Sport e pandemia – “Un diritto calpestato e il ruolo della scuola”  – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Sport e pandemia – “Un diritto calpestato e il ruolo della scuola” – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Sono un’insegnante di Scienze Motorie presso l’Istituto Comprensivo Perlasca di Maserà di Padova e allenatrice / giudice di Ginnastica Ritmica presso l’ASD Ginnastica Ritmica Padova.


Con i miei alunni abbiamo studiato la Carta dei Diritti dei ragazzi nello Sport, formata da dieci articoli, che in Italia è stata accettata e firmata il 27 maggio del 1991.
Ci è balzato all’occhio che l’articolo sul “diritto di fare sport” dei ragazzi in questo periodo di pandemia è negato ai “non agonisti”, cioè a tutti quei bambini/ragazzi che prima andavano in palestra, in piscina, nella scuola di danza, ecc… per fare attività motoria di base una o due volte la settimana e che dalla fine di ottobre non possono più farlo; in questo modo sono stati privati di uno dei momenti più importanti per la crescita di un bambino dal punto di vista fisiologico, psicologico, di socializzazione e di salute!


Credo che in un momento drammatico e delicato come questo la scuola abbia il diritto e il dovere di “recuperare” in qualche modo quanto viene “tolto” ai nostri giovani non agonisti.
Maestri e insegnanti di Scienze Motorie, pur nella difficoltà di rispettare i rigidi protocolli (distanza di almeno 2 m in palestra, uso della mascherina, niente contatti, niente spogliatoi, niente palloni, niente giochi di squadra) hanno il dovere di dare la possibilità agli alunni di fare sport!
Con il nuovo anno scolastico ho dovuto cambiare radicalmente la mia modalità di insegnamento, aumentando rispetto al passato lo studio di argomenti teorici, modificando i classici test d’ingresso che ormai facevo da anni; anche il mio rapporto con i ragazzi è cambiato, il Covid unisce e accomuna “sulla stessa barca” dei gesti quotidiani e ripetuti più volte nell’arco della giornata docenti e alunni, ogni classe appare come una piccola famiglia con le sue particolari dinamiche di crescita.
All’inizio dell’anno scolastico svolgevo le mie attività pratiche all’aperto oppure facevamo delle lunghe passeggiate nei paesi limitrofi, poi sono state abolite le passeggiate e per un breve periodo non potevamo andare in palestra (visto che la nostra disciplina era diventata ad alto rischio….) quindi abbiamo dedicato del tempo ad attività teoriche in classe, molto utili ma non sempre gradite a tutti gli alunni.


Alla fine di novembre finalmente abbiamo ripreso l’attività pratica in palestra, ma sempre con regole restrittive e allora ho pensato che la mia passione primaria, la ginnastica ritmica, mi poteva aiutare in qualche modo a fare delle lezioni divertenti e diverse dal solito: il binomio “musica e movimento” era perfetto per dare un po’ di allegria e leggerezza alla lezione ma sempre aggiungendo qualcosa di nuovo, quindi ho cominciato a strutturare in maniera diversa le lezioni pratiche.
Ho proposto ai ragazzi, ciascuno dotato di un telo mare per delimitare il suo spazio e come appoggio per gli esercizi al suolo, un riscaldamento con la musica durante il quale io faccio tutti gli esercizi con loro.
Fin dall’inizio i risultati sono stati superiori alle mie aspettative, infatti tutti gli alunni, maschi e femmine e persino quelli che erano “giustificati” in gradinata, hanno partecipato attivamente all’esperimento, creando un corpo unico al suono della musica, distanti ma uniti dalle note musicali e dai vari movimenti come un’orchestra o un corpo di ballo!
Dopo questa fase di riscaldamento globale ho dedicato sempre 10 minuti ad un allenamento che i
ragazzi possono trovare fra le applicazioni del cellulare (tipo Seven work out) per fare un po’ di preparazione fisica sempre con l’ausilio di un sottofondo musicale e insegnando loro la corretta esecuzione degli esercizi.
Al termine di questa fase la richiesta degli alunni era quella di poter “correre liberamente” e quindi ho dato spazio alle loro richieste facendo piccole gare in coppia e a squadre, studiano i vari tipi di corsa.
A differenza degli anni scorsi, in cui terminavo la lezione con un’attività ludica/sportiva, ho provato a concludere la lezione con alcuni esercizi di stretching e di rilassamento, utilizzando anche delle musiche rilassanti e ancora una volta i ragazzi mi hanno sorpresa, molti mi chiedono questa parte finale della lezione perché vogliono rilassarsi e riposare…..
All’inizio del secondo quadrimestre ho provato ad inserire anche la realizzazione di una coreografia con la musica in cui i ragazzi possono esprimersi liberamente in una piccola parte inventata da loro e in un’altra in cui richiedo loro un’esecuzione sincronizzata degli stessi movimenti, tutto ciò per creare un modo diverso per fare squadra ed aumentare la “sintonia” tra di loro; nelle classi seconde e terze sono arrivata a fare delle piccole “competizioni” degli alunni suddivisi in due squadre con la giuria formata dai compagni: i ragazzi sono stimolati a dare il massimo, si divertono e sviluppano le loro capacità motorie, in particolare quelle coordinative.
Concludendo: anche questo difficile periodo di confinamento e restrizioni è un’occasione per cercare di andare oltre, stimolando fantasia, partecipazione e nuovi modi di aggregazione anche nell’attività fisica per non far mancare ai nostri ragazzi un diritto fondamentale quale quello di fare sport!

Sandra Veronese

Cosa è cambiato nello sport?  – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Cosa è cambiato nello sport? – (Newsletter n.7 febbraio 2021)

Nonostante non sia sempre sulle prime pagine, uno delle vittime illustri di questo periodo di pandemia è sicuramente lo sport. Come è cambiato? Quali ripercussioni potremo vedere nella società, nel breve e lungo periodo? Ne parliamo con il prof. Luca Gallizioli, docente di educazione fisica ed allenatore di calcio.

Professor Gallizioli, lei insegna da diversi anni educazione fisica alla scuola primaria e secondaria di primo grado. Essendo una materia quasi esclusivamente pratica, è stata forse la più penalizzata da questo periodo di pandemia.
Ci sono state delle difficoltà nel progettare un piano che permettesse di fare attività, pur rispettando le regole imposte dall’emergenza sanitaria? Se sì, quali sono state? E, allo stesso tempo, avete visto anche dei lati positivi o dei risvolti “inaspettati”?

L’educazione fisica purtroppo ha risentito enormemente di questa situazione legata alla pandemia proprio perché colpita all’essenza della sua natura: lo sport è socializzazione, aggregazione ma anche sfida. L’inizio non è stato facile e la programmazione didattica ha visto numerose revisioni e modifiche; la difficoltà maggiore è stata relativa alla poca chiarezza in merito alle restrizioni e a ciò che era possibile fare (banalmente anche ai luoghi che si potevano usare). Il mese di novembre ha visto addirittura la sospensione di ogni tipo di attività pratica curricolare. Quindi se dovessi pensare alla prima difficoltà direi proprio la mancanza di un protocollo chiaro ed esauriente che permettesse una programmazione sicura: si procedeva giorno per giorno, o meglio, dpcm per dpcm. L’altra difficoltà, che però ha causato meno problemi, è stata quella legata alle norme igieniche e di sanificazione. Su questo tema un grande contributo è arrivato dagli alunni che si sono fatti trovare pronti al rispetto delle regole e comprensivi delle norme da attuare.
Tornando alla didattica, queste limitazioni, hanno però dato la possibilità di affrontare in maniera più approfondita e accurata alcuni argomenti. Il dover lavorare in forma individuale ha permesso di potenziare e migliorare alcuni aspetti tecnici fondamentali che stanno alla base di tutti gli sport individuali, ma soprattutto di squadra: dal tiro al passaggio, dal palleggio alla conduzione. Il tutto strutturando lezioni che riuscissero a coinvolgere tutti i componenti della classe e per di più potendoli suddividere in livelli di apprendimento; potendo così personalizzare l’esercizio e soprattutto la difficoltà della richiesta sulle capacità oggettive di ogni singolo alunno. Una sorta di personal training.

Possiamo dire senza paura di essere smentiti che questo ultimo anno non è stato il più semplice per lo sport. Palestre, piscine e centri sportivi in generale sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire, con conseguenze pesanti sulle Società, sui collaboratori sportivi, ma soprattutto su chi frequenta questi luoghi.
Cercando di sopperire a queste mancanze, abbiamo visto fiorire le lezioni on-line, le app di fitness e altri “escamotage” che permettessero di fare attività rispettando le regole del periodo.
Anche molte società sportive, pur di garantire l’attività per i propri iscritti, hanno rivoluzionato le strutture e modificato le modalità di lavoro. È sicuramente il caso degli sport di squadra all’aperto, come ad esempio il calcio.

Parliamo quindi al “Mister”: come è cambiato il modo di allenare in questo ultimo anno? Per un giovane calciatore, questo può influire sulla sua crescita calcistica?

Possiamo dire che è stato letteralmente stravolto ma allo stesso tempo ha permesso di mettere in evidenza alcune realtà. Stravolto soprattutto per la concezione che si ha del gioco del calcio come gioco di squadra, come sfida e duello, come compagni e avversari, come vittoria e sconfitta. Da questo punto di vista allora sì che è stato stravolto: tutto questo non c’è più. Si è perso il contesto in cui il giovane calciatore formava il suo aspetto caratteriale: il coraggio, il “furore agonistico”, l’istinto, il pensiero creativo e l’iniziativa personale. Sembra impossibile ma tutto questo lo troviamo solamente nel momento del duello, nell’1vs1..e questo difficilmente lo puoi ricreare con un allenamento in forma individuale.
Dall’altra parte ha preso campo però la ricerca del perfezionamento della tecnica, (spingendosi in alcuni casi al limite di rendere il calcio uno sport per acrobati e giocolieri), la ricerca di metodi nuovi per allenare e la creatività di proporre attività che stimolino l’interesse e il divertimento dei ragazzi; il tutto per farli sentire ancora Protagonisti di questo gioco.
Se può influire nella crescita calcistica del giovane calciatore? Certamente sì. Oltre a tutto il discorso legato alla salute fisica e al benessere della persona, quest’anno di stop e sport adattato ha e avrà di sicuro le sue ripercussioni in un futuro non troppo lontano. Il rischio maggiore è il verificarsi del fenomeno del dropout, l’abbandono precoce dello sport: snaturare uno sport rischia di affievolire l’interesse in chi lo pratica e questo porta molto spesso alla scelta di abbandonarlo, proprio perché non è più quello di cui mi sono appassionato. E non meravigliamoci se poi l’interesse passa ai videogiochi o ai pc.
Un altro grande rischio è il non-confronto: si cresce solamente nel momento in cui ci si confronta con qualcuno. Solo nella situazione ho la possibilità di mettere in pratica quanto ho imparato. Siamo tutti capaci di camminare su un’asse di legno appoggiata sul pavimento, ma se la situazione cambiasse? Se quell’asse si trovasse a 10mt di altezza, sarebbe la stessa cosa? Idealmente si, lo schema motorio richiesto sarebbe identico ma è proprio il contesto che lo rende diverso. Anche l’aspetto emotivo legato al contesto (paura, rabbia, timore) va allenato..e va allenato con la pratica.
L’altro rischio è che il calcio giocato si sia fermato ma il regolamento no. Mi spiego meglio. Quello che si sta vedendo è che il calcio giocato, le competizioni, i tornei stanno vivendo un prolungato stop che ormai va avanti da più di un anno, ma la cosa che non cambia è la programmazione del settore giovanile. Da pulcini ad esordienti, da esordienti a giovanissimi, da un campo a 7 a uno 9 e poi a 11. Ovviamente prima o poi bisogna arrivare sempre a giocare in un campo grande 11vs11, ma quello che si sta perdendo è la giusta gradualità nei vari passaggi. La mancanza di poter consolidare quanto appreso anche in riferimento allo spazio e al tempo.

La scienza ci insegna che “lo sport è salute”, ma sembra che spesso questo non venga percepito e si colleghi l’attività motoria e sportiva soltanto alla volontà di assicurarsi un fisico tonico per la prova costume o all’aggregazione senza controllo in sala pesi o negli spogliatoi. Per questa concezione, forse, troviamo molti impianti chiusi e, a lungo andare, questo potrebbe avere delle conseguenze negative, soprattutto nelle categorie più fragili, come gli anziani, che trovano benefici psico fisici notevoli nell’attività motoria, e i ragazzi, ai quali viene tolto un aiuto fondamentale per una crescita sana.

Quali ripercussioni potrebbe avere questo periodo, che per molti è stato uno stop completo delle attività, nello sviluppo degli adolescenti, ma anche dei più piccoli?

Lo sport migliora l’attenzione e il funzionamento cognitivo. È un modo per stare meglio dal punto di vista fisico ma anche mentale. Insegna a stare con gli altro e a gestire le emozioni. Ma questa pandemia ha tolto ai ragazzi quest’occasione di crescita.
Bambini e ragazzi hanno bisogno di attività di movimento per la loro crescita fisica e psichica, l’interruzione quindi degli sport che stavano praticando ha modificato i loro ritmi quotidiani di vita, l’umore, il sonno, l’alimentazione. Quelli poi che si stavano allenando in vista di gare o tornei, hanno visto sfumare appuntamenti e scadenze importanti ben sapendo che non sempre è possibile recuperare. L’attività sportiva aiuta a rimanere nel momento presente, a entrare in empatia con i compagni di squadra e a fare squadra. Lo sport, inoltre, insegna a rispettare l’altro, insegna la disciplina e imparare il gioco di squadra è fondamentale perché crea il senso di comunità.

Guardiamo il lato positivo. Lei crede che gli stadi vuoti, i mondiali di sci senza pubblico, oltre a tutte le chiusure di cui abbiamo parlato prima, possano sensibilizzare le istituzioni sull’importanza dell’attività sportiva e su quanto la salute delle persone ne possa beneficiare?

Purtroppo, credo che le istituzioni non si rendano ancora conto delle grandi potenzialità e benefici che l’attività sportiva ha e che può dare alla comunità nei vari settori: educativo, economico, della salute e del benessere. Basti pensare alla mancata nomina di un ministro dello sport o ai provvedimenti che vengono presi nelle altre nazioni per l’attività fisica nelle scuole (notizia di qualche giorno fa il Ministro dell’istruzione cinese con un provvedimento chiede di adeguare i piani didattici e di porre attenzione all’educazione fisica proponendo almeno un’ora di attività fisica al giorno nelle scuole). Gli stadi vuoti e i mondiali di sci senza pubblico purtroppo penalizzano solamente le società o tutte quelle attività che fanno da contorno a questi eventi sportivi mettendo per lo più in risalto l’aspetto economico che mobilità lo sport ma non abbastanza per sensibilizzare gli aspetti della salute e del benessere di chi lo pratica.

Elena Dal Pan

Soul – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Soul – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Paese: USA  – Durata: 107 minuti – Regia: Pete Docter, Kemp Powers

Un viaggio alla scoperta di sé che fa sognare i bambini ed emozionare gli adulti; spesso siamo troppo presi dal desiderio di realizzare i nostri sogni da non accorgerci delle cose semplici e belle che succedono nella nostra vita.

Lo spunto da cui prende avvio la storia è una domanda impegnativa: “Ti sei mai chiesto da dove provengono la tua passione, i tuoi sogni e i tuoi interessi? Cosa ti rende così come sei?

Joe Gardner è un uomo maturo, eppure sente che la sua vita non è mai veramente cominciata. Appassionato pianista di jazz, aspetta la grande occasione mentre insegna musica in una scuola media e suona quando capita nei locali notturni, facendo preoccupare la madre che vorrebbe per lui le garanzie del posto fisso. 

Il giorno in cui passa l’audizione per debuttare con un famoso quartetto, Joe sente finalmente di avercela fatta, ma cade in un tombino scoperchiato e la sua anima si ritrova in uno strano luogo, mentre il suo corpo giace in un letto d’ospedale. Determinato a non morire proprio ora, Joe imbroglia le carte e stringe un patto salvavita con un’inquieta giovane anima, la numero 22.

22 non vuole vivere, Joe non vuole morire; catapultati quasi per errore sulla terra, iniziano una corsa contro il tempo; Joe ha solo poche ore per riappropriarsi della sua vita e realizzare il sogno di diventare un grande musicista jazz, mentre 22 è alla ricerca della ‘scintilla’ che le faccia scoprire finalmente il senso della vita.

Dopo una lunga serie di traversie, tutte concentrate nello spazio di un pomeriggio, i due riusciranno a sistemare le cose, arrivando finalmente a capire quale sia il loro posto nel mondo. Joe e 22 scopriranno insieme che a volte per rincorrere un sogno ci ‘dimentichiamo di vivere’ e perdiamo di vista la bellezza del quotidiano e del mondo reale, fatto di incontri e di reciproco scambio. 

Tornato alla vita di sempre, dopo essersi svegliato da quello che è sembrato un sogno molto reale, Joe promette a se stesso di assaporare la bellezza di ogni momento del viaggio che è la vita.

Soul, che gioca sul duplice significato di “anima” e di “genere musicale”, ci mostra due anime a confronto: quella di Joe, che la dovrebbe “riconsegnare” a seguito dell’incidente, e quella di 22, che ancora deve trovare la sua giusta collocazione nel mondo. Apparentemente sembra che sia Joe ad essere stato prescelto per guidare 22 nel percorso di formazione che la porterà a diventare una persona in carne ed ossa, ma non è così, piuttosto è il caso di dire che i due “si sono trovati”. 

Attraverso lo sguardo, la curiosità di 22 Joe vedrà se stesso vivere in un altro modo e quando si riapproprierà del corpo, continuerà a percepire il fremito di quelle sensazioni provate da 22 durante le ore trascorse insieme e rivedrà, finalmente, i momenti della vita che la passione per la musica aveva fino a quel momento oscurato.

Un bel modo per dirci: gustate ogni singolo istante della vostra vita e quando questa sembra che vi scappi di mano, cambiate prospettiva. La vita sarà ancora più bella e ogni volta sarà come tornare di nuovo al mondo.

Francesca Guglielmi

Agostino, La felicità – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Agostino, La felicità – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Pochi tra i grandi pensatori cristiani hanno manifestato nella loro vita, come sant’Agostino, quanto potente sia il desiderio di felicità e quanto faccia tutt’uno con quello della verità, tanto da fargli parlare di gaudium de veritate, la gioia arrecata dalla contemplazione della verità e della sua bellezza. Come ci viene narrato nelle Confessioni, fin dalla giovinezza, quando ancora diciottenne lesse con avidità l’Ortensio di Cicerone (libro di esortazione alla filosofia), intraprese una lunga ricerca che lo condusse, attraverso varie vicissitudini e peregrinazioni intellettuali, al porto della fede. E per questo interruppe la promettente carriera di retore. 

Al tema della felicità Agostino dedicò uno dei primissimi scritti, il cui titolo originale è De vita beata, un dialogo filosofico che egli scrisse nel 386, pochissimo tempo dopo la sua conversione, nella villa alle porte di Milano dove si era ritirato in compagnia di famigliari e amici, impegnandosi in profonde conversazioni, e in attesa di ricevere il battesimo, cosa che avvenne l’anno seguente dalle mani del vescovo Ambrogio. 

L’opera riporta una vivace e appassionata discussione fra il santo, la madre Monica, il figlio Adeodato e alcuni amici, che comincia il giorno del trentaduesimo compleanno del protagonista. Lo stile letterario è quello di un fine conoscitore della lingua latina, un retore appunto, forgiatosi alla scuola dei grandi oratori, Cicerone su tutti, ma anche di un esperto dell’arte della discussione e delle sue rigorose leggi, la dialettica, che fanno andare la mente ai grandi dialoghi platonici, capostipiti e modelli inarrivabili del genere letterario del dialogo filosofico.

Il santo ritiene che la felicità sia un desiderio universale dell’uomo, ma che, a differenza di quello che tanti credono, essa non consista nel soddisfare i propri desideri se questi desideri non sono quelli convenienti. Il bene solo che dà felicità deve essere un bene stabile e totale, che non dipende dalla fortuna o dai vari accadimenti. E questo bene, somma di tutti i desideri, non può che essere Dio, l’Essere eterno. Se l’infelicità è data dalla privazione del bene a cui tutti tendiamo, non sono le privazioni dei beni materiali quelle che più rendono infelici, quanto quella spirituale che consiste nella stoltezza, ossia nel non comprendere quale sia il vero bene.

Se l’infelicità è stoltezza, il suo contrario, la saggezza, è definita come la pienezza dell’anima, ossia quella misura che permette di evitare di cadere nell’eccesso dei vizi quali la lussuria, la volontà di dominio e l’orgoglio, o al contrario nell’estremo opposto, rappresentato dall’avarizia, la pusillanimità e la tristezza. 

A conclusione della discussione viene affermato che la saggezza ha la sua ragione ideale nella Sapienza di Dio, ossia nel Figlio di Dio, che è la Verità; dunque chi è saggio è felice, ed è felice perché possiede Dio, al quale abbiamo fiducia di arrivare pienamente con “una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”.
Questo breve testo di Agostino si rivela un piccolo gioiello per la freschezza e il rigore con cui è affrontato l’argomento della felicità. In esso sono già presenti alcune delle linee di fondo del suo pensiero, che emergeranno in modo più ampio nelle opere mature. A questo riguardo mi piace concludere con una citazione che rimarca il carattere non emozionalistico, a differenza di tanti approcci attuali, con cui egli ha sempre trattato il tema della felicità, ed è tratta da un’opera che, rispetto al dialogo giovanile, si colloca cronologicamente agli antipodi della sua vita, La Città di Dio: «Così infatti non può essere privo di infelicità colui che venera la felicità come una dea e trascura Dio, datore della felicità, così come non può essere privo di fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede all’uomo che ha quello vero».

Alessandro Cortese

Avere un’anima – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Avere un’anima – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

di Alessandro D’Avenia (fonte: Il Corriere della sera – 11.01.21)

“Si è felici non perché si ha successo, ma si ha successo perché si è felici” potrebbe essere questa la frase riassuntiva di questo articolo. Prendendo spunto dall’ultimo cartone della Pixar, Soul, e dalla grande letteratura russa, l’autore riflette sul tema della felicità, ritenendola non tanto l’esito di una “autorealizzazione” personale come oggi si dice, basata sul successo derivante da performance misurabili, ma dall’essere capaci di vivere la vita in tutta la sua ampiezza a prescindere dai risultati, cioè nel ricordarsi di avere un’anima, come è detto nel titolo.

A ricordarci che abbiamo un’anima ci pensano i cartoni animati. Soul, film Disney-Pixar di Natale, ha invaso gli schermi di coloro che, chiusi in casa e in cerca di leggerezza, si sono trovati invece nel bel mezzo di un gioco serissimo. Un professore di musica delle medie, dopo tanto penare, realizza il suo sogno di jazzista, fino a quel momento lasciato nel cassetto: suonare nel locale più rinomato della città. Sarebbe l’ennesima variazione sul tema del sogno americano, se non fosse che Joe, mentre festeggia l’evento cade in un tombino e… finisce nell’aldilà: tutto ciò che sembrava potersi realizzare di lì a poco svanisce in un attimo, e così comincia la sua partita contro la morte. Anche noi abbiamo un’anima, altrimenti non potremmo sollevarci sopra il fluire del tempo, ne saremmo parte come un ignaro pezzetto di natura. Noi scorriamo, sì, ma, a differenza di piante e animali, ne siamo consapevoli. Per questo cerchiamo di dare una forma al tempo e un senso al suo scorrere: «trovare il proprio posto nel mondo», «realizzarsi», diciamo, come se quel posto non l’avessimo già o non fossimo già abbastanza «reali». Più che trovarlo, questo posto, occorre abitarlo e, prima di realizzarsi, occorre essere reali, cioè imparare l’arte di vivere a prescindere dai risultati. Soul cerca di narrare che, per essere felici, bisogna essere prima che, come si pensa oggi, costruirsi.

Avere un’anima significa infatti imparare l’arte di vivere per poi «realizzare» le opere della propria unicità, a prescindere dall’eventuale successo.

Siamo fatti per vivere e poi per creare vita, ma per dare vita, la vita bisogna prima averla in sé. Invece una certa idea diffusa di felicità intesa come «costruzione» individuale in base a risultati quantificabili (tutto oggi si misura, perché tutto è prestazione) ha indebolito la nostra arte di vivere, cioè dello «stare» nella vita, perché la felicità non è primariamente una cosa «da fare» ma «da ricevere». Capita a tanti oggi di non riuscire a «realizzarsi» e per questo sentirsi falliti. Ma la nostra anima sa gioire anche in assenza di «successo», purché ne si coltivi, nell’ordinario, la capacità di risonanza. Una delle letture che me lo ha fatto capire meglio è il capolavoro di Boris Pasternàk: Il dottor Živago. Quello che trovo in molta letteratura russa (Puškin, Dostoevskij, Gogol, Bulgakov, Solženicyn, Grossman) è questa priorità della vita su idee e risultati, priorità spesso rovesciata nella visione occidentale.

Nel libro di Pasternàk (sfuggito alla censura sovietica e pubblicato proprio in Italia in anteprima nel 1956), ambientato nella Russia rivoluzionaria di primo ’900, l’esistenza dei protagonisti è continuamente stravolta dagli eventi della storia, ma alcuni sanno resistere perché hanno un’anima: vivono cioè in profondità, e rimangono stabili, nonostante la «rivoluzione», come accade nell’occhio di un ciclone. Certa letteratura non ha mai dimenticato che l’uomo ha l’anima e, come una conchiglia con il mare, può contenere in ogni istante la vita intera. Per questo Lara (il mio personaggio preferito), quando arriva nell’antica tenuta di campagna, ha l’abitudine di andare sempre a piedi dalla stazione a casa: «per un sentiero tracciato da vagabondi e da pellegrini e quindi svoltava per il viottolo che, attraverso un prato, portava al bosco. Qui si fermava e, con gli occhi socchiusi, aspirava l’aria densa dei confusi profumi della vastità che la circondava. Era un’aria più cara del padre e della madre, più tenera dell’uomo amato, più illuminante di un libro. Per un istante a Lara si rivelava di nuovo il senso dell’esistenza». 

C’è un vivere più originario di tutto che va ricevuto e rinnovato da riti tanto sacri quanto semplici come quello di Lara. Quel «vivere dentro» non ci può essere tolto, perché vivere è imparare a essere «soli», che non significa «isolati» (da isola) ma «pieni» («solo» viene da una radice che indica totalità, integrità, completezza), cioè «avere un’anima». Lara chiude gli occhi, respira e diventa centro del mondo e della storia: «Era lì — lo comprendeva — per mettere ordine nel folle incanto della terra e chiamare ogni cosa col proprio nome e, se non ne avesse avute le forze, allora per generare, in nome dell’amore per la vita, dei successori, che lo avrebbero fatto al suo posto». Questa pienezza, trovata nell’istante, consente di affrontare l’imprevedibilità della vita.

La nostra vita ha senso infatti non solo perché «realizziamo» ciò che sogniamo e magari qualcuno ce lo riconosce (esito per altro non garantito), ma semplicemente perché «viviamo» la Vita, cioè diventiamo capaci di riceverla tutta nel singolo istante, grazie all’ampiezza dell’anima. E in questa gioia profonda e interiore ogni posto diventa il nostro posto nel mondo, ogni tempo il nostro tempo: si è felici non perché si ha successo, ma si ha successo perché si è felici. Lo capirà Joe? E noi?

Alessandro D’Avenia

La scienza può dare la felicità?   – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

La scienza può dare la felicità? – (Newsletter n.6 gennaio 2021)

Intervista alla prof.ssa Marisa Levi , che sabato 28 novembre 2020, ha tenuto il laboratorio di scienze all’interno del corso “Aiutami a essere felice. Quella luce nei loro occhi”.

Nel convegno tenutosi lo scorso novembre dal titolo “Aiutami ad essere felice. Quella luce nei loro occhi”, grande interesse ha suscitato l’incontro con la prof.ssa Marisa Levi che, da biologa e ricercatrice, ha affrontato il tema “La scienza può dare la felicità?”.

Professoressa, può darci in sintesi una risposta al quesito che ha fatto da titolo al suo intervento?

La mia risposta alla domanda se la scienza può dare felicità è convintamente positiva. Io penso soprattutto a tre aspetti: la realizzazione personale, il contributo al bene comune e, soprattutto, la contemplazione, la capacità di cogliere la bellezza della natura; la conoscenza scientifica permette di cogliere non solo la bellezza “esterna”, ma quella delle strutture, del funzionamento, del coordinamento, delle relazioni, la diversità degli organismi, la grandiosità dell’insieme ecc. La conoscenza alimenta lo stupore e quindi genera gratitudine e gioia. Nel primo incontro si diceva che la felicità è legata all’abbondanza: quanta abbondanza c’è nella natura!

Nel suo discorso ha parlato di scienza come realizzazione personale. Potrebbe approfondire questo aspetto?

Ogni lavoro è occasione di mettere in gioco e sviluppare le proprie capacità. In particolare, la ricerca scientifica può aiutare a crescere nella collaborazione, nel senso di responsabilità, nella creatività, nell’ordine, nel rigore… Mi ricordo di una studentessa di biologia che quando era entrata in laboratorio era anche umanamente molto superficiale, prendeva tutto alla leggera; è stata due anni in laboratorio per la tesi e durante questo periodo è maturata moltissimo. Un altro aspetto di realizzazione personale è la felicità di studiare qualcosa che interessa, scoprire qualcosa di nuovo, contribuire a risolvere un problema, o anche appassionarsi a qualcosa di nuovo, che prima non si conosceva.

Uno dei punti più intensi della sua esposizione è stato quando ha parlato della sua personale scoperta della relazione non come accidente ma come sostanza; questo aspetto ha incoraggiato l’intervento da parte di molti docenti, anche di discipline diverse da quelle prettamente scientifiche. Vuole riprendere per noi il concetto?

Noi abbiamo studiato una suddivisione della realtà in sostanza e accidenti, secondo cui la sostanza è ciò che permane e gli accidenti possono cambiare senza che cambi la sostanza. E la relazione era considerato un accidente. Io per un po’ ci ho creduto. Ma quando ho cominciato a riflettere sull’inizio della vita di un essere umano, questa storia della relazione come accidente non mi quadrava più, perché nel concepimento si stabiliscono delle caratteristiche sostanziali di quell’essere umano, e quindi secondo me, almeno la relazione di filiazione, non poteva essere un accidente. C’è poi anche un aspetto personale, perché mio padre è riuscito a sfuggire alla persecuzione degli ebrei rifugiandosi in Svizzera, e quando io sono stata ad Auschwitz continuavo a pensare: se mio padre fosse finito qui, io non esisterei. E questo mi convinceva ancor di più che la relazione di filiazione non potesse essere un accidente. Poi ho trovato in “Introduzione al cristianesimo” di Ratzinger questa affermazione: “La Trinità scardina l’antica suddivisione della realtà in sostanza, ciò che è proprio,  e accidenti, ciò che è casuale.  Accanto alla sostanza si trova il dialogo, la relatio, come forma ugualmente originaria dell’essere. Nella Trinità la relazione viene scoperta come modalità originaria del reale di pari dignità della sostanza”. E questo, oltre a confermarmi nel mio pensiero, mi ha dato una grande gioia, la gioia del ricercatore credente quando scocca il contatto fra quanto emerge dal suo studio scientifico e quanto apprende dalla rivelazione, dal magistero e dalla teologia.

Infine, non posso esimermi dal chiederle un suo personale commento alla situazione attuale: oggi molti chiedono alla scienza di liberarci non solo dal virus ma dalla paura di soffrire e di morire; pretendono che scienziati, virologi, medici, ricercatori diano risposte chiare, univoche, sicure e immediate al desiderio di salvezza dell’uomo. Da parte loro, invece, gli “esperti” rispondono con certezze che diventano il giorno dopo incertezze, soluzioni parziali che non soddisfano e fanno nascere una certa diffidenza anche negli Organismi Internazionali che fino a qualche mese fa godevano di una grande autorevolezza (OMS, per fare un esempio su tutti). Secondo lei dove sta l’errore in tutto questo?

Mi pare che l’errore fondamentale sia quello di una visione parziale e riduttiva della realtà: per esempio la pretesa che la scienza sia l’unica fonte di conoscenza e possa dare una risposta a tutto. Abbiamo visto, invece, quanto nelle situazioni di difficoltà siano importanti le relazioni umane, lo spirito di servizio, il senso di responsabilità, l’aspetto spirituale, l’attenzione al bene di tutti, perché il problema della pandemia non è soltanto medico, ma anche sociale. 

A questo si aggiungono poi i limiti umani, per cui molti “esperti” si sono lasciati travolgere dal circuito mediatico, facendo affermazioni perentorie su cose incerte, discutendo e contraddicendosi (fra loro e anche con se stessi) in pubblico, invece di chiarirsi prima le idee fra di loro.

Miriam Dal Bosco