La verità oltre la cortina di piombo (Newsletter n.21 marzo – aprile 2024)

La verità oltre la cortina di piombo (Newsletter n.21 marzo – aprile 2024)

Il contesto storico che fa da sfondo e da motore dei fatti è quello dell’Europa divisa dalla “cortina di ferro”: NATO da una parte e i paesi del Patto di Varsavia dall’altro. La guerra fredda proiettava il sospetto e il timore sulla popolazione, con il rischio di vere e proprie rivalse della potenza egemone, come accaduto in Ungheria e in Cecoslovacchia. Il 1968 vide nascere i movimenti di protesta nel mondo studentesco e operaio. Vi furono duri scontri e con il nuovo anno le proteste non cessarono bensì si intensificarono. Il 1969 fu l’anno dell’allunaggio, della protesta di Stonewall, di Arafat presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, del nuovo messale cattolico e del nuovo rito della messa, delle dimissioni di De Gaulle da Presidente della Repubblica Francese, dell’inizio del regime di Gheddafi in Libia, della creazione di ARPANET antenato dell’odierna Internet, del festival di Woodstock. Il 1969 fu l’anno del repubblicano Nixon presidente degli Stati Uniti, quindi dell’inizio dell’avvicinamento degli USA alla Cina.

L’Italia era uno Stato di frontiera per la sua vicinanza geografica ai paesi comunisti che la rendeva “ago della bilancia” in Europa: aveva una posizione strategica nel Mediterraneo, mentre Spagna, Portogallo e Grecia avevano un governo autoritario il nostro era un paese che era uscito dilaniato da una guerra civile, che sembrava non essere mai davvero finita. Aveva ricevuto importanti aiuti grazie al Piano Marshall, ma viveva in un contesto democratico dove vi era una parziale limitazione della sovranità del paese, proprio per il suo ruolo delicato negli equilibri della guerra fredda.

Trattandosi di una guerra non ortodossa, occorreva accertarsi che gli italiani fossero pronti a respingere le forze del Patto di Varsavia ipoteticamente appoggiate dai comunisti già presenti nella penisola. A questo scopo era stata creata l’operazione Gladio gestita dagli Alleati e dai servizi segreti per addestrare civili. I partecipanti dovevano mantenere la segretezza, partecipare alle esercitazioni e restare pronti alla chiamata alle armi. Gladio non era nota al parlamento e quindi estranea al controllo statale, ciò poteva lasciare la porta aperta ad azioni criminose dovute al possesso di armi o conoscenze che normalmente i civili non dovrebbero possedere, sia per l’uso di esplosivi che per il rifornimento di materiale a uso bellico. Vi era un’altra organizzazione parallela, clandestina e non ufficiale, atta sia ad armare e ad addestrare i civili sia a coinvolgere parte dell’esercito: i Nuclei di difesa dello Stato.

Vi fu anche il piano demagnetize, con lo scopo di condizionare l’opinione pubblica. Con il supporto della CIA furono realizzati veri e propri schedari di persone, colmi di particolari della vita privata, relazioni, famiglia, frequentazioni e interessi, e ciò divenne uno strumento di ricatto per coloro che intralciavano la stabilizzazione dell’opinione pubblica sull’area moderata.

La principale forza di governo, la Democrazia Cristiana, al suo interno presentava diverse correnti ed era concreta la possibilità che stringesse accordi con forze sempre più a sinistra. Occorreva un piano di emergenza da attuare qualora forze troppo a sinistra fossero in procinto di occupare posizioni di potere o stessero ordendo un complotto per ottenerlo. A questo scopo nacque il piano SOLO che prevedeva che l’arma dei Carabinieri dovesse prendere possesso delle sedi del governo e dei media in caso di emergenza, reale o presunta. Inoltre, dovevano irrompere nelle sedi dei partiti e dei loro giornali e arrestare i personaggi schedati dall’operazione demagnetize.

Riportando le parole del memoriale di Aldo Moro: Affluivano per un certo numero di anni gli aiuti della Cia, finalizzati a una auspicata omogeneità della politica interna ed estera italiana e americana. Francamente bisogna dire […] che non è questo un bel modo, un modo dignitoso di armonizzare le proprie politiche. Perché quando ciò, per una qualche ragione è bene che avvenga, deve avvenire in libertà, per autentica convinzione, al di fuori di ogni condizionamento. E invece qui si ha un brutale do ut des. Ti do questo denaro, perché tu faccia questa politica.

La figura di Aldo Moro si inserisce in questo particolare contesto a causa delle sue posizioni sia nella politica nazionale che internazionale. Al suo nome è legata l’apertura verso sinistra della DC, e sempre lui volle trovare alternative alle “sette sorelle” del petrolio, le maggiori compagnie americane e inglesi. Mattei, incaricato di smantellare ENI l’aveva trasformata in una azienda stabile e attiva. Morì in circostanze poco chiare. Chi indagò sulla sua morte morì in circostanze poco chiare. Pasolini scriveva “Petrolio” e morì in circostanze poco chiare. Rino Gaetano cantava con riferimenti alla politica, a Cefis, a Mattei, e morì in circostanze poco chiare. Moro non fece eccezione, le forze in gioco erano tante e le trame si intrecciavano tra politica nazionale, malavita organizzata, massoneria, interessi territoriali del mondo arabo ed interessi economici degli USA.

Quello che avvenne in quegli anni è chiamato “strategia della tensione”. La strategia consisteva nell’alimentare la paura per mantenere un assetto politico stabile, atlantista e controllabile. Gli attentati avevano lo scopo di spostare ulteriormente l’opinione pubblica su posizioni di diffidenza verso certi partiti, accusandoli di complicità con i terroristi e di interessi criminosi, in un crescendo di violenza sempre più dura. L’interesse principale delle forze di destra impiegate nella realizzazione di questi atti terroristici era la dichiarazione dello stato d’emergenza per una svolta autoritaria.

Esisteva già una rete composta da persone in carne ed ossa che collaboravano, passavano informazioni e le ricevevano, anche a livello internazionale. Le collaborazioni tra i movimenti della destra eversiva e i servizi segreti passavano per l’Aginter Press che fungeva da copertura a un’associazione della destra eversiva di stampo internazionale, una fitta rete informativa e ideologica. Il Sid e l’UAAR coordinavano le comunicazioni e le operazioni tra le parti.

Per molte persone la percezione di quegli anni è lacunosa: si tratta di un periodo di cui si hanno ricordi confusi prevalentemente appresi dalle trasmissioni televisive. Le operazioni delle Brigate Rosse hanno messo in ombra alcune azioni di altri gruppi e organizzazioni operanti prima e dopo la nascita delle BR.

Per un periodo la strategia aveva ottenuto l’effetto inverso di quello desiderato vedendo il successo del Partito comunista e per il suo raggiungimento di un accordo programmatico che portò a un appoggio esterno al governo guidato da Giulio Andreotti.

La bomba in Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 era stata preceduta da alcuni eventi significativi il cui nome per molti non suscita nessun ricordo o immagine. Eppure, il tentativo di colpo di stato del dicembre del 1970, noto come Golpe Borghese, che per anni si disse che non fosse mai avvenuto, poteva cambiare radicalmente l’assetto politico del nostro paese. Vi furono l’attentato di Peteano, la bomba alla questura di Milano e quella sul treno Italicus. Con il passare degli anni sono state dimenticate da molti o bollate come complottismo le azioni della loggia P2, la Rosa dei Venti e il “golpe bianco” del 1974, creando un vuoto importante nella comprensione di anni cruciali della storia della nostra Repubblica. Infine, con la strage della stazione di Bologna si chiuse il capitolo aperto con Piazza Fontana noto come “anni di piombo”, in cui il linguaggio della politica era quello della lotta armata, delle trame occulte e dei depistaggi, dove organizzazioni di militanti diventavano strumento più o meno consapevole per operazioni di più grande portata, attraverso i media, i ricatti, i processi.

È bene mantenere viva la memoria di quegli anni, non interrompendo la ricerca, anche se la rotta passa per il mare in tempesta dei depistaggi e delle trame nascoste. Lo storico ha il compito di provare ad arrivare ad una meta che talvolta per i tribunali è stata resa irraggiungibile: la verità

Pietro Beccherle

Li chiamavano anni di piombo – Sintesi  dell’intervento di Arrigo Cavallina (Newsletter n.21 marzo – aprile 2024)

Li chiamavano anni di piombo – Sintesi dell’intervento di Arrigo Cavallina (Newsletter n.21 marzo – aprile 2024)

Sintesi non rivista dall’autore.

A volte mi chiedono per quale motivo negli anni ‘70 sono nati gli anni di piombo, come mai sono nati gruppi come i nostri, che, come si diceva allora, volevano fare la rivoluzione, rovesciare il sistema di potere.

Partiamo da più indietro. Dalla metà del secolo XIX si sviluppa, in seguito all’industrializzazione, la classe operaia. La società si stava polarizzando tra grandi proprietari dei mezzi di produzione e i lavoratori sfruttati, in un rapporto di uno a mille. Di fronte a questi fenomeni sociali, una teoria si è fatta strada tra le tante, il marxismo. Marx ha creduto di trovare di quella situazione una spiegazione economica e una lettura storica. Di fronte a un dato obiettivo, la povertà di gran parte della popolazione e l’arricchimento di una piccola parte, l’idea che egli affermò è che questa situazione non sarebbe potuta durare, e che si sarebbe dovuti arrivare a un rovesciamento di potere. Nessuna teoria, credo, ha avuto tanti seguaci come il marxismo.

Nel 1917 uno dei più grandi paesi del mondo ha fatto la rivoluzione, la Russia. Nel 1948 la Cina, guidata da un partito che si ispirava al marxismo, ha fatto la rivoluzione. Quando i ragazzi della mia generazione si guardavano attorno sapevano che due grossi paesi avevano fatto la rivoluzione. Nella lotta antifascista c’erano tendenze diverse, ma una tendenza importante era quella che si richiamava al comunismo, che considerava il fascismo una parentesi nella storia dell’Italia, e che una volta liberato il campo dal fascismo, dopo la guerra e la Liberazione, si sarebbe proseguiti con la rivoluzione.

Un altro dato importante era che quelli come me e i miei compagni avevano una grande sensibilità per gli aspetti sociali, sarà che le nostre famiglie venivano dalla sofferenza della guerra e dalla miseria, sarà che nel mondo cattolico si stava facendo strada un’attenzione ai problemi sociali su scala mondiale, noi vedevamo nella nostra Italia delle ingiustizie diffuse. Consapevoli che la maggior parte dei lavoratori era sottoposta alla condizione di sfruttamento. Eravamo anche sensibili all’autoritarismo, per via del quale non c’era partecipazione. Stati Uniti e Unione Sovietica si erano divise l‘Europa in due parti, di qua o di là. E chi era di là rimaneva dov’era, senza poter cambiare la situazione. La linea di demarcazione attraversava la Germania. Le mie prime manifestazioni riguardavano Trieste, perché diventasse italiana. Il PCI si trovò questa situazione e bloccò le possibilità di prosecuzione della rivoluzione. Probabilmente c’era anche chi al suo interno riteneva che andare allo scontro sarebbe stata una catastrofe. Allora si elaborò la dottrina della via italiana al socialismo, attraverso il voto, il consenso. Un altro fattore importante è stata la guerra del Vietnam, combattuta fuori dal loro territorio e contrastata dagli studenti americani stessi. Noi vivevamo questo come la prova della profonda ingiustizia del sistema occidentale. Di fronte a questo giovani di area cattolica e no, Insoddisfatti della politica dei partiti parlamentari, dotati di sensibilità, si sono sentiti coinvolti, e a questi è capitato l’incontro con la filosofia marxista. Eravamo convinti che la rivoluzione fosse inevitabile e la maggioranza della popolazione ci avrebbe seguito. Riconosco che anche dall’altra parte, tra molti membri dei gruppi di estrema destra, c’erano idealisti quanto noi. Ingenuità e buona fede c’erano da entrambe le parti. Al di là delle idee sbagliate c’era in noi l’interesse per le sorti del mondo e la voglia di capirne sempre di più e di confrontarsi, questa sono cose che cerco di conservare.

Il passaggio successivo fu quello della formazione di gruppi extra parlamentari, p. es. Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, Lotta comunista. Erano gruppi la cui violenza all’inizio si limitava a degli scontri in piazza, tra gruppi opposti e tra gruppi e squadre di polizia.

Il passaggio successivo fu il passaggio da gruppi legali o semi legali a dei sottogruppi illegali, in cui si cominciò a imparare a sparare, usare esplosivi, rubare automobili. A Milano, che era il cuore della lotta di classe, si formarono i primi gruppi che si organizzano per colpire persone e cose e ottenere consensi. Il gruppo più grosso sono state le Brigate Rosse. In pochi anni la logica della Brigate Rosse ha portato all’uccisione di decine di persone. 

Quello che mi chiedo ancora: come siamo arrivati a decidere che poteva essere sacrificata la vita nostra e soprattutto di altri in nome di un’idea che noi ponevamo come il nostro scopo e senso? Il vizio di fondo era non ritenere che l’altro può avere anche fatto tutto il male del mondo ma è una persona che porta la mia stessa dignità e la sua vita ha un valore che non dipende da un mio giudizio, c’è e basta. Il concetto di umanità disponibile significa considerare l’altro disponibile a ciò che io mi pongo come fine, non considerando la dignità e l’umanità di ogni altra persona. Questo può essere una definizione di ideologia. Il nostro vizio di origine è stato quello di non aver considerato attentamente la dignità della vita dell’altro. Da lì a cascata sono arrivati i gruppi che dicevano di poter ammazzare della gente per perseguire la loro causa. Mettere davanti a tutto il proprio obiettivo.

Nel giro di qualche anno, dalla metà alla fine degli anni 70, era quasi tutto finito. Durò pochi anni perché l’ipotesi di base è che noi saremmo andati avanti e la gente avrebbe riconosciuto che avevamo ragione. Viceversa, nessuno ci ha seguiti. Eravamo alcune migliaia di persone, un numero non significativo rapportato al numero di giovani che non sono stati coinvolti. Venivamo visti per di più come dei nemici pubblici, gente che stava facendo disastri.

Per difendersi da questo, lo Stato ha puntato all’annientamento di tutti noi, con sistemi carcerari oppressivi, e dal punto di vista giudiziario con condanne basate su prove esili. Era un sistema che ci riconosceva come nemici assoluti contro i quali l’unica azione era quella di schiacciarci. Il risultato era in noi una rabbia e un rancore, e una solidarietà verso quelli che erano in carcere, e un prolungamento della lotta armata di qualche anno. Dal 1978 ai primi anni ’80, infatti, gli attentati furono tutti non più per il potere ma contro il sistema carcerario e giudiziario, a favore dei compagni nostri tenuti in quelle condizioni.

Successivamente si è aperto un secondo periodo, quello della dissociazione e della ricerca di un senso diverso della vita. Però anche da parte di altri, di quelli che consideravamo nemici, anche una fornitura di strumenti culturali in carcere. Inoltre, rappresentanze della società civile, intellettuali, parlamentari, si dimostrarono interessati alle nostre vicende. La nostra cantonata è stata anche un’esperienza da cui provare a ricavare qualcosa di buono e non solo un senso di desolazione e di sbaglio irrecuperabile. Gli esempi sarebbero tantissimi. Ne accenno uno. Un terreno di ricerca sono state le sacre Scritture. Capivo che i nostri problemi non erano così nuovi ma i problemi di sempre della storia. C’era stato l’attentato contro Giovanni Paolo II, commesso da Alì Agca, che si ritrovò in carcere a Rebibbia, dove mi trovavo anch’io. Il papa visitò Rebibbia e annunciò il suo perdono per Alì Agca. Malgrado quello che aveva fatto, non aveva nessun rancore contro di lui. Poi il papa rivolse un indirizzo di saluto a tutti noi, ed era il periodo in cui il sistema negava la nostra umanità. Il papa si rivolgeva a noi e anche agli altri detenuti manifestando come prima cosa la stima per la nostra persona e la nostra dignità. I giudici ci dicono che dobbiamo essere schiacciati per sempre in una cella e il papa ci dice che ha stima della nostra dignità. E poi la fiducia nella realtà che ogni persona, proprio perché è persona, ha dentro di sé soffocata o non soffocata una coscienza che le può indicare cosa può fare o no. Io l’ho considerata come la lezione più importante della mia vita, guardare in chiunque altro non il suo passato, e meno che meno giudicarlo per quello, ma dire che cosa può diventare. Portare il perdono vuol dire chiedersi come posso aiutarti a diventare altro dal male che hai fatto, come posso aiutarti ad adoperare le tue risorse e la tua esperienza per costruire qualcosa di buono. Quando mi sono occupato successivamente di tossicodipendenza e poi professionalmente di persone con vicende penali, me la sono tenuta come la lezione più cara. Cosa ogni persona potrebbe diventare, e cosa dipende da me, dal tipo di relazione che stabilisco con lui. E mi fa piacere che altri compagni di un tempo abbiano fatto la stessa mia strada. Vuol dire che da queste esperienze si può anche ricavare qualcosa di buono.

Alessandro Cortese

Educare alla bellezza dell’affettività: una sfida attuale (Newsletter n.20 gennaio-febbraio 2024)

Educare alla bellezza dell’affettività: una sfida attuale (Newsletter n.20 gennaio-febbraio 2024)

Intervista a don Daniele Dal Bosco, parroco, insegnante di Religione Cattolica e tutor Teen Star.

Da diverso tempo, inizialmente nelle scuole medie ma poi anche alle elementari e a catechismo, si sono introdotti progetti di educazione sessuale o educazione all’affettività, in cui vengono chiamati esperti, da medici a psicologi e sessuologi, per introdurre e guidare i bambini e i ragazzi al mondo della relazione con l’altro sesso. Però non è sempre stato così. 

  1.  Cosa significa “Educazione all’affettività”, “Educazione sessuale”? Ce n’è davvero bisogno?

Il termine educazione indica la necessità tipica di ogni essere umano di essere introdotto alla conoscenza della realtà da parte di chi è più grande di lui perché non può farlo da solo (questo differenzia l’uomo dagli animali che si trovano invece già con l’istinto che gli dice tutto ma anche senza una vera libertà di scelta). Allo stesso tempo l’originale latino “ex-ducere”, dal quale il termine italiano deriva, indica che per essere vera e non indottrinamento l’educazione deve aiutare a cogliere e scoprire la reale struttura della persona dandogli strumenti perché si possa creare un giudizio sulle cose.

Anche per quello che riguarda l’affettività e la sessualità, che sono i fondamenti della persona in quanto ognuno desidera amare ed essere amato, è fondamentale che chi si affaccia alla vita possa essere aiutato a comprenderne la bellezza e complessità. Quando ero adolescente ricordo di aver visto una mostra di miei coetanei che speravano “Ci fosse un Maestro…” per scoprire la vita e oggi certamente l’esigenza non è venuta meno, anzi. Inoltre, il bisogno non c’è solo da parte di chi viene educato, ma anche dell’educatore perché, nel farlo, riscopre anche per sé la bellezza e la verità di quanto vuole trasmettere;  come devono fare gli insegnanti che quando spiegano qualcosa agli alunni la devono prima di tutto chiarire a sé stessi.

2.  Esiste un “troppo presto” o un “troppo tardi” per affrontare la questione?

A mio parere il rischio prevalente di oggi è che si arrivi troppo tardi per mancanza di una proposta da parte degli adulti e questo, come sempre più dimostrano le risposte che i ragazzi danno durante i percorsi Teen Star che propongo a scuola e in parrocchia, li porta a farsi un’idea o attraverso il confronto con i coetanei o peggio ancora attraverso internet e i social media che spesso hanno una visione riduttiva se non distorta della questione.

3.  Qual è il compito dei genitori? E’ bene che se ne occupino o è meglio che ne stiano fuori?

Quando si parla di educazione i genitori non possono mai chiamarsi fuori perché, anche lo volessero fare, i figli vedono l’impostazione e le scelte che fanno e questo è già una proposta.  Come diceva papa Benedetto XVI, anche se possono far apparire il contrario, in realtà, nel loro intimo, i ragazzi e giovani non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita. Ma per citare un altro Pontefice, Papa Francesco, per educare un ragazzo ci vuole un villaggio. Quindi è fondamentale che, oltre ai genitori, ci sia una rete educativa fatta da scuola, parrocchie e altre agenzie educative dove  possano essere supportati e consigliati nel loro compito che rimane, però, insostituibile. Un rischio che posso però vedere sta nell’utilizzare un tipo di proposta deduttiva tipo “queste sono le regole”, “questo è il giusto e tu devi adeguarti” che rischia di far percepire il tutto come un’imposizione dall’esterno; una proposta adeguata, invece, dovrebbe partire dalla fiducia che il ragazzo ha un cuore fatto per riconoscere la verità e quindi aiutarlo a conoscersi nei propri aspetti biologici, intellettuali, emotivi, sociali e spirituali, per capire chi è e perché esiste. Come diceva William B. Yeats, quando si educa qualcuno si tratta non di riempire un secchio ma di accendere un fuoco.

D’altronde fa parte dell’esperienza educativa che, dopo che si è fatto di tutto per proporre ciò che si ritiene vero per la vita, si deve lasciare il tempo e la libertà all’educando di verificare e scegliere se seguire questa proposta. In fondo anche Dio stesso è arrivato a dare la vita per la nostra salvezza, ma proprio nel farlo ha rispettato la nostra libertà di accoglierlo o meno.

4.  Come affrontare la difficile questione dell’accesso alla pornografia da parte dei ragazzi ma spesso, purtroppo, anche dei bambini? 

Certamente siamo di fronte a uno sdoganamento completo della fruizione del porno trasversalmente a età, genere e area geografica e, data la latitanza educativa degli adulti, spesso rischia di essere l’unica idea che i nostri ragazzi si fanno in tema di sessualità. Direi, intanto, che sarebbe opportuno non fornire di devices elettronici i nostri bambini, in quanto non ne hanno bisogno, anzi, più sono a contatto con la realtà concreta, meglio è. In secondo luogo, bisogna che i bambini e i ragazzi non siano lasciati soli, ma abbiano la vicinanza e testimonianza di genitori maturi affettivamente e sessualmente, cioè in grado di mostrare che la pornografia è una riduzione e contraffazione dell’amore e non crea un vero rapporto ma chiude in una solitudine che non soddisfa veramente se stessi e non rispetta l’altro.

5.  L’approccio cristiano ha ancora qualcosa da dire? Può competere con il mondo dei social che dà messaggi molto più immediati e gratificanti?

La proposta cristiana non solo nel campo sessuale e affettivo, ma nella sua completezza, ha dalla sua due grandi alleati: la realtà che non si fa da sé, ma è fatta da Dio e il cuore dell’uomo che è anch’esso domanda di compimento infinito. Per cui rimane vero che il mondo dei social può essere più immediato e gratificante, ma, come dice il profeta Aggeo nella Bibbia, “Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame…” per cui, dopo un momento di estasi, si ricade in una solitudine ed insoddisfazione maggiore. Per usare parole più recenti, la stessa insoddisfazione nella canzone di Lady Gaga “Shallow” si manifesta nella domanda “Dimmi ragazzo, sei felice in questo mondo moderno?” 

Il cristianesimo permette di guardare tutto nella sua completezza, un po’ come ammirare un quadro non standogli a due centimetri per vederne un pezzetto, ma alla distanza giusta per vedere sia quel pezzetto sia la bellezza della totalità dell’opera godendone molto di più. Sta a noi cristiani fare per primi esperienza di questa più grande soddisfazione nel vivere (il centuplo che Gesù ha promesso a chi lo segue) e, a partire da questa certezza, continuare a proporla e testimoniarla a tutti, giovani e ragazzi compresi, certi che hanno un cuore fatto per poterla riconoscere e accogliere.  

Nei percorsi Teen Star mi sorprende, nei ragazzi, il passaggio da un iniziale disinteresse e scetticismo sulla loro utilità, pensando di aver già compreso tutto, ad una curiosità e sorpresa nel vedere adulti che si affiancano a loro spalancandogli una complessità e ricchezza di un mondo che non sapevano potesse esistere. Tanto da tempestarti di domande, avendo trovato finalmente un luogo dove porle e delle risposte.

Sappiamo, infine, noi educatori che c’è già Uno che nel cuore di ogni uomo ha impresso la Sua immagine e somiglianza e che non cessa anche oggi di cercarli e chiamarli a sé e, quindi, anche noi operiamo non da soli ma cooperando all’opera di un Altro che sempre ci precede e accompagna, avendo già vinto il mondo.

Miriam Dal Bosco

Sul desiderio serio (che non c’è più) di fare figli (Newsletter n.20 gennaio-febbraio 2024)

Sul desiderio serio (che non c’è più) di fare figli (Newsletter n.20 gennaio-febbraio 2024)

Prendo spunto dal bellissimo editoriale di Andrea Monda apparso sull’Osservatore Romano del 29 dicembre con il titolo “Il coraggio di amare” per allargare la riflessione in atto nel nostro Paese sull’urgente tema della denatalità.

Quello della denatalità è in effetti il fascicolo più importante sul tavolo del Presidente del Consiglio, perché i figli sono il primo indice di felicità di una popolazione, ma soprattutto perché sono il primo investimento di uno Stato, se vuole garantirsi il presente e il futuro, dal momento che non c’è nulla come un esercito di bambini che fa girare l’economia, dagli Ospedali ai prodotti per l’infanzia, dalle Scuole ai giocattoli, dal turismo, all’abbigliamento, dalle auto alle pensioni degli anziani.  Insomma, per dirla con uno slogan familiare: “No bambini, no Stato”.

Purtroppo oggi nel nostro Paese la forbice tra i decessi e le nascite si allarga di anno in anno e, come ricorda lucidamente la sociologa torinese Chiara Saraceno, “la bassa e ancora declinante natalità è innanzitutto la conseguenza del forte assottigliamento delle coorti in età potenzialmente fertile, contro un innalzamento delle speranze di vita che ingrossa le file delle coorti più vecchie. A questo vincolo puramente demografico si deve aggiungere, tuttavia, il perdurare di un tasso di fecondità che, con 1, 26 figli per donna, si avvicina al livello finora più basso, toccato nel 1995.”

“Ci vuole coraggio per amare” ha ricordato Papa Francesco nel discorso di fine anno alla Curia romana ed è proprio la latitanza di questo coraggio che ritengo oggi la causa principale del fatto che i giovani non si sposano (al massimo convivono saltuariamente) e non fanno figli (ma adottano cani dal canile).

A ogni ora il radiogiornale ci ricorda l’andamento del listino della Borsa, come fosse la notizia più importante, seguita subito dopo da qualche drammatico episodio di cronaca nera. Le belle notizie, gli alberi che crescono nel silenzio in ogni bosco, i semi sotterrati che germogliano senza far rumore, non trovano spazio nei pc delle nostre redazioni e così finisce che ci convinciamo tutti insieme che quello che conta è solo il PIL.  Ma, come ha ricordato Robert Kennedy nel famoso discorso all’università del Kansas, citato da Andrea Monda, il PIL di un Paese «non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti […] né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani». 

Certamente assegni familiari più generosi degli attuali dovrebbero coprire quella che secondo l’Osservatorio di Federconsumatori è il costo annuo di un figlio (oltre 7.000 euro l’anno; attualmente arriviamo a coprire meno di un terzo); certamente gli sgravi fiscali concessi all’Azienda durante il congedo per maternità della dipendente dovrebbero premiare l’imprenditore; certamente i servizi per la prima infanzia sia in termini di prodotti che in termini di scuole, dovrebbero agevolare la vita lavorativa della mamma, tuttavia il vero stimolo a fare figli è sicuramente un altro. E’ un desiderio. Vitale. Istintivo. Originario. Bellissimo.

La fertilità umana, ovvero la capacità generativa, è un gioioso e gratuito effetto sovrabbondante e per così dire collaterale di un desiderio istintivo, per dirla nel gergo biologico, che è certamente rude, ma è anche molto realistico e carico di simboli. 

Il figlio non è quindi il prodotto immediato di un’attività o di un gesto della coppia.  E’ piuttosto il frutto, ricercato e sperato, ma mai garantito, della volontà unitiva tra un uomo e una donna.  La fecondità è il dono gratuito ed eccedente di un gesto di intimità che appartiene alla sfera affettiva, emotiva ed esistenziale delle due persone di sesso diverso che si sentono attirate a diventare una carne sola, come se questo fosse l’unico vero sogno da realizzare, pena la reciproca infelicità.

La ricerca della comunione totale e indissolubile del corpo e dello spirito è lo spazio che l’uomo e la donna dovrebbero desiderare ogni giorno per diventare quella vocazione che il Creatore ha scritto dentro la prima coppia plasmata con le Sue mani: “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18).

Gesù conferma questa vocazione con queste parole: “Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie” (Mt 19,5).  San Giovanni Paolo II ha individuato nell’essere maschile e femminile il significato “sponsale” del corpo, ovvero la nostra condizione esistenziale per cui non possiamo che vivere se non orientati di continuo alla comunione con un’altra persona con cui possiamo addirittura, nell’intimità, generare una nuova vita. “Siamo fatti per amare”, canta anche Nek e non si sbaglia affatto.

La depressione così diffusa nella nostra società occidentale ha le sue radici in questa mancanza di amore donato e di amore ricevuto.  Per mille motivi.

“La più grande trasgressione di oggi è mettere su famiglia” rispondeva Vasco Rossi al giornalista qualche anno fa, indicando così che “la vita spericolata” è solo quella capace di condividere, che è l’unica modalità per generare futuro.

 Il desiderio profondo di condividere la vita con l’innamorata fino ad arrivare a fondere il proprio corpo con il suo, all’apice dell’attrazione, è la chiave dell’esperienza umana ed è presente e vivo anche nelle giovani generazioni, perché è innato, tuttavia è coperto dalle ceneri pesanti e scure che si depositano sui nostri vestiti ogni volta che usciamo di casa e sentiamo i messaggi della cultura dominante, che ci martella con l’idea dell’indice MIBtel che non deve mai scendere e con la rivendicazione ad oltranza dei diritti individuali e di un’autorealizzazione che non passa mai attraverso il dono di sé. Anche l’omogenizzazione dei generi maschile e femminile e la loro pretesa liquidità non fanno che spegnere il desiderio che esplode solo se innescato dalla bellezza e dalla ricchezza della differenza. La rivendicata e sbandierata fluidità di genere nei film e nei messaggi che arrivano ai nostri giovani è il frutto della ricerca diabolica dell’uomo “indifferenziato”, che è neutro, sterile ed infelice. 

Il nostro compito di adulti è quello di rimuovere le braci perché nei giovani si possa riaccendere la fiammella sepolta dalla cultura individualista, scartante e performante, quella che ci sporca ogni giorno con le sue fake news sulla natura umana. Noi genitori in particolare dobbiamo riappropriarci della nostra missione nativa che è quella di educare i figli che Dio ci ha donato. Non basta metterli al mondo, bisogna anche attrezzarli per la vita autonoma e come lo facciamo spontaneamente per i vestiti, l’alimentazione, lo sport, la scuola, le feste di compleanno… così dovremmo farlo per la loro vita interiore, per assecondare un rapporto sincero con se stessi, con l’altro e con Dio. Siamo storditi dal ritmo frenetico della vita moderna e quindi bisogna avere coraggio per fermarsi, sostare, perdere tempo… e dialogare con i nostri figli, su ogni cosa che ci riguarda.  Perché la vita è bella? Forse anche perché possiamo perdere tempo e in questo distacco dalle urgenze troviamo la leggerezza e il fascino della nostra relazione familiare, quel sentirsi “papà” e “mamma” che ci annoda ai figli in modo fedele e indissolubile per tutta la vita. L’esperienza che facciamo di vita piena (e rilassata) ci farà trovare le parole e i gesti per insegnare ai nostri figli come si ama, senza delegare le cose belle della vita né agli insegnanti di scuola, né agli “esperti” (ma quanti ce ne sono oggi? E, fateci caso, quasi sempre senza figli).

 “L’uomo – diceva il grande poeta romantico tedesco Rainer Maria Rilke – quando ragiona è un mendicante, ma quando sogna, è un Dio”.  Se le ragazze e i ragazzi saranno messi nelle condizioni di sognare, perché hanno imparato a farlo osservando i loro genitori, allora sì che si uniranno per la vita e dalla loro unione nasceranno cose inaudite, perfino nuovi figli di Dio.

Prof. Umberto Fasol

Non giudicare ma comprendere (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Non giudicare ma comprendere (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Una seria riflessione sulla didattica della storia non può prescindere da una più profonda analisi dell’utilità della storia come disciplina scolastica.

Nelle mie prime lezioni di storia in una nuova classe ho sempre posto agli studenti questa domanda: «A cosa serve secondo voi la storia?». Non nasconderò che la maggioranza rispondeva con un semplice «niente» e, sarò sincero, una parte di me si trova in accordo. In un’epoca segnata dalla “dittatura della tecnica” e da un insegnamento ultra-specializzante, basato spesso su progetti fine a sé stessi, materie come la storia sembrerebbero inutili. Quale senso ha, in effetti, investire due o addirittura tre ore alla settimana per studiare eventi, date, nomi, luoghi legati a un passato più o meno remoto ma apparentemente slegato dalle esigenze del presente? Nessun senso, potremmo dire.

Altri studenti rispondono che la storia è “maestra di vita”: in altre parole, «si studia la storia per conoscere gli errori del passato e per evitare di commetterli nuovamente». Forse sarò brutale, ma questo approccio rende ancora più noioso lo studio della storia. Mi spiego meglio: molti dei nostri giudizi sulle scelte compiute nel passato, oltre ad essere anacronistici perché totalmente decontestualizzati, ci fanno credere di essere “migliori” del nostro passato. «Siamo davvero tanto sicuri di noi stessi e del nostro tempo da separare, nella folla dei nostri padri, i giusti dai dannati?», si chiedeva magistralmente Marc Bloch, il padre degli studi storici moderni.

Troppo frequentemente infatti, e io ho subito da studente questa esperienza, l’insegnante di turno ha piegato la narrazione storica a una riflessione faziosa e ideologizzata, contrassegnata da un moralismo feroce. Non ci si può lamentare del disinteresse degli studenti se la lezione di storia si trasforma in un’aula di tribunale o, ancora peggio, in una tribuna elettorale.

Sembra una contraddizione ma solo adottando un atteggiamento non-giudizioso, e quindi comprensivo, nei confronti del passato possiamo rendere il passato stesso appassionante e avvincente. Se nella nostra didattica riusciremo a lasciare fuori dalla porta la “mania del giudizio” la storia diventerà viva perché scopriremo che chi ci ha preceduto, seppur in situazioni sociali ed economiche diverse, non era tanto diverso da noi. Non sto quindi affermando che si possa insegnare la storia in maniera totalmente oggettiva, ogni insegnante infatti è figlio di un’epoca o comunque portatore di una determinata visione del mondo e quindi del passato. La storia non è un libro già scritto da ripetere annualmente.

Ho sempre pensato che la lezione di storia non debba essere tanto diversa da uno studio di anatomia: seppur con strumenti diversi, tra le pieghe della storia l’insegnante dovrebbe far emergere gli uomini e le donne in carne e ossa, con i loro sentimenti e le loro speranze. In questo senso ogni scelta del passato, che secondo la nostra lettura contemporanea potrebbe sembrare irrazionale, assume un significato perché dietro ad essa si cela la vita di un essere umano. Per spiegare meglio la necessità della riscoperta di questo lato umanistico della storia, farò un esempio forse drastico, nella speranza di non urtare la sensibilità di qualcuno: è scorretto affermare a priori che Hitler fosse un pazzo; è necessario invece riflettere e comprendere perché quasi 20 milioni di tedeschi nel 1933 decisero di votare il partito nazionalsocialista. La differenza è sostanziale, nel metodo di insegnamento e nei risultati attesi. La scelta si riassume in due parole: giudicare o comprendere. Vorrei precisare che non sto affermando che l’atto di giudicare sia in sé negativo, poiché nella nostra quotidianità siamo costantemente chiamati a giudicare e scegliere una posizione. Sono convinto tuttavia che l’astensione da facili giudizi non solo accenda nello studente il desiderio di comprendere più approfonditamente il proprio passato, ma lo possa aiutare anche a porsi le giuste domande e, soprattutto, a non accontentarsi di risposte semplici e banali, magari imposte dall’alto.

Insegnare a porsi le giuste domande, questo è il grande obiettivo dell’insegnamento della storia a scuola, a qualsiasi ordine e grado. In questo senso, la storia diventa uno strumento utilissimo per lo studente al fine di affinare quelle abilità che potrà poi spendere nella sua vita professionale e nella società civile.

Stefano Sasso

Stefano Sasso è il curatore di un podcast di storia “History on Air – Scuola di storia” presente su Spotify

La storia è un bene per tutti. Insegnare storia in una prospettiva umanistica –  (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

La storia è un bene per tutti. Insegnare storia in una prospettiva umanistica – (Newsletter n.19 settembre-ottobre 2023)

Intervista al professor Andrea Caspani

Riportiamo l’intervista condotta al prof. Andrea Caspani, già docente di storia e dirigente scolastico, direttore della rivista online LineaTempo – Itinerari di ricerca storica e letteraria (http://www.lineatempo.eu). Ha svolto per vari anni il coordinamento del tirocinio e il laboratorio di didattica della storia per le SSIS, ha tenuto corsi di Storia contemporanea e di Didattica della storia all’Università Cattolica. Ha pubblicato vari studi di didattica della storia e di storia moderna e contemporanea, fra cui Memoria storica e insegnamento della storia (2003); La storia italiana: una questione d’identità (2005), Storie scelte. Elementi e pratiche di una didattica della storia (2008) L’Italia di Manzoni (2011), La prima follia mondiale chiamata guerra (2014). Ha curato la mostra storica del Meeting di Rimini: Testimoni della verità nell’Italia in guerra. La resistenza cancellata (2007).

In una nostra precedente newsletter (n. 10 del giugno 2021) era apparsa una sua intervista sul bicentenario napoleonico che potete leggere cliccando qui.

Citando March Bloch e il suo “Apologia della storia o mestiere dello storico”, certamente uno dei testi classici della riflessione sul senso e sul metodo della storiografia, vorrei partire chiedendole “A cosa serve la storia?”.

Questa bellissima domanda colpisce il problema dell’attuale disaffezione nei confronti della storia soprattutto da parte dei giovani. Il punto di partenza per una risposta esistenzialmente adeguata è comprendere che la storia, intesa come consapevolezza dello svolgersi dell’io nel tempo, è una dimensione costitutiva dell’umano, è ciò che permette la formazione dell’identità di una persona, perché ci apre alla realtà a 360 gradi,mettendoci in contatto con il mondo da cui veniamo, e aiutandoci a contrastare la mentalità di oggi tendenzialmente individualistica, che sembra teorizzare che ognuno si fa da solo o decide da solo il senso di tutte le cose. La storia invece ci insegna che noi non ci facciamo da soli, come si può notare semplicemente guardando il proprio ombelico (immagine che di solito viene utilizzata per dire che ognuno pensa solo a sé ed è responsabile solo di sé stesso), perché proprio l’ombelico indica che ciascuno di noi viene da altri.

In questo senso la storia serve ad aprirsi ragionevolmente al futuro e a combattere il presentismo attuale, perché fa comprendere che l’attesa e l’apertura al futuro non è connessa solo all’immediato presente, ma che questo è frutto e sviluppo di un passato, che va ricompreso, rielaborato ed assimilato criticamente se non si vuole vivere in modo squilibrato.

Il compito della storia è aiutarci a comprendere le nostre radici: acquisire la consapevolezza che, se vogliamo guardare realisticamente in avanti, occorre prendere coscienza che veniamo da lontano. Faccio un parallelo con quanto ci insegna la psicoanalisi sull’importanza di una equilibrata memoria personale (che superi cioè le lacune e le ferite del passato che hanno condotto alle rimozioni di cui tante volte non siamo neanche consapevoli) per la formazione di una personalità adulta responsabile: ebbene la storia, che è la nostra memoria sociale, svolge la stessa funzione terapeutica della psicoanalisi su un piano più generale, infatti se non ripercorriamo bene il nostro passato, con le sue luci ed ombre, come popolo, come umanità, rischiamo di non riuscire a guardare in modo realistico al presente. Chi non fa questo dà ragione a quel detto che dice che chi non conosce la storia è destinato a ripeterla, e aggiungerei, a ripeterla soprattutto nelle sue ombre

“Historia magistra vitae” diceva Cicerone. Cosa pensa di questa celebre definizione? Ce n’è una che si sente di dare o a cui si sente più vicino?

Questo giudizio di Cicerone è molto interessante, ma è solo parzialmente vero: perché normalmente porta a considerare la storia come un catalogo di episodi, strutture e concezioni da utilizzare per non ripetere gli errori del passato. In questo senso non è vero che la storia è magistra vitae, tanto è vero che molti oggi sostengono essere evidente l’esatto contrario, ovvero che dal passato non si può imparare niente, visto che si continuano a ripetere gli stessi errori del passato, come ad esempio mostra il continuo ripresentarsi delle guerre viste come l’unico modo per risolvere i problemi drammatici dei popoli e dell’umanità.

Occorre riconoscere che la storia non ci insegna come evitare gli errori del passato. Da questo punto di vista io ritengo più vera l’affermazione di Umberto Eco, che in un passo famoso diceva che la storia insegna a capire come si è arrivati a questo punto, ma non dove si va. Anzi, lui aggiungeva che, se qualcuno ti dice che la storia insegna come andranno le cose è o un ingenuo o un mascalzone. Al di là della battuta, la storia, secondo me, è magistra vitae nel senso che ci permette di contestualizzare il nostro passato, e attraverso di esso di cogliere ed incontrare il tesoro dell’esperienza umana dei nostri predecessori, che è fatta non solo delle ombre della violenza e delle guerre, ma anche di aspirazioni ideali, di slanci eroici, di affermazioni di valori, di realizzazioni ed opere che hanno segnato un progresso reale nella vita dell’umanità.

Conoscere tutto questo ci permetterà di trarre ispirazioni positive dal passato, ma non ci permetterà mai di dire che direzione prenderà la storia. Perché la direzione che prenderà la storia dipende dall’atteggiamento, dalla visione, dal sogno ideale che ciascuno di noi ha, e che non è deducibile dalla somma dei fattori del passato che ci condizionano. 

Se ci basiamo sulla classica distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura, la storia viene ricondotta alle prime, attribuendole la funzione di comprendere o interpretare, piuttosto che di spiegare alla maniera delle scienze naturali. Se questo è vero, a quale grado di oggettività può aspirare la verità storica?

È pienamente accettabile la distinzione tra scienze dello spirito e scienze della natura, e l’inserimento della storia nelle prime, perché l’oggetto precipuo della storia è l’uomo, anzi come diceva Marrou, la storia è proprio la conoscenza del passato umano in quanto umano. Questo non vuol dire che la storia studia l’uomo in generale, ma che si studiano gli uomini così come concretamente sono, nella loro avventura lungo la linea del tempo alla ricerca di un significato, che permetta loro la costruzione di una polis strutturata e in grado di affrontare le avversità e le sfide della realtà.

Da questo punto di vista il compito della storia è quello di comprendere il senso dello svolgimento delle azioni degli uomini e il filo sotteso che li motiva all’agire, non quello di spiegare tramite l’individuazione di leggi oggettive (come quelle della fisica) i rapporti tra le cose, tra gli enti.

L’oggetto della storia, infatti, non sono gli enti, ma gli eventi, cioè l’intreccio tra i fattori strutturali del reale, l’intenzionalità dell’agire dell’uomo e gli elementi casuali che interferiscono con questi.

In questo senso il fine della ricerca storica è la comprensione del senso degli eventi, non la loro spiegazione tramite leggi o costanti, né tanto meno la pretesa di giudicare moralisticamente gli eventi o i periodi storici. La storia non coincide con il giudizio morale sul passato, altrimenti non potremmo studiare realtà profondamente disumane come, ad esempio, il nazismo. 

Ogni evento o periodo, siccome è sempre implicato l’agire umano, che è cangiante e oscillante tra l’aspirazione ai grandi ideali e il rischio della disumanità perfino nel segreto del proprio cuore, va studiato con un “oggettivo” atteggiamento di empatia verso il tentativo dell’uomo di quel tempo di trovare un significato ideale e una conseguente strutturazione della polis, ma con la consapevolezza che non si giungerà mai ad uno sguardo onnicomprensivo e totalizzante del passato, cosa che può fare solo Dio. Questo spiega perché nella scienza storica permanga sempre un margine di incertezza su diversi aspetti particolari, e sia inesauribile la possibilità di un miglioramento della comprensione dell’umano del passato da parte della ricerca storica.

Questo, però, non toglie che la storia sia una scienza che raggiunge certezze, perché il metodo storico-critico, se applicato bene, ci permette di accertare che certi eventi sono realmente accaduti, ed anche, sia pur con un’approssimazione prospettica, il perché e il come sono accaduti.

Infatti, l’obiettivo della storia non è la verosimiglianza, (che è l’obiettivo del romanzo storico o della fiction televisiva seria), ma la certezza provata sugli eventi del passato e sul senso del loro accadere. Facciamo solo un esempio molto semplice: si può discutere, e infatti lo si sta ancora facendo, sulle interpretazioni della caduta del muro di Berlino e sulle cause della fine della Guerra Fredda, ma nessuno può negare che il muro di Berlino sia caduto e che questo abbia cambiato l’orizzonte della storia europea e mondiale. 

A volte può succedere di ascoltare lamenti circa un diffuso disinteresse degli studenti per la storia insegnata a scuola. Dall’altra parte, il successo, anche presso i giovani, di noti storici (come Alessandro Barbero tanto per citarne uno) e di canali di storia su internet fa pensare che l’interesse per la storia sia ancora forte, ma forse bisogna saper trovare il modo giusto per parlarne. Ha qualche riflessione da offrirci in proposito?

Certamente il contesto sociale del mondo occidentale che oggi non considera più importante la dimensione storica per la realizzazione della persona è un fattore demotivante, ma sono convinto che molte volte il problema della disaffezione o del disinteresse dei ragazzi dipende proprio dal modo di insegnare. La conferma ce la danno proprio gli storici citati sopra, che oggi richiamano l’attenzione di giovani e grandi per la loro capacità affabulatoria che evidenzia l’aspetto esistenziale dell’avventura degli uomini del passato.

Nella misura, infatti, in cui uno storico riesce a narrare, cioè a mostrare l’interazione fra l’agire e le intenzioni degli uomini con il contesto naturale e le strutture socio-economiche di un periodo dato, immediatamente si supera quell’estraneità che un ragazzo oggi vive verso ogni tipo di passato, fosse anche l’attentato alle Torri Gemelle; tutto ciò che non è nell’orizzonte del suo presente, per lui è storia “archeologica”, lontanissima da quel che sente come reale.  

Passando a parlare in modo più specifico della didattica della storia, quali indicazioni generali di metodo consiglierebbe ai docenti per suscitare negli studenti l’interesse per la disciplina permettendo a quest’ultimi di raggiungere un buon livello di competenza storica? E al contrario, secondo lei, quali possono essere gli errori più comuni o le pratiche didattiche meno efficaci, ma magari ancora oggi molto diffuse tra gli insegnanti? 

Il punto fondamentale è comprendere che l’insegnante di storia ha un compito diverso da quello del ricercatore. Mentre lo storico mira all’accertamento dei fatti, alla ricostruzione complessiva di un contesto e di un periodo, l’insegnante di storia ha come compito fondamentale quello di introdurre il ragazzo a immedesimarsi nella dimensione storica, a pensare e immaginare storicamente, a incontrare l’umanità degli uomini del passato. Questo richiede una prospettiva di metodo che è diversa da quella dello storico. Per questo sono falliti tanti tentativi in buona fede di cambiare la didattica tradizionale, perché hanno puntato ad esempio ad approfondire la ricerca delle fonti o il confronto tra le interpretazioni, puntando a educare il ragazzo a diventare uno piccolo storico. Di fatto mentre solo alcuni ragazzi diventeranno magari dei futuri storici, tutti possono appassionarsi alla dimensione storica nella misura in cui comprenderanno che pure in contesti ed epoche diverse gli uomini si sono posti lo stesso problema del senso della vita, dello strutturarsi della vita associata ecc. che è il problema che esistenzialmente vive anche il ragazzo d’oggi. Sono questi gli spunti che favoriscono l’immedesimazione esistenziale di un ragazzo d’oggi con le problematiche degli uomini del passato, purché naturalmente l’insegnante stia ben attento a non cadere nell’anacronismo, cioè nel presentare gli antichi come se ragionassero o avessero gli stessi ideali della nostra epoca, e ad utilizzare con accortezza i risultati delle più serie ricerche storiche.

Che la storia continui a rivestire un’importanza non secondaria, lo dimostra sicuramente l’uso pubblico della storia, con i rischi connessi di ideologizzazione e strumentalizzazione. Quale posto potrebbe avere nella didattica della storia una riflessione su tale dimensione?

La storia ancora oggi ha un grande ruolo sul piano pubblico, anche internazionale. Lo dimostra il fatto che Putin ha predisposto (attraverso anche una serie di interventi sui libri di testo) negli anni precedenti all’attacco contro l’Ucraina del febbraio del 2022, una versione della storia della Russia come di una realtà monolitica, con il principato di Moscovia quale unico erede della Rus di Kiev e il mondo ucraino strutturalmente connesso alla Grande Russia. Questa ricostruzione falsificante della storia russa (come affermano gli storici più autorevoli sul tema) è stata utilizzata come supporto “oggettivante” alle pretese russe verso l’Ucraina e purtroppo appare ancora convincente per tanti russi.

Questo significa che la storia viene usata oggi non soltanto per un discorso ideologizzato su questo o quel nodo storico (come accade da noi su tanti temi del nostro passato novecentesco), ma può essere utilizzata addirittura come fondamento per costruire una prospettiva politica di lungo periodo che condizioni lo svolgimento stesso della storia mondiale. In questo senso, a mio avviso, è molto importante sul piano culturale lavorare perché l’insegnamento della storia ritorni ad essere un asse portante della formazione scolastica.

E poi occorre un insegnamento attento a ripulire la storia da queste falsificazioni, ma questo non lo si può fare in prima battuta mettendo in luce tutti gli errori delle posizioni ideologiche, ma impostando un metodo di lavoro centrato sulla problematizzazione delle origini dei problemi storici attuali. Questo aiuterebbe subito a mostrare che la storia non è fatta tutta di luci per un soggetto e di ombre per un altro, qui il riferimento che mi viene immediato è alla drammatica situazione che sta vivendo la Terrasanta oggi: la storia delle origini della questione israelo-palestinese ad esempio permetterebbe di andare oltre agli atteggiamenti ideologici che guidano gran parte delle reazioni ai drammatici fatti che si succedono dal 7 ottobre ad oggi, favorendo una riflessione più comprensiva delle ragioni dei diversi soggetti storici coinvolti ed insieme delle ombre ma anche delle luci che hanno caratterizzato lo svolgersi degli eventi nel corso di più di un secolo di storia del Medio Oriente.

In questo senso un insegnamento storico criticamente fondato può svolgere una funzione positiva sul piano della formazione umana dei ragazzi, allontanandoli dall’idea che la storia (e soprattutto la sua interpretazione) debba sempre dividere i popoli.

Infine, un’ultima parola sulla rivista on line da lei diretta “LineaTempo – Itinerari di storia, letteratura, filosofia e arte” (www.lineatempo.eu) e rivolta agli insegnanti. Cosa vuole essere e quali scopi si propone?

LineaTempo è una rivista che è nata nel 1997 da un gruppo di docenti di storia che volevano andare a fondo del senso della storia e del suo insegnamento e da un gruppo di docenti universitari attenti alla divulgazione dei risultati della ricerca storica nel mondo della scuola. È una rivista di alta divulgazione che vuole essere di aiuto e di supporto a chi fa un lavoro di insegnamento della storia. Nel corso degli anni l’orizzonte della rivista si è arricchito ed allargato a tutta la dimensione umanistica, grazie anche al fatto che siamo divenuti una rivista online e abbiamo aperto un nostro sito dedicato.

Così sul sito, oltre alla rivista, si trovano diverse sezioni, una ad esempio sull’Ucraina, che abbiamo aperto dopo lo scoppio della guerra, per cercare di illuminare le radici storiche del conflitto, e documentare le luci di umanità che sono apparse. Recentemente abbiamo aperto un’altra sezione, intitolata “Mappe”, che vuole presentare, con testi molto brevi, libri di poesia e di letteratura significativi per la crescita dell’umano. 

La rivista, che ha una periodicità quadrimestrale, è caratterizzata in ogni numero da un ampio Dossier dedicato ad un tema culturale di rilievo: per es. l’ultimo dossier è sui sentieri della pace, ossia come l’esperienza storica del Novecento non sia stata solo una storia di violenza, genocidi e guerre, ma abbia visto anche lo svilupparsi di nuove forme di lotta per la pace, dall’emancipazione non violenta di popoli oppressi all’obiezione di coscienza, tutti riferimenti che potrebbe essere utile riprendere anche in questo periodo di “terza guerra mondiale a pezzi” e che convergono con lo sviluppo della visione della pace che papa Francesco sta portando avanti sulla scia della riflessione dei pontefici precedenti.

Un’altra sezione importante della rivista sono poi i Segmenti, con articoli di docenti ed esperti di storia, letteratura, arte, filosofia e perfino di storia della musica, che illustrano o rivisitano di volta in volta diversi aspetti delle discipline umanistiche in una forma facilmente utilizzabile per chi svolge un lavoro educativo. Completano il quadro i Percorsi culturali che presentano in modo originale e sintetico autori o temi storico-culturali e le Recensioni.

Alessandro Cortese