Nov 24, 2020 | Insegnanti
Leggendo l’intervista ad Alessandro D’Avenia sul suo ultimo romanzo “L’Appello” (riportato anche in questa newsletter), mi sono soffermata a riflettere sul suo richiamo; ormai da mesi la scuola è soggetta ad una rivoluzione e, se nei primi tempi l’attenzione era tutta incentrata sull’avviare la DAD per garantire la continuità nell’emergenza, ora, dopo mesi di consolidamento di questa nuova metodologia, è forse arrivato il momento di fermarsi e osservare il cambiamento per fare un primo bilancio.
Cosa succede con la DAD? Succede che ci si trova ad “educare senza corpo” (come dice D’Avenia nell’intervista).
Le aule sono piene di assenza, l’assenza dei corpi degli studenti, il contatto fisico è sostituito da uno scambio virtuale a discapito della relazione che è il fondamento di ogni vero insegnamento.
Se già in aula, in presenza, è difficile instaurare autentiche relazioni di vero scambio tra alunni e insegnanti, ma anche tra i ragazzi stessi; tanto più ora che ogni messaggio è veicolato solo attraverso un schermo, attraverso un passaggio di voci filtrate, ma senza la dimensione fondamentale della fisicità. Il corpo non è, infatti, un’appendice dell’uomo, ma una dimensione fondamentale della sua identità e asse portante della relazione conoscitiva con il mondo.
Il rischio, insomma, è l’isolamento dell’adolescente, perché un’aula non è solo il luogo in cui i ragazzi apprendono, ma è soprattutto il luogo in cui fanno esperienza di relazione, in cui imparano a confrontarsi con l’altro diverso da sé e la relazione umana non può prescindere dell’elemento della fisicità e questo anche, e forse soprattutto, per i nativi digitali.
La vera sfida quindi che insegnanti e ragazzi sono chiamati ad affrontare in questo momento, è quella di non perdere la voglia di fare esperienza dell’altro, di non dimenticare che, anche se attraverso uno schermo, il dialogo non si deve interrompere; magari sarà più sommesso, meno immediato e meno felicemente chiassoso, ma forse può diventare più essenziale.
Lo sforzo a cui sono chiamati gli insegnanti è quello di trovare nuovi modi, sfruttando gli strumenti a disposizione, per attirare l’interesse dei ragazzi, coinvolgendoli e aiutandoli a mettersi in gioco, ad oltrepassare metaforicamente la barriera dello schermo.
Come dice D’Avenia è il momento di riscoprire il valore dell’appello, perché ogni ragazzo si senta chiamato in prima persona; molto dipende dalla passione e dalla competenza dei docenti, magari sperimentando qualche attività nuova per suscitare l’interesse in chi sta al di là del video, facendo riscoprire ai ragazzi nuove forme di interazione, ma soprattutto di relazione, perché anche se per il momento manca la vicinanza fisica, non dobbiamo perdere la voglia di stare in relazione con l’altro, perché solo nel confronto possiamo fare esperienza della nostra unicità.
Il compito che abbiamo davanti, anche ora, è sempre quello di arrivare, con competenza e creatività, alleandosi con le famiglie, al cuore dello studente, che sia al di qua o al di là di uno schermo, accendendo una relazione viva.
Arriverà poi il momento di “spegnere le webcam” per tornare a riempire le aule di voci e di passi pronti a proseguire il cammino, magari correndo all’ultimo rintocco della campanella.
Francesca Guglielmi
Nov 24, 2020 | Insegnanti
Intervista alla dott.ssa Mariolina Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, lavora in un servizio territoriale di Neuropsichiatria Infantile ed esercita attività privata come psicoterapeuta per adulti e coppie. E’ anche mamma di sei figli.
Credo si possa definire un’osservazione banale per chiunque nella vita abbia fatto l’insegnante o l’educatore, ma anche solo il catechista o l’animatore da adolescente: i maschi e le femmine apprendono in modo diverso! Hanno un modo diverso di stare in aula, di porre domande, di vivere le esperienze.
Oggi, però, si sente parlare di “stereotipi di genere”. Ecco quindi la prima, più difficile, domanda:
Come comunicare la differenza, evidenziando il valore specifico dell’essere maschio e femmina?
La differenza sessuale si gioca su un punto fondamentale: abbiamo un corpo che partecipa in modo diverso alla trasmissione della vita. Come diceva Aristotele: il femminile genera nel proprio corpo, il maschile genera fuori del proprio corpo, nel corpo del femminile. La differenza dei corpi, il fatto di avere il baricentro generativo “dentro” o “fuori”, comporta una percezione profonda di sé molto differente: solo se a questa differenza attribuiamo un significato e un valore potremo assecondare nei ragazzi uno sviluppo identitario coerente con la loro sessualità biologica.
E’ a partire da questa differenza (innegabile e ineliminabile) che prendono infatti origine tutte le altre differenze. Molte delle caratteristiche sulle quali siamo soliti soffermarci e talora anche scherzare sono invece di tipo probabilistico e hanno in gran parte valenza culturale: la capacità di orientamento, la diversa sensibilità, gli aspetti caratteriali ecc. corrispondono spesso a stereotipi che non hanno una reale specificità.
Si può definire il neonato “neutro”, in quanto ancora privo di una caratterizzazione maschile e femminile?
Il bambino che nasce non è “neutro”, perché si presenta, dal punto di vista anatomico e genetico, secondo due declinazioni fondamentali: il sesso maschile e il sesso femminile. A partire da questa differenza prende il via un processo complesso, che conduce poco alla volta a definire un’identità sessuale di uomo o di donna. A questo processo concorrono molti elementi: da un lato la percezione di sé che origina da un corpo differente, ma dall’altro il modo in cui l’ambiente (soprattutto quello più prossimo) si relaziona con il bambino maschio o femmina, e il significato e il valore che attribuisce loro. L’identità umana non si organizza mai nel vuoto: la scoperta della differenza e quella della propria appartenenza a un sesso avvengono nel contesto di una storia, che è sempre storia relazionale (quel bambino, in quel momento, in quella coppia, in quella relazione); ogni storia poi si declina all’interno di uno specifico contesto culturale, che dà un significato e un valore diverso alla differenza e alla specificità sessuale.
Il bambino inizia a “lavorare” intorno al tema della propria identità sessuale intorno ai due anni, quando la stazione eretta e l’educazione al controllo sfinterico comportano un forte investimento degli organi genitali; scopre così che il mondo è diviso in due: chi ha e chi non ha un pene. Scopre di appartenere ad una delle due categorie, e di assomigliare in questo ad uno dei due genitori. Scopre che la differenza serve per fare i bambini. L’essere maschio o femmina inizia già da questo momento a prendere un significato: positivo, negativo, oppure contraddittorio.
In che modo le realtà extra-familiari aiutano il formarsi dell’identità maschile e femminile? È giusto che lo facciano o gli interventi educativi dovrebbero essere imparziali?
Non esiste in nessun caso e in nessun campo una neutralità educativa: chi educa influenza anche se e quando non lo vuole, perché la disparità di età e di esperienza comportano comunque sempre un influenzamento dell’altro. Se anche, paradossalmente, fosse possibile rimanere del tutto imparziali in questo campo, la neutralità stessa sarebbe una forma di condizionamento.
La vera questione, dunque, è casomai quella di capire ed esprimere in modo chiaro in quale direzione pensiamo giusto orientare i nostri figli, secondo quali valori e quale pensiero.Se riteniamo che la differenza sessuale sia una ricchezza e un valore, allora è giusto approfondirne il senso e cercare di orientare i nostri figli verso la differenza.
Gli insegnanti esprimono la loro identità maschile e femminile anche quando insegnano matematica o grammatica o chimica?
Noi tutti siamo uomini o donne: se lo siamo pienamente, con serenità e in pace con la nostra identità, questo si esprime in tutto il nostro modo di essere.
Credo però che per fare questo sia oggi indispensabile approfondire meglio il significato del maschile e del femminile, dare un nome alla loro differenza e alla loro specificità: dobbiamo capirlo in primo luogo in noi stessi, per poterlo poi trasmettere: non possiamo più dare niente per scontato.
Miriam Dal Bosco
Ott 17, 2020 | Insegnanti, Umanistico
Nell’intervista, il prof. Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio internazionale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, di cui è uno dei massimi esperti in Italia, e con un passato da docente, commenta la nuova legge che ha introdotto da quest’anno scolastico l’insegnamento dell’Educazione civica. Egli ritiene che la scuola cattolica debba cogliere l’introduzione della nuova disciplina come l’occasione per ragionare con gli studenti su alcuni temi decisivi, quelli indicati dalla legge ma anche ulteriori, esprimendo la propria visione delle cose e i propri valori. In questo modo si contribuirà a mettere in discussione molti degli assunti che sugli stessi argomenti sono presenti nella mentalità comune.
Prof. Fontana, come giudica la nuova legge che ha introdotto nelle scuole di ogni ordine e grado la disciplina dell’educazione civica?
Premetto che io non voglio tanto parlare di metodi didattici, cioè di come insegnare questa disciplina, ma dei contenuti da trasmettere. Anche perché se un insegnante ha le idee chiare su quello che deve dire, poi trova abbastanza facilmente le modalità. Prima della lettura delle Linee guida della legge, uscite quest’estate, ero un po’ preoccupato per il fatto che chi è al governo potesse utilizzare tale nuova disciplina per diffondere alcuni precisi principi e valori e creare una mentalità comune. Se guardiamo al passato, lo Stato difficilmente ha saputo resistere alla tentazione di creare una sorta di religione civile, utile per tenere insieme i cittadini, entrando nella formazione delle loro coscienze, soprattutto dopo che ha estromesso la religione come fonte della morale pubblica.
Invece, la lettura delle Linee guida mi ha un po’ confortato, anche se non del tutto rassicurato, dal momento che l’obiettivo della legge si limita a voler promuovere cittadini consapevoli e responsabili. Sono concetti molto generici che lasciano libertà alle scuole. Per la scuola cattolica è l’occasione per riempire tale spazio di libertà che la legge le lascia con i contenuti e i valori che le sono propri.
Le Linee guida indicano tre macro aree, costituzione, sostenibilità ambientale e cittadinanza digitale, come i pilastri intorno a cui costruire l’insegnamento dell’educazione civica. Cosa pensa di questa scelta?
Innanzitutto temevo che ci fossero anche altre aree oltre a queste. Penso che una scuola cattolica dovrebbe soffermarsi in particolare sui primi due ambiti, Costituzione e sostenibilità ambientale. A mio avviso la scuola cattolica dovrebbe affrontare i temi attinenti a questi ambiti in modo diverso, addirittura contrario, da come essi vengono affrontati nelle cultura comune. Oggi, spesso si esaltano in modo ingenuo certi valori come la democrazia o i diritti umani senza un’adeguata riflessione su questi concetti. Voglio dire che oggi la scuola cattolica deve fare una controcultura. Prendiamo, p. es., il tema della sovranità, che è presente nella nostra Carta fin dal primo articolo. Ora il concetto di sovranità, che deriva dalla filosofia politica moderna, è inaccettabile sia per la filosofia che per la teologia cattolica se con essa intendiamo che chi esercita il potere, uno o molti non fa differenza, non riconosce nulla di normativamente superiore. E, infatti, vediamo oggi che la Repubblica italiana, proprio perché si ritiene sovrana, si arroga il diritto di dire che la famiglia non è più quella società naturale fondata sul matrimonio di cui parlano peraltro gli articoli 29 e 30, ma un’aggregazione sociale, e quindi valida anche fra due persone dello stesso sesso.
A questo riguardo, occorre ribadire che pur trovandosi tante cose giuste nella nostra Costituzione, non si può assolutizzarla, facendone un feticcio. Quando la si deve trattare occorre chiedersi su che cosa essa si fonda. E certamente non può essere giustificata solo sul consenso. Si può insegnare agli studenti che esiste una legge naturale, un ordine naturale che precede il consenso e lo stesso stare insieme. In base a questo si può anche non rispettare sempre una legge, ed è il caso dell’obiezione di coscienza, quando una legge lede qualcosa di fondamentale nel diritto naturale. I ragazzi capiscono bene questa doppio statuto, umano, e quindi relativo, oppure naturale, e quindi oggettivo, della norma; per illustrarlo si può anche mostrare loro l’esistenza di principi morali universalmente condivisi come il divieto di uccidere un innocente. Oltre al concetto di sovranità è interessante, anche in prospettiva storica, presentare ai ragazzi quello di regalità, con cui spesso è confuso, che caratterizzava la concezione del potere prima dell’avvento dello Stato moderno, quando i re o l’imperatore riconoscevano dei limiti al loro potere e non erano sovrani assoluti. La democrazia moderna è la stessa idea di sovranità che viene allocata nel popolo, ma non cambia nulla nella sostanza. Ai ragazzi andrebbe fatto capire che un conto è la democrazia come forma di governo, che è una tra le diverse e altrettanto valide forme possibili, un conto come fondamento del governo.
Farei riflettere i ragazzi anche sulla coppia di termini potere e autorità. Il primo è la mera facoltà di poter costringere gli altri a fare alcune cose, la seconda è l’esercizio del potere legittimato moralmente, che vuol dire che rispetta la legge naturale e ha come fine il bene comune. I ragazzi capiscono benissimo tale distinzione; non amano l’insegnante che li obbliga a fare le cose e basta, ma chi gli fa fare cose giuste e che sono convinti che sono giuste.
E a proposito del secondo ambito della legge, l’ambiente, come dovrebbe essere affrontato da una scuola cattolica?
Bisogna dire che oggi l’ambientalismo è diventato quasi una religione. Qui la scuola cattolica, in modo speciale gli insegnanti di scienze o di geografia, ha un grosso lavoro da fare. Bisogna smascherare i dati e gli allarmi infondati da un punto di vista scientifico, basandosi su dati certi e studi seri. La fede cattolica non chiede alla ragione di rinunciare a capire, ma di ragionare sulle cose. Occorre sfatare l’idea, p. es. che le emissioni umane di anidride carbonica causino il surriscaldamento terrestre. Oppure le teorie neomalthusiane che considerano l’uomo il cancro del pianeta e predicano la limitazione delle nascite. Pensiamo anche all’animalismo, che enfatizza la tutela degli animali, ma lascia che milioni di bambini innocenti possano morire a causa dell’aborto. C’è tutta una letteratura del cosiddetto antispecismo che invita a superare la distinzione fra specie umane, considerando quella umana superiore alle altre. Oppure il primitivismo, che esalta le società primitive dimenticando che nella loro cultura c’erano anche aspetti disumani, come il fatto che spesso l’uomo era tenuto prigioniero di paure ancestrali e forze occulte. In generale dobbiamo ricordare l’apporto culturale importantissimo del cristianesimo al progresso umano. Pensiamo all’opera dei monaci o di tanti missionari, di cui è importante recuperare la storia. Quando facciamo storia, dobbiamo parlare della luce che il cristianesimo ha portato all’umanità.
Invito per prima cosa gli insegnanti a documentarsi su questi temi e a farsi degli orientamenti. Inoltre non dobbiamo lasciare queste cose sui libri di scuola senza darne una lettura critica. E a questo riguardo gli insegnanti stessi dovrebbero crearsi nel tempo i propri libri di testo. Non aspettiamoci dalla case editrici cattoliche libri impostati in modo diverso perché anch’esse per vendere numerose copie devono adattarsi alla cultura dilagante.
Ci sono ambiti non previsti dalla legge che aggiungerebbe nel curricolo di educazione civica?
Sicuramente aggiungerei il tema riguardante il concetto di popolo, patria e nazione, troppo trascurato oggi. Sono concetti a cui non possiamo rinunciare. Mi ricordo che san Giovanni Paolo II riteneva l’amore per la propria patria un’estensione del quarto comandamento. Contro un globalismo esasperato o l’ipotesi di società aperta multiculturale occorre riconoscere che la persona umana ha un radicamento, innanzitutto nella società naturale che è la famiglia, ma poi anche nel popolo e nella nazione. Un ultimo tema che una scuola cattolica non può non trattare è quello relativo al matrimonio e alla famiglia e alla procreazione, sebbene sia oggi particolarmente difficile trattare tali questioni. Senza matrimonio non c’è famiglia e senza famiglia non c’è società. Però va detto che non riguardano solo i cattolici. Il matrimonio, infatti, ha un’importanza a livello naturale che andrebbe spiegato. Infine, accenno solo al fatto che su tutti, proprio tutti, questi grandi temi le religioni non dicono la stessa cosa. L’Islam per esempio dice cose diverse dal protestantesimo. Penso che questo sia un problema che gli insegnanti presto o tardi saranno chiamati a incontrare.
Se l’insegnamento dell’educazione civica, insomma, viene inteso in questo modo, esso diventa infinitamente più interessante e bello di quello che il governo aveva in mente quando ha proposto questa iniziativa.
(Intervista non rivista dall’autore)
Alessandro Cortese
Ott 15, 2020 | Insegnanti
A termine di un lungo iter legislativo, il 20 agosto 2019 il Parlamento Italiano promulgò la legge n. 92/2019 riferita all’introduzione dell’insegnamento scolastico della cosiddetta “Educazione Civica” nelle scuole di ogni ordine e grado presenti sul territorio nazionale.
Con il presente articolo non si è assolutamente intenzionati a presentare i dettagli tecnici per il migliore insegnamento della disciplina agli studenti, per essa rimando alle Linee Guida pubblicate dal MIUR alcune settimane fa. Si cercherà invece di tratteggiare gli aspetti di novità della disciplina, le grandi opportunità educative che propone e, consecutivamente, i rischi e pericoli che inesorabilmente la accompagnano.
La legge, varata durante le ultime settimane del governo Conte I (quello “gialloverde”, per intendersi), si prefigge lo scopo di «formare cittadini abili e attivi» e di «promuovere la partecipazione piena e consapevole alla vita civica, culturale e sociale delle comunità, nel rispetto delle regole, dei diritti e dei doveri» (Art. 1). Per raggiungere tale obiettivo, la legge individua due pilastri essenziali da far conoscere: la Costituzione Italiana e le istituzioni dell’Unione Europea (Art. 2).
Ora, per comprendere pienamente le novità dell’insegnamento, è necessario ricordare che siamo dinanzi a una materia sostanzialmente diversa da quell’Educazione Civica che, almeno credo, molti hanno avuto modo di conoscere nei decenni passati.
Le Linee Guida che accompagnano la legge infatti vanno ben oltre la promozione della conoscenza della Carta Fondamentale dello Stato o delle Istituzioni europee, giungendo a enucleare tre macro-aree che si rifanno direttamente all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile promossa dall’ONU: esse sono:
– Costituzione, diritto nazionale e internazionale, legalità e solidarietà;
– Sviluppo sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio;
– Cittadinanza digitale.
Questa pluralità tematica richiama fortemente un altro carattere dell’insegnamento: la contitolarità e quindi la trasversalità. Ciò è, a mio parere, il grande punto di forza della nuova disciplina. Al netto di una programmazione didattica ben costruita da un valido e coordinato gruppo di docenti, la possibilità di sviluppare tematiche affini con modalità e tecniche differenti in ogni singola disciplina è effettivamente una grande possibilità didattica. Uscire dagli scompartimenti stagni degli insegnamenti, apparentemente muti e sordi tra di loro, creando un linguaggio trasversale e complementare, potrebbe favorire notevolmente lo slancio critico, la costruzione concettuale, la libera interpretazione del pensiero, il gusto e il fascino della ricerca e della scoperta. È un’opportunità da cogliere.
D’altro canto la nuova legge potrebbe comportare dei pericoli educativi non così troppo celati. La forte «liquidità» dei programmi proposti, definiti dalle suddette tre macro-aree in cui trova spazio un po’ di tutto, lascia un’ampia libertà di scelta all’insegnante. Una libertà, si ricordi, comunque condizionata dall’Agenda 2030. Ciò non è, in linea di principio, un male, anzi. Tuttavia, come ben sappiamo, la libertà non può essere tale senza responsabilità. In primis, responsabilità dell’insegnante, il quale è moralmente obbligato a strutturare un percorso idoneo ai suoi studenti, senza lasciarsi tentare da quel desiderio di «educazione delle folle» tipiche di uno Stato Etico, fortemente indottrinante e indottrinato. Tale rischio è presente nel nostro Paese, in tutte le scuole, eredità di un passato neanche troppo lontano. In secundis, responsabilità della famiglia, principale e finale custode dell’educazione dei figli (cfr. Art. 26, comma 3, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 1948), chiamata a monitorare i programmi scolastici e obbligata a intervenire nel caso in cui l’insegnamento di Educazione Civica diventasse terreno di proselitismo ideologico, di qualsiasi tipo esso sia. Il pericolo è dietro all’angolo, bisogna dunque vigilare.
Libertà e Responsabilità in una Scuola alleata con la Famiglia. Solo grazie a questi connubi, solo grazie a un intenso desiderio di accostarsi alla Ricerca del Vero, del Bello e del Bene si potrà sperare di formare «cittadini consapevoli» del loro posto nel mondo.
Solo così l’Educazione potrà essere veramente «civica» e, di riflesso, la Civiltà diventerà anch’essa «educativa».
Stefano Sasso
Ott 15, 2020 | Insegnanti
Antonio Calvani, Roberto Trinchero – Carocci Faber 2019
Si può stabilire con ragionevole grado di certezza quali sono i principi e i metodi didattici più efficaci? A questa domanda, di fondamentale importanza per chiunque operi nel campo dell’insegnamento e sia desideroso di districarsi fra le molte mode didattiche che hanno invaso la scuola, questo agile libro risponde affermativamente.
Sulla base della ricerca scientifica degli ultimi decenni in ambito pedagogico, i due autori, docenti universitari, ritengono che si possano individuare, da una parte, dieci “miti”, ossia credenze didattiche prive di reale fondatezza scientifica, sebbene oggi particolarmente diffuse; dall’altra, altrettante regole, o raccomandazioni, che hanno la maggiori probabilità di realizzare un apprendimento efficace.
Il tratto che caratterizza questo testo, distinguendolo da tanti altri che offrono idee e suggerimenti per una buona didattica, è il costante riferimento ai risultati più aggiornati delle ricerche sperimentali sul grado di efficacia delle diverse metodologie didattiche. La stessa struttura del volume è quella di un saggio scientifico, dallo stile asciutto e con abbondanti riferimenti alle pubblicazioni più accreditate della letteratura pedagogica recente, soprattutto di lingua inglese, e corredato da un’appendice in cui sono presentati i modelli didattici intorno a cui oggigiorno c’è il maggior consenso degli studiosi e da un glossario finale dei numerosi termini tecnici utilizzati.
Solo per fare qualche esempio, lasciando al lettore incuriosito di leggere gli altri, tra gli slogan didattici attualmente più in voga, ma che gli autori ritengono dei miti da sfatare, ci sono: “Per formare gli allievi è importante la didattica, non la valutazione” (Mito 2); “Bisogna abolire la lezione frontale” (Mito 3); “Le tecnologie migliorano l’apprendimento” (Mito 5); “Con l’approccio flipped si può innovare la scuola” (Mito 10). Ciascun dei cosiddetti miti viene criticato portando argomentazioni ed evidenze contrarie, senza, però, dimenticarsi di valorizzare la parte di verità contenuta in essi.
Tra le dieci regole, presenti nella seconda parte, possiamo citare sempre come esempio e senza entrare nello specifico: “Predefinire una struttura di conoscenza ben organizzata” (Regola 1); “Attivare le preconoscenze dell’allievo” (Regola 3); “Utilizzare feedback e valorizzare l’autoefficacia” (Regola 8); “Potenziare la conservazione in memoria delle idee e dei procedimenti rilevanti” (Regola 10). Come per i miti, ogni regola è spiegata e supportata da argomentazioni ed evidenze, ma anche da domande concrete che l’insegnante può porsi per capire quanto tali raccomandazioni siano realmente all’opera nella sua personale pratica didattica.
Per concludere, questo è un testo prezioso per i docenti perché ricorda che se insegnare è un’arte, ciò non significa che tutte le prassi siano equivalenti e non vi siano dei punti fermi che hanno dato nel corso del tempo ripetute conferme di affidabilità (e questo senza nulla togliere alla passione educativa che deve muovere ogni insegnante); ed inoltre sottolinea, a dispetto di tutte le correnti educative di tipo attivistico-spontaneistico e costruttivistico che hanno interessato la scuola (su cui gli autori esprimono un parere prevalentemente negativo), il ruolo di guida insostituibile e centrale da parte del docente, che, proprio per questo, è chiamato a “imparare a padroneggiare le modalità e le tecniche tipiche degli insegnanti esperti, che oggi la ricerca è in grado di descrivere ed esemplificare analiticamente” (p. 98).
Alessandro Cortese
Set 13, 2020 | Insegnanti
“E Lei.. di che si occupa nella vita?” mi chiede titubante la vicina di ombrellone, tra una richiesta di informazioni meteo e uno scambio di consigli sulla crema solare.
“Io insegno.”, rispondo sorridente
“Che bello! E’ così bello lavorare con i bambini!”, esclama con voce entusiasta.
“A dire il vero insegno in una scuola media..Lettere”, puntualizzo.
“Aaah…– geme inorridita – Che coraggio! Io non resisterei un attimo con quelli di quell’età…e poi al giorno d’oggi…noi non eravamo così. Sfacciati, maleducati…e come vanno a scuola vestiti…e poi …neanche un po’ di rispetto…e le famiglie che danno sempre ragione ai figli…una volta invece…”
“Già…”, sospiro piano.
Sospiro perché non ho la forza di aggiungere altro: non saprei come raccontare a quella signora che si dilunga infuocata nella solita retorica sociologica del “non come una volta” il viaggio che ogni anno mi accingo a intraprendere: ogni settembre mi imbarco su una nave e salpo senza conoscere il porto che mi attende, sempre un po’ restia e sospettosa, carica dei miei bagagli, dei miei programmi e delle mie aspettative, e mi ritrovo a viaggiare per mari e terre sconosciute, sicura solo che quando il viaggio sarà terminato, io sarò diversa e un po’ cresciuta.
Non ho la confidenza per spiegarle che sì, ci vuole coraggio a insegnare, ma non perché i ragazzi non sono più come quelli di una volta, ma perché saremo noi, dopo aver intrapreso questo viaggio, a non essere più quelli di una volta: non saremo più gli insegnanti dell’anno scorso, gli insegnanti del mese scorso… forse non saremo più le persone del tempo appeno trascorso.
Anche il prof. Mazard, nel film “Quasi nemici”, non è più lo stesso uomo dopo il percorso che è stato costretto a intraprendete con la studentessa Neilah, non è più lo stesso figlio (va a ritrovare la vecchia madre che da tanto tempo non vedeva), e solo in ultima battuta non è più lo stesso insegnante.
A dire il vero, vi confesserò, ogni volta che il viaggio di un nuovo anno scolastico ha inizio mi sento colpevolmente simile a questo saccente professore parigino: con una certa sicumera squadro i miei alunni, noti o sconosciuti che siano, con occhio critico, disapprovando dentro di me l’abbigliamento dell’uno, l’atteggiamento dell’altro, il linguaggio dei più… qualcuno mette pericolosamente alla prova la mia pazienza, qualcun altro riesce proprio a irritarmi.
Cos’è allora che cambia le carte in tavola? Cosa rovescia la situazione? Cosa spinge il prof. Mazard a piegarsi a un grazie per Neilah? Cosa spinge me a ostinarmi, ogni anno, a ricominciare il viaggio?
So di dire qualcosa che per voi è lapalissiano, scontato, quasi imbarazzante da ripetere, ma io ho bisogno di ricordarmelo ogni giorno e di scriverlo perfino qui, per rendermelo ancora più chiaro.
Ciò che fa cambiare rotta alla nave, che salva i miei alunni dal rischio che li faccia gettare in mare e salva me dall’ammutinamento, ciò che rende entusiasmante il mio e il loro viaggio e ci impedisce di naufragare, è senza ombra di dubbio la relazione.
La relazione dà senso a quello che faccio, la relazione è il tasto SAVE del mio lavoro, il tasto SAVE dell’esperienza scolastica, per me e per i miei alunni; nella relazione insegno tutto, nella relazione imparo tutto, nella relazione mi dimentico ogni nozione per impararla in modo nuovo, nella relazione si sgretolano i miei schemi mentali per ridisegnare la mappa del mio viaggio personale -e solo in secondo luogo professionale. Nella relazione divento capace di dire grazie ad ogni mio singolo alunno, di preoccuparmi per lui, di desiderare il meglio per e da lui.
Capiamoci: quando parlo di entrare in relazione non sono così ingenua da credere che dobbiamo indossare i panni strappati e cortissimi dei nostri alunni, dimenticarci i congiuntivi, sfidarci a Fortnite, ascoltare i loro idoli musicali e frequentare i loro locali per conquistare la loro simpatia e indurli ad ascoltarci.
Quando parlo di relazione intendo dire che l’insegnante riesce a salvarsi dal senso di frustrazione e fallimento e riesce a in-segnare ai suoi alunni un orizzonte di Senso, solo se si rende disponibile a scoprire e ad accogliere la persona che gli si pone davanti in tutta la sua interezza. Possono senza dubbio manifestarsi tra alunni e insegnante una antipatia o simpatia iniziale, una fiducia o sfiducia anche reciproca, diffidenza, insofferenza…ma l’insegnante che non vuole naufragare insieme a tutta la sua classe deve avere l’apertura e la disponibilità a mettersi in ascolto dell’altro, a lasciarsi interpellare dalla persona con cui ha a che fare e soprattutto concedersi e concedere all’altro il tempo.
Tempo per scoprirsi, per conoscersi, per farsi conoscere.
E’ il tempo di un anno scolastico che Pierre Mazard e Neilah sono costretti a condividere che li porta a conoscersi, a veder sgretolare le proprie solide convinzioni e ad avvicinarsi l’uno al mondo dell’altra. E’ il tempo lungo di un mese senza social, che permette a Veronica, la protagonista del libro di Fernando Muraca, di cambiare i nomignoli di amici, presunti tali e professori.
Ed è solo col tempo necessario a costruire la relazione che l’insegnante si trasforma in un educatore: colui che è capace di intravedere la bellezza e le potenzialità delle persone che gli sono affidate e non può permettere che queste rimangano sepolte, perché nella relazione si scopre a voler loro bene, a volere il loro bene.
Come emerge chiaramente dalla figura del prof. Mazard in “Quasi nemici” e da quella della prof.ssa La Balena Bianca, nel libro “Liberamente Veronica”, l’educatore non si accontenta di far lezione, di trasmettere quello che sa, ma si fa esigente, è sfidante, è provocatorio, tanto da risultare antipatico e non essere compreso nelle sue assurde intenzioni (“ti sfido a non usare i social per trenta giorni”, “ti sfido a recitare sulla metro attirando l’attenzione di tutti”…). L’insegnante che si fa educatore non molla: sa che nel gioco al rialzo che propone c’è l’ambizione di far emergere la dignità di quella persona, di allenare la sua volontà a raggiungere le mete sognate, di far crescere la sua autostima.
L’esperienza di questi due anni di vita del Centro Studi per l’Educazione racconta però come sia urgente e vitale per gli insegnanti affrontare questo viaggio insieme, trovando uno spazio in cui riflettere, nel senso proprio del termine di fare da specchio gli uni agli altri. Uno spazio in cui aiutarsi, imparare reciprocamente, riconoscere come la propria professionalità sia costantemente in crescita e sia inevitabilmente senza regole, perché le regole del gioco si inventano ogni giorno nella relazione con l’altro, che è sempre diverso, come diversi sono gli alunni, come diverso è lo stesso alunno, ogni giorno che passa, come diversi siamo noi, resi di giorno in giorno più umani dai nostri ragazzi.
Insomma, cara signora sotto l’ombrellone, cosa vuole che le dica? Ha proprio ragione lei: l’insegnamento è un mestiere per gente coraggiosa!
Silvia Spillari