Set 13, 2020 | Insegnanti
Nel 1321 moriva, esule a Ravenna, Dante Alighieri, poeta che, dopo 700 anni, non smette di ispirare e attrarre anche il grande pubblico. Certamente il mondo della scuola non può non approfittare di questa irripetibile occasione per soffermarsi sulla figura di Dante come uomo del suo tempo e come immortale poeta.
Abbiamo voluto interpellare su questo tema il professore Paolo Re, docente di latino e greco presso lo Iunior International Institute dell’Università degli studi di Roma che ha volentieri dato il suo contributo e risposto alle nostre domande
1. Come può un insegnante entusiasmare i ragazzi del 2020 con le opere dantesche? Solo la Divina Commedia o altre sue opere possono solleticare l’interesse degli studenti? E’ utopia pensare di proporne la lettura anche ai bambini?
Per entusiasmare al bello, occorre “mettere a contatto” gli studenti con l’opera d’arte, e quindi innanzitutto averla esperita come significativa per sé. Dunque, secondo il noto “principio di causalità” di cui parlavano addirittura Aristotele e san Tommaso (nemo dat quod non habet), il primo ingrediente necessario sarà l’entusiasmo del docente, che si spera abbia “vibrato” sintonizzandosi con Dante almeno in qualche momento! Come per qualunque argomento da trasmettere, non è sufficiente che sia “previsto da qualche progettazione”, bisogna che io insegnante abbia trovato in quei testi un quid speciale che mi fa un po’ volare: allora potrò mostrarne la bellezza agli alunni, senza peraltro pretendere che tutti entrino subito in risonanza… basta che “vedano” la mia, di risonanza!
In secondo luogo, naturalmente bisogna predisporre strategie differenti per gli alunni delle diverse età. Per studenti di scuola secondaria di primo grado – di cui sono competente – suggerirei, per citare alcune delle esperienze positive realizzate:
la lettura del canto proemiale della Commedia, (che non offre eccessive difficoltà di lessico) con calma e con il tempo di “immedesimarsi” in Dante – personaggio, magari tenendo presente la lettura di Singleton (La poesia della Divina Commedia, pp. 17-35: “Allegoria”); la memorizzazione di alcuni brani (penso a qualche sonetto della Vita Nova, o ai brani infernali degli ignavi, di Paolo e Francesca, anche di Ulisse) “lanciando la sfida” della memorizzazione, che oggigiorno sembra inizialmente impossibile, ma è a mio avviso l’unico modo di assaporare la poesia… e dà la grande soddisfazione di una scoperta di novità (posso “possedere” la poesia in modo intimo, come un qualcosa di pienamente diventato mio…).
La scelta di un testo che preveda, oltre a qualche brano originale, una riduzione narrativamente “completa” del viaggio di Dante (ne esistono numerosi in commercio). Eviterei decisamente l’antologia spezzettata, per non sentirmi porre la domanda che qualche anno fa un alunno mi ha rivolto “Prof, mia sorella al liceo legge l’Eneide in un modo strano, a pezzetti: e chiede a me che cosa succede tra un pezzo e l’altro…” Questo avveniva – come si può intuire – in una I media, in cui da anni leggiamo tutta l’Eneide in modo scorrevole, come racconto. Da questo punto di vista un limite serio per la Commedia è ovviamente l’estensione, che ne impedisce una lettura completa, nonché il fatto che leggiamo il testo originale, che in vari momenti richiede chiarimenti. Ma proprio questo piano linguistico è a mio avviso un altro grande punto di fascino: NOI POSSIAMO LEGGERE DANTE DOPO 700 ANNI… E LO CAPIAMO! Come mai? Pensandoci bene, Dante fa parte della spiegazione: ha costruito un monumento talmente bello che, da quel momento, tutti noi italiani (prima ancora di essere unificati politicamente) lo abbiamo letto e apprezzato… e non ci siamo più allontanati di molto dalla sua lingua! Grazie, padre Dante…
Per concludere con un cenno alle altre due domande: le altre opere di Dante possono essere presentate (a cominciare dai sonetti della Vita Nova e non, e innanzitutto da Tanto gentile…) a seconda della dimestichezza del docente. Idem risponderei per le classi primarie: ho conosciuto insegnanti che “lavorano” su quadri impressionisti, o su opere liriche… perché non su versi di Dante? Si tratta di costruire i percorsi di senso che rendano l’incontro possibile, perché il piccolo riconosce la bellezza immediatamente!
2. Anche dalla vita di Dante e dal suo contesto storico possiamo trarre spunti di riflessione condivisibili con gli studenti?
Certamente, si tratta della vita di un italiano antico, ma pur sempre immerso in problemi che conosciamo bene: le divisioni e i litigi, la mancanza di coesione pubblica, le lotte per l’eccellenza campanilistica, con tanto di colpo di stato e di esilio… ma anche alla ricerca della verità, con una lingua che sapeva impiegare come uno strumento perfettamente controllato, per costruire… o per colpire! Un buon padre di famiglia, che ha sofferto l’esilio e ha vissuto con una grande apertura d’orizzonti. Mi pare che la vita familiare di Dante andrebbe rivalutata: il fatto che la figlia, diventando suora, scelga il nome di Beatrice e che Pietro diventi il primo commentatore dell’opera paterna, mi pare illuminante sulla comprensione “familiare” del discorso del Nostro.
A mio avviso il sogno di Dante espresso nel De Monarchia (distinzione di ambiti tra Chiesa, Stato e cultura, come spiega bene Gilson, in Dante e la filosofia) si sta realizzando nelle migliori tendenze del mondo contemporaneo: c’è un grande desiderio di pace e di una autorità mondiale che la garantisca, c’è da un secolo e mezzo (solo!) un’effettiva distinzione del potere civile da quello religioso, c’è la possibilità di comunicare e di unirsi tramite la cultura… Aver sognato questo settecento anni prima mi pare un notevole motivo di interesse! E so che anni fa in una facoltà di Scienze politiche si studiava proprio il De Monarchia come luogo di un pensiero molto originale e interessante.
3. La Divina Commedia introduce a realtà che per i contemporanei dell’autore erano indiscutibili certezze ma che l’uomo moderno tende ad ignorare: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Quale reazione suscita l’aldilà, l’esistenza di un mondo di espiazione e premio nei ragazzi?
I concetti di premio e di punizione sono estremamente presenti nella nostra mentalità (e forse nelle mentalità di tutti gli educatori del mondo). Da questo punto di vista non mi pare che i ragazzi trovino difficoltà ad accettare la “visualizzazione” dantesca dell’aldilà. Peraltro, mi pare che siamo di fronte a una delle costanti dell’umanità, se Platone – scusandosi ironicamente di introdurre “racconti da vecchiette” – parlava esattamente di punizione eterna, di premio eterno e di situazione di purificazione, nel Gorgia, come nel Fedone o nella Repubblica; e naturalmente una situazione analoga viene descritta nel viaggio di Enea in Virgilio, nel VI libro dell’Eneide che costituisce come il canovaccio ispiratore per Dante. Proprio perché il tema “interessa” istintivamente, occorre che il docente ci pensi bene, perché le reazioni saranno immediate (l’idea che la gola possa essere un peccato mortale preoccupa immediatamente un pubblico di ragazzi normali… come si può spiegare Ciacco all’Inferno?)
4. Il cammino di Dante nella Divina Commedia è un percorso dall’infelicità dell’inferno alla beatitudine piena del Paradiso. Può quest’opera indicare una strada per assolvere al bisogno di felicità che abita ogni essere umano, soprattutto nei ragazzi e nei giovani?
Questa domanda richiede una vita per avere risposta: letteralmente una vita! Certo, se il docente si sente “in cammino” (viator) e magari ha “drizzato il collo” per tempo al pan delli angeli, del quale / vivesi qua, ma non sen vien satollo (Paradiso II, 10-12: Eucaristia e/o teologia), cioè se sta “vivendo” quello che Dante ha rappresentato, allora forse anche i ragazzi vedranno che non si tratta qui di parole, ma di uno stile di vita che esiste ancora, nel nostro mondo e con le nostre caratteristiche. Ma questa vita, proprio in quanto tale, può essere soprattutto mostrata, non direttamente trasmessa!
Miriam Dal Bosco
Set 13, 2020 | Insegnanti
di Gianni Zen (fonte: Il Sussidiario.net – 11.09.20)
L’autore, dirigente scolastico, vede nell’imminente inizio delle lezioni il ritorno alla scuola viva, dove la relazione fisica non è sostituibile da nessuna risorsa tecnologica. E lancia la proposta agli studenti di tenere un diario di bordo come occasione di riflessione su questi tempi particolari di scuola e di vita.
Dopo il lockdown, ritorna la scuola di vita, di vita piena. Sarà difficile, al di là di tutti gli sforzi, gli investimenti, le precauzioni. Ma non c’è alternativa alla scuola viva, fatta di incontri, di sguardi, di sentimenti, prima che di conoscenze e competenze da valutare.
E non c’è tecnologia che tenga, perché la scuola è, appunto, anzitutto relazione fisica. Cioè si cresce insieme, che siano piccoli o grandi. La tecnologia aiuta, può aiutare e integrare, ma mai sostituire due sguardi che si incontrano.
Quest’anno anche la scuola, come tutti gli altri contesti sociali, sarà cioè una palestra vivente di responsabilità, fatta di regole, anche di divieti, ma di una responsabilità che ci si augura sia capace di garantire e di prevenire il più possibile la salute di tutti.
Il rischio zero, lo sappiamo, non esiste, come ci siamo ripetuti tutti. Allora dobbiamo disporci, come in qualsiasi altro contesto, a convivere col rischio, e a confidare in ciascuno per il rispetto delle norme elementari. Auguriamo dunque un felice rientro a scuola, ma con questo pensiero di sottofondo.
Le scuole, con i presidi, i docenti, il personale, assieme agli enti locali, hanno lavorato duramente, in questi mesi, districandosi tra mille carte e dichiarazioni, per preparare questo rientro a scuola. Il vero punto critico rimane il trasporto, i trasporti pubblici. Giusto raccomandare tanta prudenza e attenzione.
Nelle famiglie si stanno vivendo questi momenti con tanta apprensione. L’importante è convincere e convincersi del rispetto delle norme e regole. Cioè fare la propria parte, sul piano del controllo preventivo, ma anche su quello formativo. Perché la scuola è scuola.
E a livello formativo, scandito per ordinamento di scuola e poi per i diversi indirizzi, tutti metteranno l’accento sulla fragilità come componente di sostanza della nostra vita personale e sociale. Fragilità come senso del limite, e come domanda di assunzione di responsabilità a livello di conoscenze, di comportamenti e di relazioni. Quanta scuola, in questa situazione, quanta scuola di qualità si riuscirà a realizzare? Eppoi, in presenza o, nel caso, anche a distanza?
Spetta qui ai docenti la revisione, anche il ripensamento, della programmazione didattica e culturale. Ed è bene che questa venga presentata e discussa con i ragazzi, anzitutto, ma anche con i genitori. Con un piccolo-grande risultato: sarebbe bello che i ragazzi iniziassero a scrivere una sorta di diario di bordo, in modo da lasciare traccia di questa esperienza di vita. Anche questa è scuola.
Il lockdown prima, e ora questo nuovo modo di vivere la scuola, non devono, prima o poi, scivolare via, per essere infine rimossi, ma sono momenti che è giusto interiorizzare, cioè far diventare opportunità di ripensamento di conoscenze e abitudini, anzitutto mentali.
Lug 29, 2020 | Insegnanti
Isabella Milani, Vallardi edizioni.
nsegnare è un’arte e, in quanto tale, non si può insegnare. Ma quello che ci offre la prof.ssa Barbara Serra, sotto lo pseudonimo di Isabella Milani, lo si può definire un vero manuale dell’insegnante.
Ottima lettura per insegnanti alle prime armi (da leggere il capitolo “Dedicato agli esordienti: la vostra prima volta in classe”), diviene uno strumento prezioso di riflessione anche per docenti più navigati: come ci vedono i nostri alunni? Come approcciare l’alunno oppositivo? Come decidere quali argomenti affrontare nella mia materia? Come conquistare l’attenzione degli studenti?
Queste ed altre domande riguardano maestri e professori che insegnano da un mese ma anche da vent’anni e l’autrice fornisce suggerimenti frutto della sua pluridecennale esperienza in classe.
Il linguaggio, dichiaratamente diretto e informale, lo rende adatto anche ad una lettura estiva.
NB: Isabella Milani sarà prossimamente ospite del Centro Studi! Keep in touch!
Miriam Dal Bosco
Lug 21, 2020 | Insegnanti
Quale futuro per la scuola?
Nell’intervista, il prof. Matteo Sansone, dirigente scolastico, fa il punto sulle prospettive che si aprono per il nuovo anno scolastico, considerando il periodo della didattica a distanza come una necessaria soluzione di ripiego, ma che non può sostituire la scuola in presenza, nella quale soltanto si possono dare relazioni e costruire legami utili alla formazione integrale dello studente.
Per questo, pur riconoscendo le difficoltà oggettive che la riapertura delle scuole comporta in termini di allestimento degli spazi scolastici secondo le disposizioni di sicurezza, riconosce che il mondo della scuola si sta adoperando perché questo sia possibile. Ed inoltre auspica che il ritorno in aula susciti un rinnovato entusiasmo per una educazione di qualità.
1. Quali prospettive si aprono per il nuovo anno scolastico?
Il nuovo anno scolastico è alle porte, ricco di incognite e aspettative. Dopo la forzata esperienza della cosiddetta didattica a distanza, allievi e genitori sono impazienti di ritornare a scuola: posso testimoniare di aver assistito durante gli Esami di Stato, appena conclusi, a pianti liberatori da parte di alcuni studenti che esprimevano la dolorosa prova del distacco dalla comunità scolastica. Si esprimeva così il forte legame che a scuola si costruisce non solo con i compagni di classe, ma anche con i docenti e il personale scolastico.
Tutti vogliono, giustamente, ritornare a scuola: studenti, docenti, personale ATA e genitori, ognuno con la propria collocazione. La chiusura forzata dovuta alla pandemia, ha avuto l’effetto di far riscoprire il ruolo che riveste questa istituzione e del suo futuro. Abbiamo avuto la consapevolezza che non sarà possibile sostituire la scuola con altri surrogati anche digitali, come si profetizzava, pochi anni fa, in alcuni convegni settoriali con l’avvento del Web. Abbiamo riscoperto che la scuola è un luogo di incontro, di relazioni, dove si costruiscono legami che possono sembrare talora deboli, ma utili allo sviluppo della nostra identità personale e alla nostra formazione non solo culturale.
Dall’assunto che la scuola è insostituibile nella sua funzione sociale ed educativa, ma bisognosa di essere al passo con i tempi e con le esigenze dei nostri discenti, quindi con uno sguardo sempre rivolto all’innovazione, intesa come tensione al miglioramento, discende la grande aspettativa di ritornare sui banchi, anche monoposto, come ci impongono gli standard di distanziamento interpersonale anti Covid-19. La didattica a distanza assolve solo in parte i compiti educativi della scuola in presenza e pertanto la riapertura delle aule non solo è auspicabile, ma è irrinunciabile.
Il rientro, così desiderato, non è del tutto scontato e lineare: è adombrato da incognite. A scuola è quasi impossibile evitare gli assembramenti e pertanto occorre gestirli in sicurezza con le dovute misure idonee a prevenire eventuali contagi, le conseguenti chiusure e il ritorno alla DAD. Mancano spazi idonei a contenere le nostre classi che risultano numerose per le aule progettate con altri standard. Si apre un nuovo scenario: vi è un’oggettiva difficoltà a reperire nuove aule dalle dimensioni richieste dalla misure restrittive. Nell’impossibilità di soddisfare l’enorme richiesta di spazi nuovi e idonei, occorre mettere mano a delle soluzioni innovative: turnazioni, suddivisione della classe in gruppi e collocati in spazi diversi, didattica cosiddetta mista: un gruppo in presenza e un gruppo a casa con la didattica digitale. In queste settimane le scuole sono alle prese nel trovare le soluzione più idonee utilizzando tutti gli strumenti forniti dall’autonomia scolastica con il DPR 275/1999: questo è il momento favorevole che ci consente di mettere mano alla “creatività” didattica utilizzando tutta la flessibilità organizzativa e didattica che il Regolamento dell’autonomia consente: rimodulazione dell’unità didattica, didattica per gruppi, sottogruppi anche di classi diverse e parallele, la flipped classroom ecc.
2. Quale la peggiore e quale la migliore?
La prospettiva migliore è il ritorno graduale alla normalità in presenza, senza abbandonare la didattica a distanza, che può risultare utile non solo in caso di emergenza, ma anche per alcune attività complementari: approfondimenti, recuperi anche singolarmente attuati, ricerche, conferenze tematiche su Cittadinanza e Costituzione, Educazione Civica. Dall’esperienza vissuta in questi mesi, è emerso che per gli incontri collegiali , quali i Consigli di Classe , i Consigli di Istituto, le piattaforme digitali si prestano bene.
La prospettiva peggiore è il forzato ritorno alla sola didattica a distanza senza chiare linee guida ministeriali, che ci sono state promesse.
3. Quali i punti non negoziabili?
Irrinunciabile indubbiamente è il contesto di relazioni educative che la scuola è chiamata a costruire anche in situazioni emergenziali : i nostri studenti, soprattutto i più piccoli non possono rinunciare alle occasioni di crescita umana che la scuola offre con il suo servizio: pertanto bisogna far di tutto per garantire il ritorno sui banchi in sicurezza e nel rispetto delle norme di prevenzione dal contagio.
4. Come si sta preparando la sua scuola alla riapertura?
La scuola che dirigo, come tutte le altre, si sta preparando con una minuziosa ricognizione di tutti gli spazi che in base alla metratura possono ospitare classi intere nel rispetto del distanziamento interpersonale imposto dalle norme anti Covid -19. Terminata questa operazione, si chiederanno nuovi spazi all’Ente locale preposto, che sicuramente potrà soddisfare solo parzialmente le nostre richieste.
Di pari passo si sta studiando un piano per consentire a tutti gli studenti la didattica in presenza utilizzando tutti gli strumenti che il Regolamento dell’autonomia ci consente di utilizzare: didattica mista, con una quota minoritaria in DAD; turnazioni per alcune classi con orario antimeridiano e pomeridiano.
5. Immagini di essere Ministro, da cosa partirebbe per riaprire la scuola?
Premetto che nessuno vorrebbe essere nei panni del ministro della P.I.
Ciò detto, mi pare prioritario reperire tutti gli spazi utili per garantire il ritorno graduale alla normalità con la didattica in presenza, con gli investimenti richiesti per assicurare il rispetto delle misure preventive e non escluderei dallo scenario la didattica digitale che richiede una solida formazione settoriale che non sempre si può improvvisare.
Dal Bosco Miriam
Lug 21, 2020 | Insegnanti
Martin Buber, Armando Editore
Il tempo vola… I ragazzi cambiano! Gli scenari si trasformano! Gli strumenti evolvono! Problemi inediti incalzano! Le normative si rinnovano!
Gli insegnanti hanno urgenza di aggiornarsi… Presto! Un saggio nuovo, un nuovo webinar! Accorra qui un esperto, uno specialista!
Ma anche no.
Un libriccino vecchio, di carta.
Un filosofo, che non si è mai occupato sistematicamente di educazione.
Tre conferenze occasionali, una del 1925, una del 1935, una del 1939.
E il lettore, che galleggiava alla superficie del suo mestiere, guardandosi intorno alla ricerca di aggiornamenti, viene improvvisamente e impietosamente strattonato giù, nelle profondità del compito di insegnare. A contatto con le ragioni perenni e profonde della relazione educativa. Con l’incredibile sensazione che lì, proprio lì, i polmoni finalmente si riempiano d’ossigeno.
Perché va bene aggiornarsi, ogni tanto, ma quello di cui non possiamo proprio fare a meno è tornare a insemprarci, tornare a immergerci nell’essenziale, nel cuore della bellezza che vale sempre.
Il grande Buber ci catapulta in questa dimensione; con una lucidità e una densità espressiva che rendono queste pagine potenti anche all’ennesima rilettura.
«Un giovane insegnante entra per la prima volta in una classe avendone piena responsabilità, non più come tirocinante che verifica le sue competenze. La classe si trova di fronte a lui, a immagine del mondo umano, così diversificato e pieno di contraddizioni, così inaccessibile. Egli si rende conto: “Questi ragazzi non li ho scelti, sono stato messo qui e li devo accettare per come sono, eppure non come sono adesso, in questo momento, no, come sono veramente, come potrebbero diventare. Ma come faccio a rendermi conto di ciò che si nasconde in loro, e cosa posso fare per far sì che ciò prenda forma?” E i giovani non gli rendono facile il compito, fanno rumore e fanno sciocchezze, lo fissano con arroganza e curiosità. Ed egli è presto tentato di fermare colui che disturba, di imporre massime di correttezza, di obbligare a rispettare abitudini adeguate, dire di no, no a tutto ciò che dal basso si pone contro di lui – è tentato dunque di partire dal basso.»
La citazione non prosegue, per evitare spoiler inopportuni, e lascia il posto alla segnalazione
Alessandro Giuliani
Lug 21, 2020 | Insegnanti
di Giorgio Chiosso (fonte: Il Sussidiario.net – 25.05.20)
Negli ultimi due decenni si sono moltiplicati gli studi e le ricerche se e come superare i modelli scolastici tradizionali eredi della stagione prussiano-napoleonica per renderli compatibili con le trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti. Nel 2001 l’Ocse pubblicò lo studio Schooling for Tomorrow cui fecero seguito il rapporto del National College for School Leadership, i “dieci principi” della Fondazione statunitense Mac Arthur, le recenti proposte del World Economic Forum e molto altro ancora (per quanto riguarda l’Italia ved. il volume della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, Un giorno di scuola nel 2020).
Secondo questi studi saremmo in presenza di tre principali scenari che riprendo dal documento Ocse sopra indicato.
1. Il primo è rappresentato dalla conservazione dello status quo, salvo qualche marginale ritocco. La fortissima resistenza al cambiamento di molti attori scolastici (spesso silente, ma non meno rocciosa) sarebbe un ostacolo insormontabile in grado di frenare/impedire qualsiasi prospettiva di reale cambiamento. L’alleanza tra i docenti conservatori, la difesa corporativa delle loro prerogative, l’inerzia dell’alta burocrazia ministeriale e l’incapacità del mondo sindacale di sostenere una coraggiosa linea di politica scolastica progressista costituirebbero i principali fattori, non solo in Italia, in grado di garantire ancora a lungo l’immobilità del sistema.
2. Speculari a questa posizione stanno i fautori di una graduale ma sostanziale e sostanziosa descolarizzazione. Sono riconoscibili in quanti sposano l’idea che “questa scuola”, anche quando le condizioni lo rendessero possibile, non si può più modificare tanto le sue strutture sono obsolete. Non resterebbe che accompagnarne la morte fisiologica (il sogno di Ivan Illich negli anni 70) e costruire, soprattutto mediante le opportunità fornite dalla rete e dalle tecnologie, pratiche di apprendimento e forme di socializzazione sostitutive, in larga misura dematerializzate. Cosa resterebbe della scuola che conosciamo? Forse la competenza di certificare i livelli di apprendimento – se proprio si vuole salvaguardare il riconoscimento del titolo legale – conseguiti ciascuno secondo i propri tempi e interessi mediante tempi e modalità variabili. A questa tesi aderisce una minoranza di insegnanti e di famiglie, per ora, ma molto ben attrezzata e sostenuta da importanti interessi economici.
3. Ci sono infine i riscolarizzatori che perseguono un’idea di “scuola diversa”: senza rinunciare all’apporto delle tecnologie, diffidano tuttavia dell’egemonia digitale e delle forme d’istruzione esageratamente destrutturate. Esse rischierebbero di trasformare l’insegnamento/apprendimento in esperienze solitarie e azzerare gli aspetti emotivi e affettivi che le accompagnano. Dai riscolarizzatori viene rimarcato con particolari enfasi che la scuola non è solo un luogo di esercizio cognitivo, ma anche di relazioni significative adulto/minore, un’opportunità di confronto culturale, un esercizio di convivenza, uno spazio di prova delle soft skills. Ma è davvero possibile dar vita a una “scuola diversa”? Sì, a condizione di liberare le scuole dai vincoli che ne condizionano la quotidianità, limitando a poche e generali regole il funzionamento, lasciandole libere di scegliere il personale e di predisporre i piani di studio, coinvolgendo le comunità locali, tutte condizioni necessarie per trasformarle in esperienze vitali e fare dell’autonomia non solo a parole.
È facile intravedere in questi tre scenari non solo gli orientamenti che attraversano il dibattito sul futuro scolastico nel mondo occidentale, ma anche le traiettorie della discussione politico-scolastica che si sta aprendo in Italia con caratteristiche – è facile prevederlo – molto diverse dal passato per due ragioni.
L’imprevista opportunità di sperimentare forzosamente un modello scolastico differente da quello tradizionale (casalingo, didattica a distanza, mancanza di rapporti in presenza con i docenti) ha documentato che sono possibili forme di insegnamento/apprendimento alternative a quelle abituali (naturalmente qui lasciamo perdere la loro attuale precarietà). Quanto avvenuto fulmineamente (e senza preparazione) negli ultimi tre mesi ha dimostrato che si può avere “un’altra scuola” (e non solo parlarne in astratto): in poco tempo si è incredibilmente aperto uno spazio d’azione inimmaginabile fino a poco tempo fa.
La seconda ragione è legata al patrimonio di esperienza umana vissuta nell’emergenza pandemica: le vicende di questi mesi fatte purtroppo di sofferenza, morte, povertà sono state accompagnate anche da generosità, partecipazione solidale, gratuità. Un patrimonio di valori umani che ha toccato il cuore di molti, che ha dato un nuovo senso alla realtà nazionale esaltando importanti dimensioni immateriali della vita comune. Non si può fingere che 30mila morti (ma sono sicuramente molte di più) siano passate senza suscitare domande significative. Di fronte alle statistiche della pandemia siamo stati spinti a riscoprire aspetti di senso vissuti a livello collettivo spesso censurati perché opinabili e in quanto tali confinati nella categoria ideologica.
Per quanto riguarda il futuro scolastico è molto difficile ipotizzare in quale direzione queste sollecitazioni potrebbero ridisegnarlo. Probabile che nessuna delle tre opzioni schematicamente presentate possa tradursi nella realtà, prevedibile invece che si creino soluzioni trasversali miste.
Una fondata preoccupazione è che si prendano delle scorciatoie semplificanti che potrebbero incrociarsi, per esempio, nella saldatura tra un neo-centralismo rassicurante e moderatamente generoso (qualche finanziamento per moltiplicare le dotazioni tecnologiche collettive e personali) che tranquillizza i vertici di viale Trastevere, la sostanziale conservazione dello status quo (che fa contenta la maggioranza dei docenti e dei sindacati) e una diffusa digitalizzazione presentata come scelta “progressista” e “democratica”. Come se dal numero dei pc in possesso delle famiglie e degli studenti si potessero dedurre la qualità della scuola e della formazione dei giovani.
In gioco c’è qualcosa di più e di diverso. Bisogna di nuovo tornare a interrogarci su quale educazione in generale e scolastica nella fattispecie vogliamo, proprio come è accaduto ogni volta che in passato la scuola ha attraversato i tornanti del cambiamento sociale e politico (ricostruzione democratica, sviluppo economico, scuola di massa…).
Se lo scopo dell’educazione è funzional-utilitaristico, il cuore dell’azione educativa è occupato soprattutto dalla dimensione dell’istruzione e dell’addestramento con tutto l’apparato metodologico che queste forme di trasmissione delle conoscenze comportano. Il problema del metodo assorbe perciò tutta la scena con l’ossessività delle procedure e con l’illusione di trovare finalmente quello perfetto e infallibile. Insomma le tecnologie dell’istruzione finiscono per porsi come una nuova ontologia orientata in senso tecno-efficientistico. E allora va bene puntare tutto sulla moltiplicazione dei pc e sulla potenza della rete.
Se invece lo scopo dell’educazione è prima di tutto umanizzante e cioè volto a far scoprire all’altro il senso di sé come persona umana e il suo posto della rete sociale nella quale vive, l’azione educativa si svolge attraverso altre piste. Per dirla con Romano Guardini, queste puntano a valorizzare soprattutto l’“incontro” tra persone e l’apertura a ciò che non è ancora, ma può essere: “Se l’uomo resta chiuso in se stesso senza mai correre il rischio di aprirsi alla realtà, diverrà sempre più misero e povero”. E allora l’esperienza cognitiva da sola non è più sufficiente.
Perché il baricentro per rilanciare l’educazione non potrebbe essere proprio quel patrimonio valoriale che la tragica esperienza del virus ha consentito a tutti noi di sperimentare?