Verso un nuovo paradigma formativo? – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Verso un nuovo paradigma formativo? – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste sono le domande alle quali l’autrice, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, cerca di rispondere, tenuto conto del contesto venutosi a creare negli ultimi tempi a causa della pandemia, che ha reso il ricorso alle nuove tecnologie nel campo dell’insegnamento particolarmente pervasivo.

Domande guida

Quale ruolo svolge il corpo nell’apprendimento e nell’insegnamento? È possibile imparare e insegnare prescindendo dalla mediazione corporea? Queste domande definiscono la cornice delle riflessioni che seguono, su cui il momento attuale induce a interrogarsi con un’urgenza forse impensabile fino a un paio d’anni fa. Le misure poste in atto a seguito dell’emergenza pandemica sembrerebbero aver dimostrato che i dispositivi digitali sono alternative accettabili alla comunicazione didattica che si svolge con la presenza contemporanea di docenti e studenti nello stesso luogo fisico. 

Ma è davvero così? Nei mesi in cui siamo stati costretti a mantenere attiva la scuola e l’università attraverso la cosiddetta DAD (didattica a distanza) le voci polemiche di psicologi e pedagogisti che segnalavano i gravi rischi per la formazione di bambini, adolescenti e giovani presenti nell’utilizzo intensivo dei dispositivi digitali si sono alternate a quelle dei promotori di una sorta di nuovo paradigma comunicativo, in cui il digitale garantisce più funzionalità ed economia di tempo e risorse. Quali sono i criteri con cui leggere il momento presente e guardare al futuro che si prefigura non solo possibile ma probabile, per i contesti professionali in generale e in particolare per quello dell’educazione e della formazione? Se è evidente che molte sono le questioni in gioco e che non sarà possibile ripristinare la  situazione pre-pandemia ma solo decidere sensatamente come vivere nelle nuove condizioni createsi e quale orientamento dare alle scelte nei vari ambiti della vita professionale e relazionale in genere, nelle righe che seguono propongo alcuni spunti di riflessione sul lavoro educativo, in particolare quello che si svolge a scuola o per quanto mi riguarda in università, vivaio degli adulti di domani.

La prospettiva antropologica

L’educazione che si realizza nelle istituzioni scolastiche e universitarie ha come focus principale i processi di apprendimento-insegnamento e saperi di diverso genere, cioè un patrimonio culturale. Sembra scontato affermare tutto ciò, ma ritengo valga la pena precisarlo, perché ci richiama al fatto che parlarne richiede di assumere più o meno consapevolmente una certa visione dell’essere umano, visto che – come peraltro la quasi totalità delle attività in cui le persone sono a vario titolo impegnate – si tratta di processi e temi che coinvolgono esseri umani in relazione con altri esseri umani, a loro affidati. D’altra parte, in gioco c’è anche una certa idea di che cosa significhi apprendere e insegnare. In questa sede non è possibile esplorare esaustivamente né l’una né l’altra di queste due premesse e neppure argomentare le soluzioni che propongo per entrambe. Forse ci saranno ulteriori occasioni per soffermarsi più ampiamente su queste. Qui basti dire che dal modo in cui concepiamo l’essere umano dipende il modo in cui intendiamo l’apprendimento e l’insegnamento. E ancora, proprio l’essere umano, o meglio la visione che ne abbiamo, ci consente di fornire qualche itinerario di risposta alle domande iniziali. 

La cultura occidentale ha elaborato negli ultimi secoli letture riduttive o riduzioniste dell’essere umano, cioè ne ha alternativamente esaltato l’una o l’altra delle sue dimensioni a discapito delle restanti, offuscate, svalorizzate o deprivate. La filosofia moderna ha identificato l’essere umano con la sua ragione, la sua capacità produttiva, la sua libertà di scelta, le sue pulsioni. Il pensiero postmoderno ha messo in discussione queste concezioni, ma non ne ha rimosso l’errore di fondo, ossia appunto la semplificazione della struttura complessa e pluridimensionale della persona umana. Soprattutto ha estremizzato la tendenza – già presente dall’Illuminismo in poi – a subordinare la realtà, potremmo dire “le cose come sono”, al pensiero, ossia “le cose come le vedo io”, o alle possibilità operative di cui si dispone su di essa, cioè “quello che sono in grado di fare”. Per questo, ultimamente sempre con maggior insistenza – e direi violenza – non si parla né si ritiene possibile parlare di “natura umana” e non si commisura ciò che si può tecnicamente fare “con le persone” alla “verità della persona”, perché non ci si domanda più “chi sia una persona”, che cosa connoti un essere umano e quindi quali caratteristiche debbano avere le azioni che lo riguardano. Parafrasando Dostoevskij, si potrebbe dire che “se la natura umana non esiste più, qualsiasi azione verso l’uomo è ammissibile e adeguata”.

Le persona che apprende, la persona che insegna

Che cosa c’entra tutto ciò con l’apprendimento e l’insegnamento? Come accennato sopra, dalla concezione dell’essere umano che assumiamo dipende il modo di intendere i processi educativi e formativi. Se la persona è una totalità complessa, in cui la dimensione fisica, psico-affettiva e spirituale sono inseparabilmente costitutive della sua identità, tutte e ciascuna di queste dimensioni sono in gioco nelle azioni umane, compreso appendere e insegnare. E d’altra parte, la persona è un essere strutturalmente relazionale, ossia proviene da relazioni, genera relazioni ed esige relazioni. Non solo: nelle relazioni che attiva investe, o meglio per star bene “ha bisogno” di investire, tutte le dimensioni del suo essere. Apprendere e insegnare, allora, sono atti relazionali che coinvolgono non solo la dimensione cognitiva, ma anche quella fisica e psico-affettiva. 

Propongo qualche esempio, sia dalla prospettiva del docente, sia da quella dello studente. Per insegnare è sicuramente necessario possedere un sapere e conoscere tecniche e strumenti adeguati a veicolarlo efficacemente; è innegabile che la tecnologia può offrire opportunità interessanti, per visualizzare contenuti, per coinvolgere in modo interattivo gli studenti, per rendere fruibili attività ed esercizi che promuovano autonomia, autoregolazione, autocorrezione degli errori, potenziamento strategico, etc. Tuttavia da sempre – e tantopiù nel momento attuale – le modalità comunicative, ossia i metamessaggi veicolati con la prossemica, le inflessioni della voce, lo sguardo, la gestualità non solo contribuiscono, ma spesso determinano l’efficacia del messaggio. Ancora: l’interesse, la passione, il coinvolgimento che un docente trasmette per ciò che sta insegnando e in generale per il suo lavoro costituiscono un driver motivazionale ineguagliabile per i suoi studenti. Spesso mi capita di cogliere in adolescenti e giovani una correlazione molto stretta tra l’atteggiamento di un certo docente nei confronti del lavoro e degli studenti e la loro disponibilità a impegnarsi nello studio della disciplina che egli insegna. Al contrario, l’assenza di motivazione negli studenti spesso origina dalla percezione dell’assenza di “intelligenza emotiva” o “competenza empatica” negli insegnanti.

La stessa implicanza multicomponenziale è presente nei processi di apprendimento che – come segnalano da tempo Cornoldi, De Beni e colleghi – vedono l’intersecarsi di fattori cognitivi, ossia “freddi” ed emotivi e affettivi, cioè “caldi”. Può essere utile richiamare le varie dimensioni dell’intelligenza individuate da Gardner, tra cui sono presenti oltre a quelle più facilmente e intuitivamente riconoscibili come la logico-matematica e la linguistica, anche la musicale, la spaziale, la cinestetica, la interpersonale e la intrapersonale. Benché alcuni ritengano in parte superata la teoria di Gardner, mi sembra interessante e sempre valida la consapevolezza a cui incoraggia, ossia che l’essere umano entra in rapporto con la realtà non solo mediante l’intelligenza, ma anche tramite la fisicità e la sensibilità emotiva e affettiva. Gli studi sul valore della psicomotricità per l’apprendimento nei primi anni di vita, nonché l’esperienza almeno decennale in questo senso ne sono una testimonianza. Altrettanto si dica per tutte le metodologie di “didattica attiva”, in cui gli studenti sperimentano come veicolo di apprendimento efficace modalità più dinamiche di vivere gli ambienti (l’aula o altri spazi interni o esterni alla scuola) o il confronto in piccoli gruppi di lavoro, che movimentano le relazioni e le emozioni a esse connesse, sia positive sia negative. Molto altro si potrebbe considerare, soprattutto rispetto agli adolescenti e ai giovani universitari, riguardo alla connessione tra affettività e apprendimento, a quanto quella può promuovere o inibire questo: sempre più spesso lo stare bene o male a scuola dipende dal vissuto emotivo profondo dei giovani e questo è manifestazione della qualità delle loro relazioni, del fatto che ci siano o meno relazioni significative nella loro vita.

Un nuovo paradigma formativo?

Che cosa ha modificato il nuovo assetto relazionale e comunicativo determinato dalla reazione alla pandemia? Sicuramente l’aspetto più evidente è una sorta di virtualizzazione dell’esperienza in generale, il che sembra aver ridefinito le modalità di relazionarci – da febbraio 2020 le relazioni sono diventate insieme un pericolo e un’esigenza intensa, potentissima – e aver drasticamente ridotto le possibilità espressive della componente fisica delle persone, ossia del corpo e delle emozioni che la gestualità e la mimica veicolano. Ciò ha segnato tutti, anziani, adulti, giovani e bambini; certamente la sofferenza fisica ed emotiva è stata più acuta nelle persone che stanno vivendo fasi più delicate della vita o le cui condizioni rendono più delicato vivere. Tra le figure professionali, quella dei docenti è stata particolarmente provata dalle conseguenze della pandemia, anche perché ha fatto i conti non solo con la propria fatica e sofferenza ma anche con quella degli studenti. Per quanto non si possa dire che questa fase storica sia conclusa, certamente, rispetto a un anno e mezzo fa, oggi si guarda con maggiore distanziamento e consapevolezza a quanto accaduto nei mesi scorsi e ancora in corso. Molti sostengono che la digitalizzazione o virtualizzazione del lavoro e delle attività umane in generale, tra queste anche la formazione scolastica e universitaria, siano il futuro, che vadano cavalcate le opportunità dei dispositivi tecnologici e che si sia entrati in un nuovo paradigma in cui i modelli e metodi di apprendimento-insegnamento precedenti risultano ormai superati o da superarsi a breve. 

Non credo che la strada del ripristino della situazione precedente sia percorribile; penso piuttosto che vada esplorato, sia nella ricerca accademica sia nell’esperienza diretta di chi insegna in tutti i livelli di studio, che cosa può significare l’esigenza di un nuovo paradigma formativo. Proprio l’esperienza della didattica digitale o integrata – cioè in cui parte degli studenti sono nello stesso luogo fisico, magari con il docente, e parte sono collegati su una piattaforma online – ha posto in luce con forza la mancanza di relazione e di vicinanza fisica, una comunicazione di qualità inferiore in cui non era possibile incrociare gli sguardi e percepire il clima emotivo instaurato dal rapporto tra docente e studenti e dagli studenti tra loro. E tale mancanza e i tentativi di colmarla hanno denunciato che è falsa la concezione dell’apprendimento-insegnamento come dispositivo funzionale. 

Pertanto, o le istituzioni educative tornano a essere luoghi di comunicazione profonda, di scambio relazionale e di cura o non avranno più futuro: infatti, se il compito della scuola è solo trasmettere informazioni, in effetti la soluzione digitale è più funzionale ed economica. Ma se desideriamo che la scuola e l’università restino luoghi in cui si edifica l’essere di tutti coloro che ne sono protagonisti, studenti e docenti, in un reciproco scambio di beni relazionali, allora i dispositivi digitali non potranno essere “la” risposta al bisogno di nutrimento di tutte le dimensioni costitutive della persona – corpo, cuore, mente – ma dovranno avere collocazione e utilizzo tali da consentire prima di tutto e sopra tutto il contatto diretto e autentico con la realtà vera e le persone concrete.

Alessandra Modugno


*Alessandra Modugno è ricercatrice di Filosofia teoretica presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova ed è studiosa del pensiero di Michele Federico Sciacca. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensare criticamente. Verità e competenze argomentative, Carocci editore, 2018

Psicomotricità: la disciplina che punta al “ben-essere” del bambino – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Psicomotricità: la disciplina che punta al “ben-essere” del bambino – (Newsletter n.12 novembre – dicembre 2021)

Intervista ad Agnese Checchinato – dott.ssa in Scienze Psicologiche dello Sviluppo e dell’Educazione, Insegnante di Massaggio Infantile Shantala

L’educazione di un bambino riguarda tante realtà. In primis, senz’ombra di dubbio, la famiglia. Anche il ruolo della scuola è indiscutibile così pure le attività pomeridiane quali, ad esempio, lo sport.

Uno dei corsi che riscuote sempre più interesse e che vede un numero sempre maggiore di bambini iscritti è la psicomotricità; la sua importanza e peculiarità si è resa evidente quando, nei primi mesi del 2021, mentre tutte le attività sportive venivano sospese, una delle poche a proseguire è stata proprio la psicomotricità. Il nome ci richiama il fatto che l’attività fisica influisca non solo sul benessere del corpo ma anche della mente. 

  1. È così? Che cosa si insegna ai bambini in un corso di psicomotricità? A quali bambini è particolarmente adatto? A quali fasce d’età?

Vorrei iniziare con un ringraziamento per avermi dato la possibilità di parlare di questo tema importante e molto attuale. Come appena ricordato, infatti, nei primi mesi di questo anno particolare una delle attività a non essere sospesa è stata quella della psicomotricità che, infatti, non rientra fra le attività sportive ma è una disciplina a sé che coinvolge il corpo, lo schema corporeo, il movimento, il pensiero e le emozioni. Quindi, a differenza di un’attività sportiva, in cui l’insegnante o l’istruttore insegna delle tecniche specifiche di movimento, oppure strategie di azione o di collaborazione con i compagni, all’interno di un incontro di psicomotricità il conduttore non “insegna” nulla, per così dire, ma predispone l’ambiente in modo tale che il bambino possa sperimentarsi sia individualmente (seguendo i propri interessi e la propria curiosità) sia in gruppo (sperimentando dinamiche di socialità e di interazione). 

Corpo e mente sono strettamente legati e in Psicomotricità lo si coglie immediatamente, infatti il ben-essere del corpo influenza positivamente anche il pensiero e le emozioni e viceversa. Spesso piuttosto che ricercare un movimento particolare, fatto in un certo modo, cerchiamo di far trovare il desiderio del movimento, la motivazione al movimento che infatti è strettamente legata al ben-essere. Tutto questo può portare a grandi soddisfazioni e miglioramenti. La psicomotricità, a livello preventivo, è utile a tutti i bambini ma anche agli adulti perché permette di rafforzare il collegamento mente – corpo con tutte le sue meravigliose potenzialità. 

  1. Che formazione deve avere l’insegnante?

Per quanto riguarda la formazione specifica dello Psicomotricista, per esercitare questa professione è necessario aver conseguito il Certificato di Competenza Professionale di Psicomotricista dopo aver concluso l’iter triennale in una delle Scuole di Psicomotricità presenti sul territorio italiano o europeo. A Verona, ad esempio, troviamo la Scuola Professionale di Psicomotricità C.I.S.E.R.P.P. Scuola convenzionata con l’Institut Supérieur de Rééducation Psychomotrice di Parigi – Accreditata presso la FFP (Féderation française Psychomotriciens), l’APPI (Associazione professionale psicomotricisti italiani), l’AIFP (Associazione Italiana Formatori in Psicomotricità). La Scuola ha il Patrocinio del Comune e della Provincia di Verona e dell’ULSS 20 – Veneto Membro FISSPP (Federazione Italiana Scuole Superiori Professionali di Psicomotricità). 

Per chi volesse proseguire gli studi, nell’ambito della ricerca, a Verona è presente anche il Master Universitario Internazionale in Psicomotricità di durata biennale.

Ci tengo a fare, poi, una piccola precisazione: chi conduce un percorso di Psicomotricità solitamente non viene chiamato “Insegnante” ma semplicemente Psicomotricista, proprio perché, come ho appena accennato nella domanda precedente, l’obiettivo non è quello di insegnare qualcosa ma è quello di predisporre l’ambiente e la relazione con il bambino, in modo tale che quest’ultimo possa esprimersi al meglio delle proprie capacità grazie alla spinta della curiosità e al desiderio di sperimentare e sperimentarsi.

  1. Come si svolge una lezione di psicomotricità? Servono particolari attrezzature? 

Non c’è una regola precisa per svolgere un incontro di psicomotricità, ci sono più che altro delle fasi, potremmo dire. 

Si può partire da un momento di condivisione iniziale (un saluto in cerchio o l’occasione per raccontare ciò che i bambini desiderano agli altri o allo Psicomotricista), poi c’è un momento di attività motoria globale che potrebbe consistere nell’ideazione e creazione di percorsi motori per sperimentare la coordinazione, l’equilibrio, lo spazio, il tempo, il ritmo e cosi via… 

C’è sicuramente un momento dedicato al gioco simbolico per riprodurre situazioni conosciute e sperimentare vari ruoli e vari personaggi differenti.  

Grande importanza avrà anche l’attività di coordinazione fine o di coordinazione oculo-manuale come le costruzioni o la sperimentazione grafica, che rientrano nell’attività grafomotoria (ad es. disegno) per poi concludere con un momento di rilassamento e di condivisione finale.

Per svolgere un incontro di psicomotricità non sono necessarie attrezzature particolari (a parte materassoni, moduli morbidi di forme e dimensioni differenti); ciò che viene privilegiato è materiale non strutturato che permetta al bambino di ingegnarsi, di creare e di provare esperienze nuove e differenti, uscendo dalla modalità conosciuta al di fuori della palestra di psicomotricità. Ciò a cui tiene molto il professionista di questa disciplina è la suddivisione dei materiali in aree specifiche dello spazio e dell’ambiente in cui si svolge l’attività, questo prende il nome di Setting Psicomotorio. 

Il Setting risulta fondamentale allo psicomotricista per condurre l’incontro e per far si che le esperienze e le attività abbiamo obiettivi e modalità coerenti e funzionali.

  1. Quali risultati ci si può aspettare?

Questa domanda richiederebbe una risposta lunga e complessa perché i risultati dipendono da una molteplicità di fattori, ma anche dalla tipologia di soggetti che partecipano all’attività. 

In linea generale, però, si può certamente dire che seguendo un percorso di psicomotricità il bambino andrà ad affinare e a rafforzare le sue competenze motorie per quanto riguarda la coordinazione generale e quella fine, la gestione dello spazio e del tempo (sia nella pratica che a livello astratto), la sua conoscenza del ritmo (da quello musicale a quello corporeo ma anche di altri tipi di ritmo come quello quotidiano che regola le nostre giornate). Tutti questi aspetti insieme concorreranno nel rafforzare lo schema corporeo del bambino e anche la sua l’immagine corporea, cioè l’immagine che ha di sé stesso e quindi l’autostima. Ovviamente per qualcuno questi risultati potranno sembrare impercettibili mentre per altri estremamente evidenti. Ogni storia è a sé ma se si avrà la pazienza di aspettare e di lasciarsi stupire i risultati arriveranno!

Miriam Dal Bosco

Il paradosso della teleonomia dei viventi – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Il paradosso della teleonomia dei viventi – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

A partire dal famoso testo di Monod, Il caso e la necessità, l’autore riflette sul concetto di teleonomia, sostenendo che in natura non ci sono solo nessi di causalità e adattamento, ma anche un progetto per raggiungere uno scopo. Questo aprirebbe la strada anche all’idea che tutta la natura sia frutto di un disegno.

Se il finalismo nella biologia è palese, la sua fonte non lo è. 

(Jacques Monod, Il caso e la necessità, 1970)

Il saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea scritto dal Premio Nobel per la medicina Jacques Monod nel 1970, “Il Caso e la Necessità”, rimane una pietra miliare nel nostro dibattito sulla natura della vita, sulla sua complessità e sulla sua origine. Monod sviscera il tema con grande competenza sia filosofica che scientifica. Particolarmente lucido ed assertivo risulta il filo rosso che unisce tutte le pagine e tutti i capitoli trattati: “il carattere teleonomico degli esseri viventi, per cui nelle loro strutture e prestazioni essi realizzano e perseguono un progetto”.

La grande sfida per la riflessione filosofica sulla natura della vita è dunque costituita dalla teleonomia degli esseri viventi: il libro la affronta, la analizza e la rilancia di continuo, cogliendola da prospettive sempre diverse e muovendosi prevalentemente nel ricco e moderno ambito della biologia molecolare, quella che oggi è diventata pane quotidiano dei nostri giornali e delle nostre chiacchiere da bar (i vaccini anti-COVID a RNA messaggero).

L’ interrogativo fondamentale, cui si vuole rispondere è questo: “la teleonomia è reale o è solo apparente?”, ovvero: “è frutto di una scelta o è l’unica possibilità?” 

Prima di giungere alla risposta procediamo per gradi.

Prima di tutto definiamo la teleonomia (parola greca che significa: organizzazione finalistica) attraverso un esempio. “Se si ammette che l’esistenza e la struttura della macchina fotografica realizzano il progetto di captare immagini, si deve anche necessariamente ammettere che un progetto simile si attua nella comparsa dell’occhio di un vertebrato. … Lenti, diaframma, otturatore, pigmenti fotosensibili: le stesse componenti non possono essere state predisposte, nei due oggetti, che per fornire prestazioni simili”. “ È impossibile concepire un esperimento in grado di provare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito, in un punto qualsiasi della Natura”. Con tale affermazione categorica si cancella qualunque dubbio che il lettore o il ricercatore possa avere: il progetto c’è! 

Si può e anzi si deve dunque parlare di progetti nelle forme di vita, senza il pudore che spesso noi insegnanti proviamo quando parliamo con gli studenti: l’occhio, dunque, serve per vedere, il cuore serve come pompa per spingere il sangue in tutti i distretti cellulari, le ali sono strutture disegnate per consentire il volo, l’utero è fatto apposta per accogliere l’embrione, ecc. 

Sulla stessa linea, trentacinque anni dopo, il Cardinale di Vienna nonché allievo di Ratzinger, Christoph Schonborn si esprime pubblicando sul prestigioso New York Times, il 7 luglio del 2005, un articolo dal titolo “Finding design in Nature” (Cercare un progetto nella Natura), in cui accusa “di ideologia ogni scuola di pensiero scientifico che voglia escludere l’idea di progetto in natura.” L’accusa è pesante ed è ancor oggi mal digerita dagli scienziati di tutto il Mondo. L’articolo, infatti, ebbe una vasta risonanza mediatica, risvegliando le menti di filosofi e scienziati anestetizzate da decenni dalle idee dominanti di “casualità” e di “adattamento”, quelle stesse che troviamo ancora oggi in tutte le narrazioni dei nostri testi scientifici scolastici ed accademici.

Qual è dunque il problema se Monod prima e Schonborn poi, da prospettive filosofiche opposte, parlano di “disegno” in Natura come un’evidenza, che addirittura non si può smentire in modo sperimentale? La problematicità esplode nel momento in cui si vuole indicare la fonte di questi progetti, che non può assolutamente essere metafisica, per la scienza, in virtù del “postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di progetto”. Detto in modo diverso: i progetti ci sono, in natura, negli organi degli esseri viventi e nella loro organizzazione a più livelli, ma non possono essere spiegati con un Progetto più grande che li unifica e li trascende tutti. 

Come si spiegano allora i progetti, che abbiamo visto essere palesi? Monod ritiene che i progetti dipendano solo dalla selezione che farà l’ambiente in base a quello che gli ritornerà maggiormente efficace (mi permetto il punto di domanda). A tale conclusione Monod arriva osservando la assoluta gratuità delle interazioni strutturali nella biologia, ovvero il fatto che tra i pezzi che compongono il progetto non esiste alcuna complementarietà sterica. Il progetto, in altre parole, non è prevedibile a partire dai suoi singoli pezzi anatomici; per esempio tra la retina, il cristallino, la cornea e il nervo ottico non esiste alcun vincolo fisico per cui devono organizzarsi proprio in quella modalità che conosciamo all’interno dell’occhio. Tra le molteplici possibili combinazioni, quella che vede la sequenza cornea-cristallino-retina-nervo ottico è stata premiata dall’ambiente perché funziona. La gratuità è presente anche a livello molecolare e consiste anche qui nell’indipendenza chimica tra la natura molecolare del segnale e la funzione stessa che vuole realizzare. 

L’esempio più famoso è dato dal codice genetico, scoperto nel 1966, che mette in relazione le lettere del DNA con gli amminoacidi che devono essere uniti nel citoplasma per formare una proteina. Ecco l’incredibile gratuità del legame nel codice genetico: non esiste alcuna relazione chimica tra la tripletta di nucleotidi e il suo significato, ovvero l’amminoacido specificato: la parola UUU significa la fenilalanina, come è stato scoperto sperimentalmente, ma per pura convenzione, non per complementarietà tridimensionale o per affinità chimica.

Un altro esempio si può ricavare dal mondo degli ormoni. L’insulina è l’ormone prodotto dalle cellule beta delle isole del Langherhans del pancreas ed ha come bersaglio il glucosio del sangue: lo spinge all’interno delle membrane cellulari, abbassando così la glicemia. Bene: la relazione tra la molecola di insulina e il suo significato, ovvero la molecola di glucosio, è assolutamente gratuita: osservando la natura della prima non si può prevedere nulla della sua funzione.

Allora, ecco la conclusione di Monod: se i codici della vita sono gratuiti, significa che “tutto è possibile, perché nulla è predeterminato”: quando si formano le strutture vitali, la completa libertà di scelta tra le infinite opzioni costringe di fatto la natura ad escludere tutte quelle possibilità che non funzionano. Si affermerà solo quella possibilità che “obbedisce meglio ai soli vincoli fisiologici, grazie ai quali tutto verrà selezionato secondo la maggior coerenza ed efficacia che conferirà alla cellula o all’organismo”.

Qual è allora la fonte della teleonomia, per la Biologia evoluzionistica? L’ambiente. Proviamo a riflettere su queste conclusioni di Monod. Ci troviamo di fronte ad un paradosso epistemologico: il riconoscimento esplicito e scientifico della teleonomia come la cifra della vita non porta alla classica conclusione metafisica (esiste un Progettatore esterno che ne è il fondamento) che ha nutrito interi millenni di umanità, ma al suo contrario: “l’antica alleanza è infranta: l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo.” (conclusione del libro).

Insomma, l’ambiente, secondo Monod e secondo tutta la Biologia accademica di oggi, ha proprietà morfogenetiche che né la chimica, né la fisica, né la biologia, gli attribuiscono. Ratzinger scrisse che l’ambiente della teoria evoluzionistica ha le stesse proprietà che noi attribuiamo a Dio.

Che cosa c’entrano la temperatura ambientale, la pressione, la concentrazione iniziale, gli atomi di partenza, con la perfezione delle strutture degli esseri viventi e cioè le proteine, le membrane cellulari, i tessuti, gli organi, gli apparati, il naso, la bocca, gli occhi, lo sguardo stupito di chi ha appena letto il libro di Monod? Come si spiega cioè il miracolo dell’uomo con l’ambiente? Non è la vita eccedente rispetto ai suoi ingredienti? La cellula uovo, sferica e indifferenziata, in pochi giorni si struttura lungo tre assi, assume una forma allungata con una cavità interna che diventerà l’intestino, cresce e si differenzia formando un bambino completo di tutto, già dopo quattro settimane, che la mamma dorma o vegli. Il capolavoro che si forma dentro l’utero della mamma è assolutamente eccedente rispetto a ciò che accade nell’ambiente intorno ad esso.

Per arrivare ad una qualche conclusione, credo che Aristotele avesse ragione quando, ancora nel IV secolo avanti Cristo, aveva intuito che le cause finali sono il motore di ogni movimento. Vale anche per noi, nel nostro agire quotidiano: ci muoviamo solo per uno scopo.

La verità è che le cellule del nostro corpo si comportano “come se” fossero consapevoli di quello che devono fare in ogni istante per realizzare il progetto della vita e della sua perpetuazione. Questo progetto è l’attrattore di ogni movimento all’interno del vivente e sembra essere assolutamente autonomo rispetto all’ambiente, perché fatto di una pasta diversa.

Prof. Umberto Fasol

*Umberto Fasol – Docente di scienze naturali in un Liceo di Verona, di cui è preside, esperto di evoluzione, morfogenesi, cosmologia e bioetica, collabora con la rivista “Emmeciquadro”, “Nuova Secondaria” e con “Il Timone”; nel 1984 ha pubblicato sulla Rivista internazionale di Biologia “Meccanismi epigenetici nella morfogenesi dei vertebrati”, nel 2007 il libro “La creazione della vita” (Fede e Cultura), nel 2010 i libri “La vita una meraviglia” (Fede e Cultura) e “Evoluzione o Complessità? La nuova sfida della scienza moderna” (Fede e Cultura).*Umberto Fasol – Docente di scienze naturali in un Liceo di Verona, di cui è preside, esperto di evoluzione, morfogenesi, cosmologia e bioetica, collabora con la rivista “Emmeciquadro”, “Nuova Secondaria” e con “Il Timone”; nel 1984 ha pubblicato sulla Rivista internazionale di Biologia “Meccanismi epigenetici nella morfogenesi dei vertebrati”, nel 2007 il libro “La creazione della vita” (Fede e Cultura), nel 2010 i libri “La vita una meraviglia” (Fede e Cultura) e “Evoluzione o Complessità? La nuova sfida della scienza moderna” (Fede e Cultura).

Progetto DISF Educational – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Progetto DISF Educational – (Newsletter n.11 settembre – ottobre 2021)

Il 22 ottobre è stata inaugurato il progetto DISF Educational, uno strumento offerto a docenti e studenti per ragionare sul rapporto tra pensiero scientifico e cultura umanistica e cristiana. Abbiamo intervistato due delle curatrici del sito, Giulia Capasso e Costanza Murgia, che ci hanno illustrato struttura e finalità della nuova e interessante piattaforma.

Dal 22 ottobre sarà attiva una parte del vostro portale dedicata al mondo della scuola, agli insegnanti e agli studenti. Perché vi è venuta questa idea? 

Da circa 20 anni il Centro di ricerca DISF (Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede) ha promosso due siti web (disf.org e inters.org) con lo scopo di mettere a disposizione di studiosi e ricercatori del materiale che consentisse loro di approfondire in modo documentato temi che riguardano il rapporto tra pensiero scientifico, cultura umanistica e cristianesimo. Da tempo, tuttavia, era divenuta chiara la necessità di raggiungere anche ragazzi di età scolare, per permettere loro di affrontare queste tematiche in modo adatto alla loro età e ai loro contesti, aiutandoli ad evitare facili semplificazioni. È infatti proprio quella l’età in cui sorgono pregiudizi e luoghi comuni, e i ragazzi si pongono domande sempre più complesse alle quali non sempre la scuola ha la possibilità di rispondere. L’ambiente scolastico nel periodo adolescenziale rappresenta il luogo-chiave dove il rapporto fra pensiero scientifico e cultura umanistica può venire impostato precocemente e in maniera duratura. Per tutte queste ragioni abbiamo dato vita a DISF Educational. Va subito chiarito che, anche se formalmente parte del sito disf.org, il portale Educational è autonomo e a sé stante, con contenuti diversificati per tematiche, registro di comunicazione e grafica rispetto a quanto proposto da disf.org. Anche nell’aspetto estetico, dunque, sarà sempre chiaro ai visitatori quando si sta navigando in Educational. Ovviamente, varie pagine di Educational richiamano delle pagine di disf.org e inters.org, specie quando si propongono approfondimenti che interessano gli ultimi anni del liceo e l’università, ma la maggior parte del materiale presente su Educational è originale ed è stato prodotto appositamente per la didattica delle Scuole Superiori.

Può dirci anche come sarà strutturata la nuova Piattaforma? Quali contenuti si potranno trovare? 

DISF Educational si compone di quattro rubriche: “Percorsi Tematici”, “Grandi Domande”, “Video di Attualità Interdisciplinare” e “Cercatori di Senso”. Quest’ultima è però in fase di completamento e vi saranno delle nuove release ogni mese.

I Percorsi Tematici offrono al docente i principali snodi storici e concettuali associati a temi che percorrono trasversalmente le materie di insegnamento, soffermandosi in modo particolare sulle questioni interdisciplinari che sollecitano la filosofia e la religione cattolica. Ogni percorso è composto da una scheda principale, che tratta il tema in oggetto in modo sintetico ma strutturato, completata da numerosi approfondimenti e rimandi a contenuti ulteriori. Un elemento importante dei Percorsi tematici sono le “Tracce di lavoro” che propongono temi di riflessione e di ricerca da fare in classe con il docente oppure a casa. In alcuni casi abbiamo incluso fra queste Tracce anche l’idea di eventi interdisciplinari da tenere a scuola con la partecipazione di docenti di verse materie.

Le Grandi Domande desiderano intercettare questioni oggi dibattute, spesso temi di confronto fra scienze e filosofia o fra scienze e religione. Sono domande che interpellano in primo luogo gli studenti. Ad essi è diretta la prima risposta, compatta e sintetica, che si sviluppa poi in ulteriori sotto-domande, più specifiche e approfondite, che articolano e sviluppano la risposta iniziale.

DISF Educational propone anche una significativa sezione multimediale nella rubrica Video. Ogni filmato espone in modo conciso e documentato uno specifico argomento di attualità nell’ambito dei rapporti fra scienze, filosofia, etica e religione. 

La rubrica Cercatori di senso propone invece delle “porte” attraverso le quali invitiamo gli studenti ad entrare. Ciascuna di esse reca il nome di un’esperienza “forte” che caratterizza la vita umana e che i giovani cominciano a sperimentare. Si aiutano gli studenti a riconoscere queste esperienze presenti nella letteratura e nel cinema, nella cultura e nell’arte, invitandoli anche a conoscere cosa la fede cristiana ha da dire su di esse. Fra le 12 porte troviamo: Amore, Coscienza, Destino, Giustizia, Fragilità, Libertà, Identità, Felicità, Gesù di Nazaret. Due di esse, Stupore e Conoscere sono già online e consultabili, le altre verranno pubblicate gradualmente nei prossimi mesi.

Una didattica che desse più spazio ai punti di contatto tra discipline diverse, quali p. es. le scienze naturali e la filosofia, quali vantaggi secondo voi potrebbe offrire all’apprendimento delle stesse?

Alcune tematiche importanti per la loro natura e oggetto non possono essere inquadrate da una sola disciplina, ma richiedono il contributo di più prospettive. Si pensi, ad esempio, alle domande filosofiche che emergono in alcuni ambiti delle scienze, a movimenti di pensiero come l’illuminismo o il positivismo, ai dibattiti suscitati da autori come Galileo Galilei o Charles Darwin, a questioni di attualità come l’ecologia, l’intelligenza artificiale, il progresso tecnologico, le frontiere della medicina e della bioetica. Alla base del progetto DISF Educational vi è la persuasione che l’insegnamento scolastico e la formazione intellettuale debbano, per loro natura, educare alla profondità, allargare orizzonti, creare collegamenti, stimolare il giudizio critico. I contenuti trattati mirano pertanto a favorire l’unità del sapere, intesa non in senso enciclopedico, ma come caratteristica di una persona colta, che sa inquadrare le sue competenze specialistiche nel contesto delle altre conoscenze.

Da diversi anni si parla spesso nel dibattito scolastico, non solo in Italia, dell’importanza delle materie STEM, e della necessità di investire nella formazione scientifica delle nuove generazioni, ritenuta fondamentale per lo sviluppo economico. Non ci può forse essere il rischio di ridurre il ruolo e l’importanza della formazione umanistica? Qual è il vostro punto di vista?

La cultura scientifica esercita oggi un grande influsso sulla società, sui giovani in particolare. All’interno di una società sempre più “liquida”, la “solidità” scientifica rappresenta una forma di pensiero forte, destinato a diffusa autorevolezza. È giusto e importante che venga dato lo spazio adeguato alle materie STEM nell’educazione dei giovani, poiché sono strettamente legate a temi che questi ragazzi incontreranno sempre più di frequente nel prossimo futuro. Tuttavia, non va sottovalutata la fondamentale importanza che una buona cultura umanistica continua a mantenere, anche perché ci permette di affrontare in modo più consapevole le questioni sollevate dai rapporti sensibili come quelli fra scienza e società, scienza ed etica, scienza e religione. Il nostro Centro di ricerca parte dalla convinzione che la scienza sia un’attività pienamente umana, mossa dallo stupore e orientata alla ricerca della verità, che opera sulla medesima realtà che è oggetto della filosofia, dell’antropologia e della storia. In questa visione della conoscenza, le scienze naturali si trovano a dialogare costantemente e proficuamente con le scienze umane, senza che nessuno dei due poli ne risulti sminuito.

Infine, più in generale, qual è secondo voi un giusto modo di porre il tema del rapporto tra fede, filosofia e scienza?

Il Centro DISF pone da sempre al centro della sua riflessione il concetto dell’unità del sapere, e nella creazione di questo progetto l’aspirazione è stata quella di porre questo tema in una prospettiva educativa. Si è rivelata una sfida notevole, soprattutto in un’epoca in cui la cultura, e l’educazione scolastica in particolar modo, risultano estremamente frammentate e specializzate nei loro rispettivi campi di studio, ma proprio per questo riteniamo sia stata un’operazione necessaria e urgente. Infatti gli alunni di scuola hanno bisogno di inquadrare le conoscenze e le competenze che maturano all’interno di una prospettiva intellettuale ed esistenziale unitaria. Le scuole dovrebbero sempre tendere alla formazione organica dei ragazzi, che hanno delle aspirazioni e delle caratteristiche individuali da proteggere e da indirizzare con rispetto e comprensione. Per questo lo scopo della piattaforma DISF Educational è orientare chi vi si accosta affinché veda come i vari campi del sapere specialistico possono entrare in un proficuo dialogo fra di loro, e come una loro sintesi sia possibile anche nella coscienza di ciascuno.

Alessandro Cortese

Aprile 1796 “Pasque Veronesi”: un sussulto di orgoglio – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Aprile 1796 “Pasque Veronesi”: un sussulto di orgoglio – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Aprile 1796, è in pieno svolgimento la prima campagna d’Italia del Gen. Bonaparte che, a capo dell’Armée d’Italie, dopo aver sbaragliato gli Austriaci a Dego, Millesimo e Montenotte e i Piemontesi a Mondovì e Cherasco, si scontra nuovamente con l’esercito austriaco a Lodi riportando un’epica vittoria che gli consentirà il 13 maggio di entrare trionfalmente a Milano da Porta Romana e di prendere possesso della città. Ma a Bonaparte questo non basta, vuole inseguire gli austriaci che si stanno ritirando e il 30 maggio li affronta a Valeggio sul Mincio. Dopo un duro combattimento gli austriaci in ritirata ripiegano verso Mantova.

Il giorno successivo, 1 giugno 1796, il Gen. Antoine Balland alla testa di 12.000 soldati entra per la prima volta a Verona.

Lo stesso Napoleone prende alloggio nella casa del Conte Francesco Emilei e ancora oggi questo soggiorno viene ricordato da una targa su cui si legge: “NAPOLEONE BUONAPARTE GENERALE DELLA REPUBBLICA FRANCESE TRIONFATORE A MONTENOTTE A MILLESIMO A DEGO A MONDOVI ENTRATO LA PRIMA VOLTA IN VERONA IL 1 GIUGNO 1796 ALBERGÒ IN QUESTO PALAZZO”.

Verona, fedele roccaforte di terraferma della Serenissima Repubblica di Venezia, è costretta ad ospitare questi soldati stranieri che si sistemano nelle loro case e requisiscono tutte le riserve alimentari.  

Va considerato che nella guerra tra francesi e austriaci Venezia, fin dall’inizio, ha adottato la politica della neutralità nella speranza di non essere coinvolta nel conflitto. Tuttavia, nonostante la dichiarata neutralità, i francesi, appena entrati a Verona, agiscono in modo autoritario nell’impossessarsi di Castelvecchio, dei forti militari, di alcuni edifici e di alcune chiese che vengono utilizzate come ospedali militari.

All’epoca Verona contava circa 55.000 abitanti che vivevano dignitosamente grazie ad una fiorente attività commerciale. Quanto sta accadendo in città coglie di sorpresa i cittadini che non comprendono il modo di agire arrogante e irrispettoso dei francesi che vengono visti più come invasori che come ospiti. Nessuno sa spiegarsi il perché di questo comportamento. Ma la spiegazione c’è e va ricercata in vecchi rancori che si erano venuti a creare tra Verona e la Repubblica Francese. 

Verona dal 1794 al 1796 ha accolto il Principe Luigi Stanislao Saverio di Borbone, Conte di Lille, fratello del Re di Francia Luigi XVI. Il Conte durante il periodo del terrore, per evitare la ghigliottina, era fuggito da Parigi e si era rifugiato a Verona ospite dell’amico Conte Gianbattista Gazola. Durante il soggiorno, informato della morte di Luigi Carlo, legittimo erede di Luigi XVI, il Conte di Lille si autoproclama Re di Francia con il nome di Luigi XVIII e lo comunica ai francesi e a tutte le monarchie d’Europa. Questa presenza ingombrante imbarazza il Senato Veneto che teme un deterioramento dei rapporti diplomatici con la Francia, così nell’aprile 1796 decreta in fretta e furia l’espulsione del Conte dai territori della Serenissima Repubblica di Venezia. Questo alla Francia non basta, Verona ha manifestata inimicizia nei confronti della Repubblica, dunque merita una punizione. 

Inevitabile che questa atmosfera rendesse i rapporti tra veronesi e francesi sempre più difficili; la diffidenza degli uni verso gli altri era così evidente che il Conte Augusto Verità, nella speranza di raffreddare gli animi, decide di compiere un passo diplomatico. Approfittando dei suoi buoni rapporti con il Gen. Balland, lo incontra e lo invita a mantenersi neutrale in caso di scontri tra cittadini veronesi fedeli a Venezia e cittadini veronesi che hanno abbracciato la causa giacobina. Il Generale conferma la sua intenzione di non intromettersi negli affari interni della Serenissima.

La Francia, ancora una volta, non è d’accordo e vede nell’occupazione militare della città la giusta punizione. Per attuare questo piano serve un valido pretesto che viene presto trovato. Gli stessi francesi progettano, scrivono, fanno stampare e affiggono ai muri della città un manifesto incitante i veronesi ad insorgere in armi contro gli invasori francesi e nella notte fra il 16 il 17 aprile vengono affissi dai francesi numerosi manifesti in cui si legge:  Noi Francesco Battaia per la Serenissima Repubblica di Venezia Provveditore Estraordinario in Terra Ferma…. contro questi nemici eccitiamo i fedelissimi cittadini a prendere in massa le armi e dissiparli e distruggerli, non dando quartiere a chichessia, ancorchè si rendesse prigioniero….. Invitiamo pertanto i Cittadini rimasti fedeli alla Repubblica a cacciare i Francesi dalla città e dai castelli che, contro ogni diritto, hanno occupato.”

La provocazione è fin troppo evidente, non resta che aspettare la reazione dei cittadini veronesi, che non tarda ad arrivare. Alle ore 14.00 del 17 aprile, lunedì dell’Angelo, in un’osteria nei pressi delle case Mazzanti si sviluppa una violenta zuffa, senza esclusione di colpi, tra veronesi e francesi; quest’ultimi hanno la peggio e vengono brutalmente malmenati.Contemporaneamente in Piazza Bra, tra i soldati dalmati, disposti a presidio dela piazza, ed alcuni giacobini locali si verificano alcuni scontri a fuoco. In tale circostanza il Gen. Balland, che nella piazza aveva disposto dei picchetti di guardia, per mantenere fede all’impegno preso e per non inasprire ulteriormente gli animi, ordina ai suoi di non intervenire. Alle 17.00 quando la calma sembra essere ritornata, molti veronesi prendono coraggio, escono dalle case e a gruppi, attraversando Piazza dei Signori, si incamminano verso le chiese per recarsi a Messa. Questa apparente situazione di cessato pericolo viene   improvvisamente interrotta dalla caduta di alcune palle di cannone infuocate che, oltre a generare panico, provoca il ferimento di cittadini inermi e incolpevoli. 

La decisione dei francesi di intervenire utilizzando l’artiglieria disposta su Castel San Pietro e sul forte San Felice induce la violenta reazione dei veronesi, come riporta la cronaca dell’epoca di un anonimo, conservata presso la Biblioteca Comunale di Verona: “A misura che cresceva il rimbombo delle artiglierie, uscivano gli abitanti dalle proprie case […], correvano mal armati ad affrontare le pattuglie francesi, le quali si videro obbligate a cercare sicurezza dandosi precipitosa fuga verso i castelli… Non si sentiva altro che un continuo gridare per ogni angolo della città: Viva S. Marco… Tanta era la furia, l’impeto, la collera, l’odio che si era acceso contro questa gente che più non si conosceva ragione, né pietà, né religione….Fu riferito che erano stati veduti ragazzi con coltelli inveire contro i cadaveri di Francesi…. I francesi, che non riescono a raggiungere i forti o Castelvecchio, vengono rincorsi, catturati, uccisi e gettati nell’Adige.”

Inizia così una intensa attività di guerriglia urbana caratterizzata da duri e sanguinosi corpo a corpo. I francesi rispondono sparando da Castelvecchio cannonate sulle case circostanti che provocano devastanti incendi. Sarà il provvidenziale arrivo del Conte Augusto Verità con i suoi soldati a neutralizzare i cannoni francesi permettendo alla giornata di terminare favorevolmente. I veronesi controllano le porte di accesso alla città: Porta Vescovo, Porta San Giorgio, Porta Nuova e Porta San Zeno, mentre i Francesi restano asserragliati nei forti. Il giorno dopo, 18 aprile, i rappresentanti del Senato Veneto, resosi conto che le forze in campo erano nettamente favorevoli ai francesi, si precipitano a Venezia per chiedere l’invio di truppe a sostegno di Verona. Nei giorni successivi, 19-20-21 aprile, i combattimenti proseguono senza tregua e si fanno sempre più cruenti. Da una parte i soldati francesi che fanno pesare la loro superiorità numerica e la loro maestria nell’uso dell’artiglieria e dall’altra, gli eroici cittadini di Verona, che, pur sfiniti e allo stremo delle forze, combattono con coraggio fino all’ultimo respiro. Per le strade si contano centinaia di morti e feriti. La situazione non è più sostenibile senza aiuti da Venezia. E il 22 aprile gli aiuti arrivano: un anziano generale al comando di 400 fanti, 800 contadini e 8 cannoni da campagna. Una beffa! Venezia ha abbandonato Verona al suo destino.

È la fine, i veronesi non possono resistere oltre. Per le strade della città e dalle case distrutte dagli incendi si sentono solo grida di dolore, lamenti e il pianto angosciante di madri, figlie e spose che hanno perso i loro cari.  Verona è in ginocchio. Non resta che arrendersi.

I rappresentanti del Senato Veneto, assieme alle autorità cittadine, sono costretti ad accettare la “resa incondizionata” che prevede:consegna ai francesi di 16 autorità come ostaggi e tra questi il Vescovo Avogadro, confisca di importanti opere d’arte, pagamento di 2.000.000 di lire, requisizione di tutto l’argento delle chieseconsegna delle riserve di cibo e vestiario.

I francesi hanno vinto e rivendicano il diritto di saccheggio. Vengono assaltate e depredate le case dei nobili veronesi, la Biblioteca Capitolare, il Museo Lapidario e il Monte di Pietà. 

Dalle chiese vengono prelevate importantissime opere d’arte:

– La Sacra Conversazione, trittico di Andrea Mantegna (San Zeno)

– Martirio di San Giorgio di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)

– San Barnaba di Paolo Veronese (San Giorgio in Braida)

– Deposizione di Cristo di Paolo Veronese (S. Maria Della Vittoria, successivamente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Oggi l’opera è conservata nel museo di Castelvecchio) 

– Assunzione della Madonna di Tiziano (Cattedrale)

– otto formelle bronzee del monumento funebre Della Torre di Andrea Briosco, detto il Riccio (S. Fermo Maggiore)

Parte di queste opere verranno restituite nel 1816. 

Sono rimaste In Francia le predelle del trittico del Mantegna (Louvre e Museo di Tours), il San Barnaba del Veronese (Museo di Rouen) e i bronzi di San Fermo (Louvre). Finito il saccheggio della città, inizia il processo ai presunti responsabili dell’insurrezione cittadina.

Alla barra degli imputati compaiono:

  • Conte Francesco degli Emilei di anni 45
  • Conte Augusto Verità di anni 45
  • Giovanni Battista Malenza di anni 30
  • Frate cappuccino Luigi Maria da Verona al secolo Domenico Flangini di anni 72
  • Agostino Bianchi, oste Alla Rosa di anni 43
  • Stefano Lanzetta, parrucchiere di anni 39
  • Pietro Sauro, calzettaio di anni 45
  • Andrea Pomari, cavapietre in Avesa di anni 42

Il processo, per lo più sommario, decreta la colpevolezza di tutti gli imputati che vengono condannati a morte mediante fucilazione. La sentenza verrà eseguita nei giorni 16 maggio, 8 e 18 giugno 1797 nel vallo di Porta Nuova.

Il sussulto d’orgoglio dei cittadini veronesi è stato soffocato dal sangue dei martiri.

Una laconica scritta incisa su la lapide posta nella Piazzetta delle Pasque Veronesi, già “Piazzetta delle case abbruciate” ricorda per sempre: “IL NOME DI QUESTA PIAZZA RAMMENTA LA INVASIONE FRANCESE I LIBERI SENSI CITTADINI L’ULTIMO GIORNO DI VENEZIA REPUBBLICA” – APRILE 1797

Dott. Maurizio Bonciarelli

Napoleone e la politica come nuova religione civile – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Napoleone e la politica come nuova religione civile – (Newsletter n.10 maggio-giugno 2021)

Riportiamo l’intervista condotta al prof. Andrea Caspani, già docente di storia e filosofia e dirigente scolastico, e direttore della rivista Linea Tempo. Itinerari di ricerca storica e letteraria (www.lineatempo.eu). Ha svolto per vari anni il coordinamento del tirocinio e il laboratorio di didattica della storia per le SSIS. Ha pubblicato vari studi di didattica della storia e di storia moderna e contemporanea, fra cui Memoria storica e insegnamento della storia (2003); La storia italiana: una questione d’identità (2005), Storie scelte. Elementi e pratiche di una didattica della storia (2008) L’Italia di Manzoni (2011), La prima follia mondiale chiamata guerra (2014). Ha curato la mostra storica del Meeting di Rimini: Testimoni della verità nell’Italia in guerra. La resistenza cancellata (2007). Cogliamo l’occasione del bicentenario della morte di Napoleone per riflettere su questa figura, soprattutto in un’ottica didattica.

Ci fu un Napoleone giovane generale liberatore ed esportatore della Rivoluzione francese, ma anche un comandante militare che ha occupato e depredato i territori conquistati. Forse la prima cosa che colpisce quando si studia Napoleone è la complessità della sua figura, motivo per cui è difficile coglierlo con un giudizio troppo semplificatorio. Quali sono gli aspetti principali della sua vicenda?

È proprio vero che Napoleone è una figura complessa, basti pensare a come lo ha descritto il Manzoni quando si chiese se “fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”. Voglio dire che è una figura che ha degli aspetti che affascinano e altri aspetti che fanno dubitare della sua grandezza; però, quello che a mio avviso è fondamentale è che Napoleone è una figura fondamentale per il successo della Rivoluzione francese: senza di lui, anche se la storia non si fa con i se, la Rivoluzione francese non avrebbe avuto quel valore di svolta della storia europea, e non solo, che invece ha avuto. Non dimentichiamo, infatti, che Napoleone comincia ad assumere un ruolo significativo quando i momenti più tipici della Rivoluzione francese, e cioè l’89, il passaggio dalla monarchia alla Repubblica, l’esecuzione del re, il Terrore sono già realizzati. Lui in quel tempo era un giovane di belle speranze, il suo momento di svolta sul piano militare e anche politico è nel ‘93 quando Barras gli chiede di impedire un colpo di Stato monarchico e lui lo fa con grande risolutezza, e poi da lì comincia la sua ascesa, gli sarà affidato il comando dell’armata d’Italia, e comincerà il cammino di giovane liberatore, ma – come sappiamo bene noi italiani – anche di saccheggiatore dei beni artistici italiani. Ma per restare sul tema della complessità, mi viene da dire che la stessa formazione di Napoleone è stata per così dire complessa. Lui è figlio di patrioti corsi che erano stati al seguito di Pasquale Paoli, il grande patriota e fondatore della Repubblica corsa, che era stata consegnata dai genovesi ai francesi per l’impossibilità di reprimere l’insurrezione del popolo corso. Grazie al padre che era abile sul piano “diplomatico” e che dopo la sconfitta di Paoli aveva cercato di ingraziarsi i nuovi padroni francesi, era stato mandato in Francia a studiare nelle scuole militari, ma nell’animo restava fondamentalmente un patriota corso, quindi ha l’ideale della nazione che ha un fondamento religioso (non a caso Pasquale Paoli era religioso), ma che è anche un ideale tipicamente illuministico, ed è questa mediazione dell’illuminismo che permette a Napoleone di appassionarsi progressivamente agli ideali della Rivoluzione francese, che in un primo momento lui ritiene compatibili con la libertà della sua patria corsa. Infatti, subito dopo la fase liberale della Rivoluzione, nel 1790 Pasquale Paoli ritorna trionfalmente in Corsica e si mette a governarla in nome dei nuovi ideali, e per Napoleone la piccola patria e la grande patria sembrano componibili. Il momento della svolta emerge nell’epoca del Terrore con lo scontro tra Pasquale Paoli e i giacobini, perché Paoli non vuole arrivare alla scristianizzazione e a rompere i legami con la tradizione e con le libertà e le autonomie. Le libertà e le autonomie sono una prospettiva diversa dal concetto di libertà della Rivoluzione francese. E’ in questo contesto che Napoleone e la sua famiglia scelgono la Francia, per cui Napoleone torna in Francia e diventa l’ufficiale che comanda l’artiglieria francese nell’assedio di Tolone e contribuisce a riconquistare Tolone, dove c’erano i monarchici e gli inglesi, e questo è un po’ l’inizio della sua carriera politico-militare. 

Il punto decisivo concettualmente è questo: quello che fa sì che Napoleone abbandoni il riferimento alla piccola patria corsa è l’idea della centralità della politica (e della conquista del potere) per dare senso alla vita nella sua globalità, cioè che nella realtà terrena gli ordinamenti politici non possono essere legati a qualche riferimento di tipo religioso oppure naturalistico, ma sono il regno dell’umano, ovvero libera creazione razionale dell’uomo che, nella misura in cui segue la fiaccola “umanistica” degli ideali illuministici, Liberté Égalité Fraternité, impegnandosi a realizzare la volontà generale del popolo, evita ogni scivolamento nel nichilismo e mostra come la politica sia più grande della religione nella sua pretesa di trasformare il mondo e l’uomo. Napoleone si rende conto che la Rivoluzione non può essere semplicemente affermazione di ideali e politica del Terrore verso chi non è rivoluzionario, ma che occorre operare una netta cesura con il passato per operare una decisa riorganizzazione dell’intera vita sociale, capace di mostrare che i principi rivoluzionari sono in grado di realizzare una nuova qualità di vita per i popoli che seguiranno questa strada.

Questa prospettiva segna un po’ tutta la prima fase della sua carriera, quella appunto da Tolone alla repressione dei monarchici, a Parigi, alla Campagna d’Italia del ‘96/’97, fino alla campagna d’Egitto. Però negli stessi anni si rende conto che se la Rivoluzione francese consiste solo nell’imporre con le armi nuovi principi di libertà non può avere un successo duraturo (perché il criterio della verità politica è il successo) e allora comincia a considerare quanto e come del passato sia necessario ricomprendere all’interno della nuova visione. 

Questo secondo me caratterizza tutta la sua seconda fase, cioè quella dal colpo di Stato del 1799 all’inizio della pacificazione con la Chiesa, all’instaurazione dell’Impero fino al matrimonio con Maria Luisa d’Asburgo del 1810. Questa seconda fase è interessantissima, infatti, non a caso, è stato accusato di cesarismo, di aver tradito gli ideali della Rivoluzione francese, ecc.; in realtà lui ha inglobato caratteristiche dei sistemi passati in una nuova cornice, ad esempio ricrea una nobiltà, perché per costituire il nuovo soggetto politico, lo Stato rivoluzionario, occorre individuare dei quadri qualificati, ma ora è una nobiltà del merito rivoluzionario.

Allo stesso modo trasforma l’esercito da guardiano della Rivoluzione ad ascensore sociale, perché se il fondamento della sovranità è la nazione in armi allora chi è in grado di comandare uomini e vincere battaglie è anche in grado di collaborare a costruire la politica di potenza della Francia rivoluzionaria.

Allo stesso modo si comporta nel riorganizzare amministrativamente il paese, nel ristabilire la pace religiosa e soprattutto nell’elaborare i nuovi principi giuridici che dovranno guidare tutti gli aspetti della rinnovata vita sociale (la riforma del Codice civile è un’opera che ha lasciato il seme dei principi rivoluzionari nelle legislazioni europee di tutto l’Ottocento).In tutte queste riforme Napoleone è assolutamente realista nel senso pieno della parola, cioè capisce che se la politica deve essere il regnum hominis deve governare tutto in modo ragionevole, e infatti non è un caso che dagli inizi dell’Ottocento ristrutturi l’organizzazione complessiva del paese.

Secondo lei quando si parla di Napoleone non si corre il rischio di soffermarsi comprensibilmente solo sull’individuo, trascurando il fatto che se ha potuto fare quello che ha fatto, è perché godeva anche dell’appoggio della borghesia e aveva dalla sua parte l’esercito?

Certamente conta il carattere di Napoleone, risoluto, abile, opportunista, ma conta anche il fatto che ha saputo interpretare lo spirito del tempo. Questo ci aiuta anche a capire perché Hegel stesso descrisse il suo ingresso a Jena con quelle famose parole “Ho visto lo spirito del mondo a cavallo”. Hegel aveva colto che Napoleone rappresentava lo spirito del tempo, nel senso che è colui che capisce che si può consolidare la Rivoluzione soltanto se i nuovi principi diventano non tanto dei riferimenti simbolici, come per esempio era stato il cambio del calendario o addirittura il tentativo di instaurare un nuovo culto religioso, quanto forma concreta della vita; allora è più importante riorganizzare i dipartimenti, stabilire la certezza del diritto secondo i nuovi principi, (che non sono totalmente rivoluzionari perché si conferma per esempio la predominanza del ruolo maschile nel matrimonio, ma al contempo si sancisce la possibilità del divorzio, cosa che in una visione da Ancien Regime non sarebbe mai stata possibile) in modo da rendere definitive alcune conquiste della Rivoluzione, come quando si stabilisce in modo netto la centralità e le caratteristiche della proprietà privata; permettendo a tutta una generazione che ha partecipato con entusiasmo alla Rivoluzione francese di essere sicuri che nessun ritorno ai privilegi nobiliari sui beni e sulle terre sarà più possibile.

Ecco in questo Napoleone è moderno, in quanto ha capito che cambiare le leggi contribuisce a cambiare la mentalità, perché la legge applicata fa cambiare nell’arco di una generazione il modo di pensare ad una realtà, non è l’enunciazione (anche ben argomentata) di un principio filosofico astratto a favorire il cambiamento progressivo della mentalità.

Non è quindi un caso che nella sua riforma scolastica e universitaria avrà un ruolo infimo la filosofia, perché non c’è più bisogno di pensare, ora c’è bisogno di agire, di organizzare e costruire (quindi incrementa lo studio delle materie scientifiche e tecniche).

E per organizzare uno Stato di nuovo tipo occorre che tutti i gangli rispondano efficacemente alle indicazioni del centro, da qui quel modello centralistico dell’amministrazione dei dipartimenti francesi, che verrà applicato come modello a tutte le regioni d’Europa che verranno conquistate e che lascerà un segno duraturo nell’ordinamento di molti paesi.

L’idea di uno Stato centralista efficiente dove si fa carriera secondo le capacità e non secondo la nascita o il privilegio sarà apprezzatissima dalla borghesia francese che ha appoggiato fin dall’inizio la Rivoluzione francese, perché c’è una cesura netta con il passato.

Ma Napoleone ha avuto il consenso anche da parte del popolo, perché per lui il popolo è la nazione in armi e la nazione deve essere vittoriosa (non dimentichiamo che il successo è la verifica della verità in un contesto in cui la politica è tutto), ma il successo va conquistato con la propria libera iniziativa e l’utilizzo consapevole delle proprie capacità.

Da questo punto di vista ciascuno, qualunque fosse la sua origine, poteva mostrare nei fatti a Napoleone le proprie capacità funzionali al successo dello Stato e insieme al proprio avanzamento sociale, come ci ricorda il famoso motto di Napoleone: “nello zaino di ogni soldato c’è un bastone da maresciallo”, e infatti molti suoi generali sono persone che si sono fatte dal nulla. 

La grandezza militare di Napoleone non risiede infatti solo nella sua visione innovativa della strategia e nell’acume personale sul campo, ma anche nella capacità di scegliere gli uomini; ha dimostrato così nei fatti che si può per certi versi piegare il destino, ovvero che il compiersi del destino è nelle nostre mani. Questo ci porta a riflettere sulla sua posizione religiosa: non è ateo, semmai ha una visione religiosa per cui Dio c’è, ma non c’entra più di tanto nella vita terrena, lo dimostra il famoso esempio dell’incoronazione imperiale nel 1804, quando prende dalle mani del pontefice la corona e se la pone da solo sulla testa; in qualche modo tutti i poteri diversi dalla politica non vengono cancellati, ma devono subordinarsi alla volontà dell’uomo di costruire il regnum hominis (un atteggiamento diverso e più rispettoso verso la religione Napoleone lo mostrerà negli anni dell’esilio, ma non dimentichiamo che anche qui gioca il criterio del successo, ora è un vinto e il Signore ha avuto più successo di lui!).

Il suo tentativo di instaurare un regnum hominis basato su un’applicazione ragionevole dei principi rivoluzionari è confermato dal fatto che, salvo qualche caso in cui si è comportato come dittatore senza scrupoli, è stato capace di trattare in modo dignitoso anche gli sconfitti: non è un caso per esempio che, giunto al culmine della sua epopea, lui pensi di instaurare un nuovo sistema europeo che abbia al centro la Francia, sposando la figlia dell’imperatore d’Austria, anche se ormai l’imperatore d’Austria non è più l’imperatore del Sacro Romano Impero, per segnalare che il vecchio sistema europeo è finito, ma che nel “nuovo sistema” c’è spazio per tutti, purché si accetti il principio che la politica diventi la nuova religione civile. 

La volontà generale che guida la politica è rappresentata da chi la interpreta: finché c’è lui, e finché lui vince, è lui l’interprete del popolo francese, e non solo francese, ma anche di tutti quelli che sostengono la rivoluzione, e questo spiega il successo che ha avuto in tante parti dell’Europa; anche quando parte per la famosa Campagna di Russia sono tanti gli italiani che partono volontari, è vero che l’Italia era sotto il controllo napoleonico, però è anche vero che molti sono partiti proprio credendo in lui, e questo documenta quanto la sua prospettiva fosse affascinante.

Naturalmente oggi siamo consapevoli che Napoleone era portatore di un ideale astratto di rivoluzione politica,  perché sappiamo che col crescere dell’egemonia napoleonica sull’Europa è cresciuto un movimento che riteneva parziali e astratti gli ideali della Rivoluzione, un movimento che culturalmente possiamo definire romantico, e che politicamente è stato il movimento del risveglio delle nazioni, non a caso la battaglia decisiva che conclude l’epica napoleonica non è stata una battaglia della disastrosa campagna di Russia, ma la battaglia di Lipsia del 1813, che è chiamata anche la battaglia delle Nazioni contro Napoleone.

In questo senso l’ultimo tentativo politico di Napoleone (i famosi “cento giorni”) sarà un tentativo di riverniciare la sua prospettiva politica a partire dall’ideale della libertà della nazione francese, ma, come ben sappiamo, ormai la sua parabola era finita.

Nonostante la complessità della figura prima richiamata, è opportuno secondo lei dare un giudizio, o bisognerebbe evitare di sovrapporre interpretazioni morali che leggano anacronisticamente uomini e fatti del passato?

Questa è una domanda di metodo: lo storico innanzitutto è chiamato a comprendere il dinamismo della realtà e a capire il senso di una svolta che accade in un determinato periodo storico, non è chiamato a giudicare moralmente in prima battuta il personaggio, il partito o il movimento che è da studiare. In questo senso uno storico vero può studiare senza pregiudizio anche un personaggio o movimento come Hitler o i nazisti e dire che hanno svolto un importante ruolo storico; a maggior ragione questo vale per Napoleone, che sicuramente non è paragonabile alla ferocia e alla disumanità di Hitler. 

Se inquadriamo Napoleone nel suo contesto occorre riconoscere che ha dato una notevole svolta alla storia moderna, anche se, guardando alla sua prospettiva da un punto di vista globale, possiamo affermare che prevalgano le criticità sugli elementi positivi. 

La storia è sempre un’avventura dell’uomo alla ricerca del significato della vita nella realtà terrena: concezioni come quella della cancel culture del passato in nome degli ideali politically correct attuali, non sono concezioni storiche, sono concezioni ideologiche, che finiranno quando finirà il politically correct

Guardando l’epoca rivoluzionaria dal punto di vista storico si può dire che Napoleone è stato un punto di svolta della storia moderna e contemporanea, perché ha inaugurato un periodo storico centrato sull’idea della rivoluzione, ovvero che la politica è la nuova visione inglobante del mondo e questo ha segnato un’epoca che secondo alcuni studiosi arriva fino al 1989, ovvero l’epoca in cui la politica è tutto, sia che al centro ci sia la politica giacobina o i nazionalismi o invece la politica comunista o fascista o nazista. Da questo punto di vista è stato molto interessante il lavoro di François Furet, che è partito individuando i punti deboli dell’interpretazione marxista della Rivoluzione francese, per sviluppare un’interpretazione originale e acuta della visione “politicista” della Rivoluzione.

Tra le opere che ci ha lasciato, alcune sono interessanti anche per capire in modo sintetico la figura di Napoleone: ad es. il Dizionario critico della Rivoluzione francese dedica spazio all’età napoleonica e alla figura stessa di Napoleone.Furet mette poi in luce nel libro Il passato di un’illusione che c’è un parallelismo tra la concezione di Rivoluzione della Rivoluzione francese e quella della Rivoluzione bolscevica, che ha caratterizzato, come ci ricorda Eric Hobsbawm, il secolo breve che è appena terminato. Quindi è veramente interessante notare come Napoleone sia all’origine di un ciclo storico che mette la politica al centro di tutto. Alla luce di questo, per capire Napoleone sono più utili libri come quello di Furet piuttosto che le varie biografie su di lui, che magari indugiano molto sui particolari, come gli amori che ha avuto, che però non sono decisivi.

C’è qualche altro personaggio della storia a cui si sentirebbe di accostare Napoleone?

Non solo per le sue grandi capacità militari ma anche per le intuizioni politiche che hanno condizionato il periodo storico a lui successivo, Napoleone si dice tradizionalmente che vada messo a confronto con altri due personaggi che hanno fatto compiere grandi svolte alla storia, Alessandro Magno e Cesare. C’è qualcosa di vero in questo parallelismo se teniamo il confronto sul piano dell’analogia, perché sicuramente le concezioni del senso della storia dei tre erano molto diverse. Però è vero che Alessandro Magno cambia il senso della storia greca e così Giulio Cesare con la storia romana. Sono state svolte storiche globali perché non hanno riguardato solo una serie di conquiste, ma anche un modo di concepire la politica, lo stato, il potere, che diventano diversi da quel momento in poi. Costoro sono tra gli individui cosmico-storici di Hegel, e in questo senso Hegel era davvero attento alla dimensione storica, anche se noi poi possiamo criticare la sua interpretazione filosofica immanentistica della storia, ed è la dimostrazione di quello che dice anche Augusto Del Noce, che occorre fare un’interpretazione transpolitica della storia, cioè bisogna leggerla in profondità, al di là dei particolari e dei dettagli, individuando i punti di svolta della storia e mettendo a confronto gli ideali.

Quale potrebbe essere un’indicazione didattica utile per chi deve insegnare Napoleone nella scuola secondaria?

Sul piano didattico punterei molto sul fatto che la storia è fatta dagli uomini e non dalle strutture, quindi una figura come quella di Napoleone metodologicamente è utile da approfondire. E’ importante poi riuscire a collegare la sua figura con la problematica culturale e politica del periodo, piuttosto che approfondire la dimensione militare del suo Impero.

Certamente Napoleone fu un genio militare, ma questi aspetti vanno ridotti all’essenziale, perché il focus è mostrare come lui ha interpretato il suo tempo e cercato di guidare la storia in quel periodo.

Un’ultima indicazione didattica: potrebbe essere interessante, mentre si sviluppa la storia del progetto napoleonico, fare un flash con la storia d’Italia, perché nel 1796, quando arriva in Italia invitando a realizzare delle repubbliche sorelle di quella francese, innesta per certi versi l’idea dell’unità d’Italia. Ma Vincenzo Cuoco, che è stato un patriota filofrancese, e che ha vissuto in diretta il fallimento della Repubblica partenopea, perché il popolo dell’Italia meridionale ha preferito seguire gli Insorgenti e tornare sotto i Borboni piuttosto che restare sotto i liberatori francesi, studiando i motivi del fallimento del progetto di “liberazione” rivoluzionario, comunica al giovane Manzoni l’idea che le rivoluzioni imposte ai popoli non possono funzionare e che le vere rivoluzioni possono realizzarsi solo riscoprendo le proprie tradizioni e virtualità: nasce da questi dialoghi l’ideale del Risorgimento italiano, che è quindi una visione ben diversa da quella della Rivoluzione francese. Ricordo a questo proposito il saggio del Manzoni La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, che dice che quella francese è una rivoluzione sbagliata perché fondata su principi astratti, mentre quella italiana è una rivoluzione positiva proprio perché vuole realizzare una realtà che già era insita nel popolo. L’Italia infatti è «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor»; perciò il compito è quello di ritrovare l’indipendenza in nome dei valori tradizionali, ecco il senso dell’idea del Risorgimento.

Didatticamente diventa perciò interessante svolgere prima la Rivoluzione francese e il progetto napoleonico e poi mostrare come già in radice l’idea del Risorgimento italiano fosse diversa.

Alessandro Cortese