolore ed efficace.In realtà si rivelerà dolorosissimo, lunghissimo e la convincerà di essere sul punto di morire. Si risveglierà infatti dopo ore di travaglio sul pavimento insanguinato del bagno di casa, stravolta e dolorante per diverse settimane. Sempre sola.
Nonostante queste esperienze che la segneranno per sempre e di cui non parlerà ai familiari, Abby vuole battersi per la libertà riproduttiva della donna, pensando che così facendo si possano ridurre gli aborti, attraverso campagne d’informazione e sensibilizzazione. Diventa dapprima una volontaria della clinica Planned Parenthood e, in breve tempo, la più giovane direttrice della principale clinica abortiva del Texas.

“Gli esperti concordano che in questo stadio il feto non sente nulla” queste le parole rassicuranti di Abby per indurre le pazienti ad abortire in tranquillità, per ricominciare la quotidianità senza pensieri.
Saranno però degli incontri a porre le basi per una conversione totale.
In primis i suoi genitori non approvano questo suo lavoro, questa sua passione e il suo totale coinvolgimento e pregano affinché lei possa cambiare idee e licenziarsi; così come il secondo marito che, amandola profondamente, le esprime tutte le sue perplessità, obiezioni e principi. La lascia però sempre libera di decidere, anche quando Abby scopre di essere felicemente in dolce attesa, nonostante non sia stato “pianificato”.

Un altro incontro decisivo sarà con i giovani attivisti pro-life che con dolcezza e costanza la seguono giornalmente fuori dalla clinica per pregare e dissuadere le donne a non abortire.
Infine, non per importanza, avverrà il riavvicinamento a Dio nella preghiera familiare. Da direttrice avrebbe voluto cambiare in meglio la clinica, ma gradualmente inizia a rendersi conto che la libertà che lei voleva difendere era un inganno per donne spaventate, sole e ignare.

Inaspettatamente un giorno le viene chiesto di assistere il chirurgo per un aborto guidato e ciò a cui assiste attraverso un ecografo la renderà cosciente di ciò che è la straziante realtà di un aborto nel grembo materno. Quello che vede cambia la sua vita per sempre, le fa spalancare gli occhi, dandole la forza e il coraggio per intraprendere una delle battaglie più importanti del nostro tempo.

E’ un film che svela i sottili inganni che una comunicazione appositamente studiata può portare, giustificando l’uccisione di un piccolo essere umano innocente nel luogo che lui ritiene il più sicuro e protetto al mondo: il grembo della sua mamma.
E’ un film che porta speranza lì dove il male sembra invincibile tanto è potente, organizzato e radicato, ma che la preghiera e l’amore disinteressato dei semplici smonta in modi che “non abbiamo pianificato”.
La libertà che Abby reclama per sé e crede non venga capita e concessa dai propri familiari ed amici, in realtà nella storia si rivela una falsa libertà, perché disgiunta dal bene, come quella propagandata dalla clinica che, in realtà, fa di tutto per spingere le donne ad abortire a scopo ideologico e di lucro. La vera libertà è quella che il marito e i genitori insegnano ad Abby, amandola sempre e comunque disinteressatamente, ma accompagnandola ad aprire gli occhi al bene, alla vita e alla verità.
“Unplanned” racconta una storia vera che merita di essere raccontata, ascoltata e meditata.

Gemma Dal Bosco

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Gifted Hands. La storia di Ben Carson – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Paese: Usa (2009)  – Durata: 90 minuti – Regia: Thomas Carter

Recensione 

Ho proposto la visione del film “Gifted Hands-Il dono” ai ragazzi di III media a conclusione dell’argomento “Il Sistema Nervoso” trattato in scienze a scuola.

Il film racconta, infatti, la storia vera del neurochirurgo Ben Carson, medico tuttora in vita, che per primo riuscì a separare chirurgicamente due gemelli siamesi uniti nella parte posteriore della testa; l’intervento è entrato nella storia della chirurgia per la complessità (22 ore in sala operatoria e 19 chirurghi, oltre a decine di infermiere e tecnici) e il buon esito.

Lo stupore e l’ammirazione che Carson dimostra per il miracolo che è il cervello umano è stato il primo aspetto che ho voluto evidenziare ai miei studenti; ma gli spunti di riflessione di cui è dotato questo film sono davvero numerosi e importanti.

Ben Carson non nasce “bambino prodigio”, anzi. La sua vita scolastica inizia con diversi insuccessi, in parte dovuti a svantaggi familiari (Ben appartiene ad una famiglia povera, senza padre e con una mamma determinata ma analfabeta), in parte alla pigrizia del ragazzo (splendida la scena in cui la mamma spegne il televisore e impone ai figli di spendere il tempo in biblioteca o ad imparare le tabelline).

La madre accompagna Ben nel cammino faticoso dell’impegno, della modifica del proprio carattere, della rinuncia ai capricci per raggiungere obiettivi ambiziosi.

Non manca poi il riferimento al valore della vita e all’importanza della Fede per poter superare momenti di crisi e difficoltà.

Infine, molto interessante per noi insegnanti, la pellicola sottolinea l’importanza della passione che i docenti possono trasmettere agli studenti: il giovane Ben sceglie Medicina per l’interesse che il suo professore di scienze suscita in lui nei confronti del mondo visibile solo al microscopio.

Un film di valore e di valori!

Miriam Dal Bosco