Apr 29, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
In occasione del centenario della morte di Dante, un secolo fa Benedetto Croce scrisse il saggio Poesia e non poesia in Dante, sostenendo che accanto a brani lirici di imponente grandezza (Farinata degli Uberti, il conte Ugolino, Ulisse ecc.) il resto del poema si potesse considerare tessuto connettivo con divagazioni filosofiche e teologiche del tutto obsolete. Il saggio era funzionale alla concezione estetica del Croce, ma non coglieva l’essenza della concezione dantesca. La sua Commedia è una solida architettura di idee che ha operato la sintesi tra la cultura classica e il mondo cristiano.
La struttura presenta un canto di introduzione e tre cantiche di trentatre canti ciascuna racchiusi in rigorosa terza rima. Compaiono centinaia di personaggi che con la loro storia personale soddisfano la fame di conoscenza del poeta e qualche volta vengono incontro al suo desiderio di vendetta. Il poema è una cattedrale di idee, folto di statue, ma senza nascondere la rigorosa architettura gotica sottostante, lo stile architettonico più innovativo rispetto all’antichità classica.
Dante è vissuto nel XIII secolo, per certi aspetti il più glorioso della cultura italiana. Il secolo inizia con san Francesco, un uomo moderno nel senso che somiglia più a noi che agli uomini dell’età classica. È il primo che si accorge del paesaggio, degli animali, della realtà che lo circonda, dove tutte le cose proclamano di non essersi fatte da sé, perché le ha fatte un altro, Dio, che perciò merita ogni attenzione. La notizia più importante è che Dio si è fatto uomo per condurre l’uomo a Dio. Il presepio di Greccio aveva il valore di una testimonianza totale: rievocare il Natale come era avvenuto la prima volta a Nazaret in Palestina.
Il secolo prosegue con san Tommaso d’Aquino, l’intellettuale più rigoroso che viene conquistato dal realismo di Aristotele. In quel momento, specialmente a Parigi, di Aristotele si apprezzava la logica e la filosofia della natura. Tommaso e il suo maestro Alberto Magno sono convinti che la grandezza di Aristotele vada cercata soprattutto nella metafisica e nell’etica in grado di umanizzare gli usi e costumi ereditati dalla società germanica.
Dante crebbe in una Firenze dominata dalla fazione dei Guelfi: Federico II era morto nel 1250 e il figlio Manfredi nel 1266, nel corso della battaglia di Benevento che cancellava la rotta dei Guelfi avvenuta a Montaperti nel 1260, quando fu solamente Farinata degli Uberti a impedire che Firenze venisse rasa al suolo. Il partito dei Guelfi era dominato dall’affarismo più scatenato. Uniche oasi concesse alla cultura erano gli Studia generalia dei Domenicani a Santa Maria Novella e dei Francescani a Santa Croce dove venivano discusse le tesi di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura mediante lezioni aperte al pubblico e frequentate anche da Dante. Questi apparteneva a una famiglia che possedeva due poderi, ma vantava la presenza di un trisavolo cavaliere, Cacciaguida e perciò in qualche misura aristocratica, perché non amava i “súbiti guadagni” di chi “Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene”.
Dante è essenzialmente un autodidatta. Certamente ci furono alcuni soggiorni di studio a Verona nei primi anni dopo l’esilio, dove poté esaminare i codici della biblioteca capitolare e a Bologna, sede della più famosa facoltà di diritto civile. In Firenze, il personaggio più in vista era Guido Cavalcanti che aveva fama di filosofo. Dante sentiva che la sua posizione era tra gli aristocratici, coloro che in guerra andavano a cavallo, mentre in tempo di pace poteva partecipare ai tornei letterari suscitati dall’entusiasmo per il “dolce stil nuovo” che aveva eclissato la fama della scuola poetica siciliana. Il frutto maturo di questa stagione è la Vita nuova, il mirabile libretto in versi e in prosa che fece di Dante il più promettente letterato della città.
Col nuovo secolo, Dante si impegnò anche in politica, ma il suo insuccesso fu completo. Assistette allo scontro delle fazioni interne ai Guelfi, ossia tra Bianchi e Neri, i partiti che facevano capo ai Cerchi e ai Donati. Dante non apparteneva al partito dei Donati che risultarono vincitori. Essi si affrettarono a imbastire un processo per baratteria terminato con la condanna a morte di Dante che per due mesi aveva esercitato la carica di priore. Il poeta si trovava fuori di Firenze e vi rimase per il resto della vita. I fuorusciti Bianchi tentarono per qualche anno di radunare un esercito formato dai feudatari del Casentino, ma senza successo. Dante, deluso dalla politica, decise di “far parte per se stesso”, conquistato da un progetto filosofico. Gli uomini sarebbero sempre rimasti fuorviati se non partecipavano a un convivio di sapienza che li scampasse dall’errore. Iniziò il progetto del Convivio che doveva essere un trattato in lingua volgare composto di quattordici canzoni, ciascuna seguita da commento, più un trattato introduttivo. Dopo quattro canzoni il progetto si interruppe. Si deve supporre che Dante sia rimasto folgorato dal progetto della Commedia, un poema a cui avrebbero posto mano “e cielo e terra” per spiegare a tutti in lingua volgare, ma con l’allettamento del verso, la filosofia di san Tommaso d’Aquino e di san Bonaventura, in grado di ricondurre Chiesa e Impero nel proprio ordine razionale, assicurando agli uomini la pace e la felicità. Sembra che i primi sette canti dell’Inferno siano stati composti intorno al 1304 e i critici ritengono che siano canti tipicamente fiorentini.
Dante scriveva un ottimo latino che impiegò per il De vulgari eloquentia e per il De monarchia, ma non era un umanista alla maniera del Petrarca che cercava la gloria con la poesia latina.
Dante perciò è poeta-filosofo perché si propone di rendere accessibile la conoscenza della filosofia esposta in latino da san Tommaso anche a coloro che non conoscono quella lingua. Gli episodi lirici della Commedia hanno il compito di attirare mediante drammatizzazione l’attenzione del lettore, ma perché accolga la conclusione filosofica e teologica del problema affrontato.
Se chi legge la Commedia fosse serio, al termine della lettura del poema dovrebbe apparire una persona trasformata in radice. Proverebbe ripugnanza di appartenere al gruppo degli ignavi che non scelgono né il bene né il male, finendo come “color che non fur mai vivi”, rifiutati anche dall’Inferno. Inoltre il sapiente lettore saprebbe che nell’Inferno i dannati sono divisi secondo il loro peccato più grave. Si può peccare per debolezza, per malizia o per matta bestialità. Nello stesso girone vengono condannati alla medesima pena coloro che hanno mancato gravemente contro una virtù. Infatti, la virtù è come il culmine tra due bassi avvallamenti occupati dai vizi per eccesso e per difetto. Ad esempio, il coraggio è il culmine tra la codardia di chi teme anche la propria ombra e la temerarietà di chi presume di sé e si espone per spavalderia a pericoli inutili. La pena segna il contrappasso rispetto alla colpa: i golosi che in vita si sono dedicati alla scoperta di sapori sottili e rari, trascurando la sobrietà del cibo e della bevanda, sono condannati a vivere in “grandine grossa, acqua tinta e neve/ per l’aere tenebroso si riversa; / putre la terra che questo riceve” (Inf. VI, 10-12).
Forse è bene capirsi. Da due millenni e mezzo c’è l’accordo, e non solamente in occidente, che un uomo vale per le qualità possedute. Ne esistono quattro –prudenza, giustizia, fortezza, temperanza- che risultano fondamentali perché ogni altra qualità umana si può ascrivere come parte potenziale a una di quelle citate. Tali virtù si acquistano con la costante ripetizione degli atti corrispondenti e si perdono con la loro omissione. Non può essere considerato virtuoso un uomo carente in modo grave anche di una sola delle virtù indicate.
Alasdair McIntyre con un libro divenuto famoso, Dopo la virtù, dimostrò che non esiste una fondazione filosofica della morale più valida di quella presente nell’Etica nicomachea di Aristotele.
Dante è vissuto in una città dilaniata dai contrasti tra partiti guidati da famiglie rivali, ha assistito all’incendio delle case dei nemici politici, alla loro cacciata in esilio, ai loro tentativi di rientrare alla testa di un esercito che a sua volta avrebbe cacciato dalla città i perdenti di oggi. In termini monetari si potrebbe affermare che le spese di guerra, notoriamente improduttive, erano infinitamente superiori ai profitti che si potevano sperare e perciò risultava spaventosa la condizione della Romagna “che non è mai sanza guerra nel cuor dei suoi tiranni”. La geografia dell’Inferno, con la presentazione icastica dei dannati sottoposti alla legge del contrappasso diventa la più splendida dimostrazione della verità della filosofia di san Tommaso d’Aquino, divenuto il più grande interprete di Aristotele.
Il Purgatorio è un’esigenza di ragione: se in Paradiso si entra solamente quando i conti con la giustizia sono stati pareggiati, occorre il soggiorno in un luogo di purificazione che renda ciascuno “puro e disposto a salire alle stelle”. I personaggi qui incontrati da Dante e Virgilio rivelano il rimpianto del tempo perduto per non aver aderito a un programma razionale di vita. Ora si trovano a dover ascendere la montagna dalle sette balze, ossia la purificazione dalle scorie del peccato. Incantevole l’episodio di Casella il cui amoroso canto fa dimenticare per un poco alle anime di “ire a farsi belle”, sollecitate dal rimprovero di Catone: “Che è ciò, spiriti lenti?/ qual negligenza, quale stare è questo?/ Correte al monte a spogliarvi lo scoglio/ ch’esser non lascia a voi Dio manifesto/: nel corso della vita terrena solamente l’arte è in grado di consolare e riempire la vita di un uomo.
Virgilio conduce Dante fino al culmine della montagna, metafora della ragione che conduce ogni uomo ad ammettere la possibilità dell’esistenza di Dio. Dante con ogni probabilità poté riflettere sull’affermazione di san Tommaso d’Aquino che non si deve credere per fede ciò che si può comprendere facendo uso della ragione. Esiste perciò la teologia che è lo sforzo della ragione umana per introdursi nel mistero divino reso manifesto dalla fede, che a sua volta risulta dalla piena adesione dell’uomo alla rivelazione divina. Dante perciò affronta il giudizio circa le tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Superato l’esame può entrare nel Paradiso e salire fino all’Empireo passando attraverso il cielo della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove e di Saturno. Infine, preceduto dalla supplica di san Bernardo di Chiaravalle alla Vergine, viene ammesso all’ultima visione, a contemplare il mistero della Trinità.
La grandezza di Dante filosofo e d’aver rispettato i campi di competenza altrui: egli considera come il suo peggior nemico Bonifacio VIII, ma ne contesta solamente le scelte politiche che non condivide, senza rifiutare la religione del papa inventandone una nuova. Quando Enrico VII accenna a rivendicare i diritti del Sacro Romano Impero, Dante si pone immediatamente al suo seguito indicando quali sono i diritti dell’Impero. L’Imperatore ha ricevuto direttamente da Dio il potere e deve provvedere al bene della pace superiore ad ogni altro per la vita dei cittadini. Papa e Imperatore hanno il compito di assicurare a ciascun uomo, il primo la vita eterna e il secondo la felicità sulla terra. Perciò Papa e Imperatore devono collaborare, essendo ciascuno autonomo nel proprio ambito di competenza. Nella realtà le cose andarono diversamente. Enrico VII venne in Italia, alcuni comuni lo rifiutarono, il papa si trovava ad Avignone e non andò a Roma per l’incoronazione, mentre vi andò Roberto d’Angiò re di Napoli per impedire ad Enrico VII di rafforzarsi in Italia. Infine l’imperatore morì nei pressi di Siena lasciando ogni cosa più confusa di prima. Dante perdette definitivamente la possibilità di ritornare a Firenze, dovette “salire e scendere per l’altrui scale” imparando “quanto sa di sale il pane” così ottenuto. Trovò rifugio presso Can Grande della Scala a Verona e da ultimo a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove concluse la redazione del Paradiso.
Prof. Alberto Torresani
Apr 29, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Nel 2021 ricorre il VII centenario della morte di Dante Alighieri, il sommo Poeta che più di tutti ha “sdoganato” la lingua italiana e ha consegnato ai posteri uno dei più grandi capolavori dell’intelletto umano.
Uomo del suo tempo, pienamente inserito nella realtà sociale, politica e culturale del Medioevo, Dante si è tuttavia fatto interprete delle immortali aspirazioni del cuore e della mente dell’uomo.
Prof. Rizzi, sappiamo che lei utilizza molto – e con grande profitto – la Divina Commedia nelle sue lezioni con alunni della scuola secondaria di I grado. Come riesce ad entusiasmare i ragazzi del III millennio all’opera dantesca, così lontana dai loro riferimenti culturali?
«Nel mezzo del cammin di nostra vita…» sembra un incipit rivolto primariamente a persone già ricche di esperienze e con anni alle spalle, ma Dante voleva essere davvero così “esclusivo” o avrebbe avuto il piacere di sapere che il suo testo interpella e coinvolge anche i più giovani o addirittura i giovanissimi? Effettivamente quest’anno con i ragazzi di una seconda secondaria abbiamo intrapreso il viaggio che Dante ha inaugurato e di cui si propone come guida: per me è stata la prima volta che mi capitava di provare a rendere destinatari della “Divina Commedia” dei ragazzi di dodici anni. Indubbiamente all’inizio dell’anno, durante il periodo delle “fatidiche” programmazioni, avevo qualche dubbio su come potesse essere recepito e accolto questo testo, cioè sulla possibilità per ragazzi della scuola secondaria di primo grado di avere gli strumenti e le capacità per, non solo comprendere, ma anche apprezzare – e magari anche entusiasmarsi – per le terzine più famose della letteratura italiana. L’opportunità e l’efficacia della proposta, mi sono detto, passerà inevitabilmente dalla capacità di intercettare un loro interesse, una loro domanda o semplicemente una loro curiosità. Dante può rappresentare un punto di attrazione per i giovanissimi oppure come i tanti oggetti “culturali” (musei, mostre, conferenze, ecc.) alle loro orecchie il solo nome o la sola proposta produce un immediato calo dell’interesse e un crollo, quasi spontaneo, della loro attenzione? Tanti sono gli elementi che potrebbero scoraggiare quest’occasione che abbiamo scelto di perseguire quest’anno: l’ostacolo linguistico, la non immediatezza di alcuni temi trattati, la difficoltà oggettiva di alcuni contenuti, la lontananza storica, culturale delle vicende narrate, ecc. A ciò si deve aggiungere il fatto che parlare oggi a un ragazzo di seconda media di poesia significa, di fatto, perdere il contatto comunicativo: come iniziare a parlare in un’altra lingua, oscura e incomprensibile, e per giunta di scarso interesse. La poesia – queste sono le percezioni emerse più volte dai ragazzi – è lenta, “faticosa”, noiosa e i poeti sono inutilmente complessi, orgogliosi dei loro giochi di parole e completamente ripiegati su una sorta di sentimentalismo vuoto ed emotivo, un inno soggettivo e melanconico di un malessere di cui, sinceramente, se ne può fare anche a meno. MA – e questo ma vuole richiamare quello che spiega il motivo per cui Dante ha desiderato raccontarci il suo viaggio, forse il “ma” più importante della letteratura italiana: «MA per trattare del ben ch’i vi trovai, / dirò delle altre cose ch’i’ v’ho scorte» – i ragazzi a questa età sono appassionati di storie e sono avidi di esperienze. Storie, insomma, quelle in cui loro sguazzano quotidianamente e in cui sono totalmente immersi: i videogiochi ormai onnipresenti e che potrebbero essere considerati, a dirla grossa, i romanzi della nostra epoca; i social, con le “storie” di Instagram o i video di Youtube. Allora la domanda diventa: la storia di Dante può strappare dagli schermi la loro attenzione e accendere la loro curiosità? Come sempre, infatti, dipende dalle storie che si scelgono di raccontare: a me sembra che Dante abbia scritto “LA” storia che, se ben adattata, non può lasciare indifferenti. Adattamento: utilizziamo un testo in prosa con numerosi riferimenti alle terzine originali e, a volte, concedendoci il piacere di qualche episodio completo dall’”originale”. L’approccio narrativo, le storie dei singoli personaggi, i numerosissimi argomenti che scaturiscono dalla lettura sono gli ami che, una volta lanciati, prendono i ragazzi nella rete delle curiosità, delle domande, di un apprendimento che non nasce da un’imposizione esterna e si traduce solo in un mero accumulo di nozioni, ma una voglia di sapere che mi sembra possa essere considerata il vero obiettivo dello studio della letteratura. In più, aggiungerei il fatto che, sebbene oggettivamente alcuni contenuti siano difficili e distanti dalla loro esperienza quotidiana, il fatto di proporgli un testo “arduo”, di alzare un po’ l’asticella dell’ostacolo da saltare, ha prodotto una sorta di sfida rispetto alla quale i ragazzi di dodici anni – sì, anche quelli “di oggi” – non si sono tirati indietro. Anzi, in conclusione, direi che prenderli sul serio, trattarli da “grandi”, forse è proprio quello che cercano maggiormente e di cui hanno bisogno a questa età.
Quali sono i feedback che riceve dagli alunni durante e dopo le sue lezioni? Mi spiego meglio: riescono i contenuti dell’opera dantesca a “fare breccia” nelle menti e nei cuori dei suoi giovani allievi?
In un tema, nel quale ho chiesto loro di scrivere in merito a quale argomento avesse colto di più la loro attenzione, le “storie” che hanno generato più sorpresa (ma si potrebbe dire anche paura, commozione, ribellione, ecc.) sono state quelle degli Ignavi e quella del Conte Ugolino. Degli Ignavi colpisce come essi, non avendo scelto né il bene né il male, proprio per questo motivo, si trovino «a Dio spiacenti e a’ nemici sui», esclusi anche dall’Inferno. La prima volta che ho letto questo brano a ottobre sono stato letteralmente travolto da domande: moti di indignazione, domande esistenziali (“Non vado a Messa spesso né faccio nulla di male: perciò finirò in questo gruppo?”), considerazioni svariate sul perché e il percome Dante avesse fatto bene/male a creare questo specie di sottogruppo rigettato da tutti e punito in un modo così orribile e repellente. Anche durante il corso dell’anno questo episodio è stato uno di quelli che maggiormente ha “fatto breccia” ed è stato più volte richiamato all’attenzione e alla memoria. Per esempio in occasione del Dantedì a scuola abbiamo proposto alcune letture di Dante e il brano più scelto dai ragazzi è stato proprio questo. Molte altre vicende dell’Inferno hanno “fatto breccia”: Paolo e Francesca, Pier Delle Vigne, Ulisse, il Conte Ugolino e Lucifero. Indubbiamente l’Inferno è quello che ha attirato di più e che ha prodotto maggior curiosità. Ho percepito l’emozione sincera di alcuni ragazzi alla lettura del brano sul Conte Ugolino (un ragazzo è andato a Pisa in quei giorni e mi ha contattato online solo per dirmi che aveva visto la Torre della Fame), ho colto la curiosità di vari alunni nel vedere Dante mettere il suo maestro all’Inferno o nel vedere la forza con cui condanna uomini di Chiesa e alcuni papi. Seguire le storie dei personaggi, permettere loro di raccontarle e di riscriverle, chiedere la loro opinione: tutte modalità didattiche che sono servite a coinvolgerli e a mantenere vivo il contatto con il testo. Tre esempi concreti che hanno permesso di mantenere accesa la loro attenzione nel corso della lettura; potremmo intitolarli: “Trova la legge del contrappasso”, “Improvvisati un nuovo Dante”, “Leggi, rileggi e…impara a memoria”. La curiosità di vedere le pene dei dannati ha portato la stragrande maggioranza della classe a procedere in autonomia nella lettura per vedere la pena successiva: più di metà della classe aveva concluso la lettura dell’Inferno quando ancora in classe stavamo commentando le Malebolge. Scoprire la pena, saper spiegare il contrappasso, conoscere la struttura dell’Inferno (mi sono servito anche di qualche tavola e di qualche video), spiegare i diversi tipi di peccati, la loro tipologia e le loro caratteristiche, il “protagonista” di questo o di quell’episodio, sono stati gli elementi che hanno catturato la loro curiosità. Mi sono divertito molto nel leggere alcuni temi che gli ho assegnato in cui dovevano, per esempio, raccontare un certo episodio immedesimandosi in un personaggio dantesco oppure inventare una nuova pena per una categoria di peccatori contemporanea che a loro parere Dante avrebbe inserito nella Commedia se l’avesse scritta oggi. Vederli scrivere dei testi, tentando di mantenere il sapore dantesco, catalogando come traditori i cyber-bulli, condannando le slealtà quali le mormorazioni, le prese in giro o denunciando il razzismo…mi sembrano esempi significativi di come, sul modello di Dante, si possa prendere posizione rispetto ad alcuni comportamenti, la cui maggior consapevolezza li potrà aiutare nel mantenersene a distanza. Poi certo c’è stato anche chi si è divertito a descrivere le pene più crudeli per chi non studia o per coloro che non tifano una certa squadra, ma questo fa parte del gioco. Ho trovato molto utile, e mi sembra sia stato apprezzato, anche il fatto di imparare alcuni brani a memoria per poi recitarli: l’iscrizione sulla porta dell’Inferno, il discorso di Ulisse, la preghiera di san Bernardo…o addirittura un intero canto! Ho lanciato quest’ultima sfida durante la prima lezione e so che c’è qualcuno tra gli studenti che ci sta provando…vedremo nel prossimo mese
Quale reazione suscita l’aldilà in ragazzi abituati a una visione tutt’altro che trascendente, immersi costantemente nel presente?
Mi viene in mente una barzelletta in cui la maestra chiese alla classe chi tra gli studenti volesse andare all’Inferno: tutti gli alunni impauriti e timorosi rimasero al loro posto senza fiatare né alzarono la mano. Allora la maestra riprese: «Chi vuole andare in Paradiso?». Tutti nella classe risposero in fretta sbracciandosi e urlando uno sopra l’altro: «Io, io!». Solo Pierino non aveva mosso ciglio e non aveva alzato la mano a nessuna delle votazioni. La maestra preoccupata gli chiese: «Pierino, tu non vuoi andare in Paradiso?» e Pierino le rispose: «Per la verità, per ora, sto bene anche qua!» I ragazzi, nonostante le apparenze, pensano molto all’aldilà, e mi sembra che vadano presi sul serio, senza storielle o favolette che non accontentano più, non bastano alla loro età. Cercano spiegazioni, chiedono perché, vogliono, e a volte esigono, da genitori e professori o educatori in genere, la verità. Molti durante quest’età hanno già conosciuto la morte o la sofferenza perché magari hanno perso qualche persona cara: i nonni, una zia, il vicino di casa o un conoscente di famiglia per qualche incidente. Credo sia doveroso provare ad aiutarli a darsi delle risposte, sapendo che le domande sulla morte o sulle realtà ultime già le coltivano in modo vivo e personale. Credo che la Divina Commedia li possa aiutare a formarsi un pensiero, a riflettere sul bene e sul male, a mettersi in discussione: il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Ecco credo che Dante aiuti a non rimanere indifferente, a porsi domande, a non accontentarsi. Il problema della mancanza di trascendenza non è dentro gli alunni, ma è fuori di loro ed è così invadente questa sorta di appiattimento sull’oggi, sul possesso, sul “mio”, che penso che Dante possa solo essere un’occasione in più per ciascuno per alzare lo sguardo e gustarsi un po’ il panorama e cercare l’orizzonte. Viva Dante se riesce davvero a scuotere un po’ le rassicuranti, quanto ingannevoli, certezze della comodità e di un certo clima consumistico e egocentrico! Viva Dante se riesce a restituire un poco di interiorità e di capacità critica e di riflessione! Viva Dante se si generano discussioni e nascono occasioni di confronto su che cos’è il bene e che cos’è il male, su chi è l’uomo e chi è Dio. Direi che Dante può stimolare ad avere prospettiva, e non solo in una dimensione di fede, anzi direi che prima ancora incoraggia una riflessione a partire semplicemente da chi è l’uomo, da quali siano i suoi desideri e come questi si possano configurare in un orizzonte ampio di senso. I ragazzi di dodici anni frequentemente sono abituati a stare in superficie (spesso è la superficie di qualche schermo che diventa un filtro che può separarli o allontanarli irrimediabilmente dalla realtà stessa) e non sono abituati a scendere in profondità e a coltivare uno spirito riflessivo, tanto da diventare assuefatti o anestetizzati rispetto a ciò che li circonda. Sembrano indifferenti (solo sembrano!), ma bussando al cuore con la potenza del racconto di Dante credo che naturalmente si sentano scossi, messi in discussione, e diventino perciò attivi e partecipi: durante le lezioni molte volte, senza che io lo stimolassi, proiettavano ciò che leggevano sulla loro vita e molte volte sono venute fuori domande più esistenziali e cariche di significato. Direi che Dante incoraggia a guardarsi dentro e ciò è utile ad ogni età, particolarmente efficace in un’età in cui i ragazzi strutturano i primi “esperimenti” di pensiero critico e iniziano a prendere decisioni in autonomia.
Nella recente lettera apostolica Candor lucis aeternae, papa Francesco parla della vita di Dante come “paradigma della condizione umana”. È d’accordo con questa affermazione?
Intanto mi ha fatto molto piacere costatare che anche Papa Francesco abbia dedicato attenzione all’anniversario dantesco. Sono convinto che lo stile “pastorale” di questo pontefice abbia intravisto in Dante un elemento di dialogo, un terreno fertile di semina e di confronto con l’uomo di oggi. Se è vero che la letteratura fa vivere le grandi storie in quanto esse sono espressione e simbolo dell’aspetto più profondo dell’umanità (e proprio perciò esse hanno la capacità di interrogare l’uomo di ogni epoca), allora credo che il Papa abbia desiderato, non solo unirsi ai cori di omaggio al Sommo Poeta, ma anche cogliere l’opportunità per incoraggiare l’uomo di oggi alla speranza cristiana. Lasciar parlare Dante attraverso la bellezza dei versi della Commedia perché essa “attrae” – un’altra parola chiave per Papa Francesco – e offre, allo stesso tempo, un cammino e una luce di speranza. Per dirla con Dostoevskij: «Lo conoscevi questo segreto? Ciò che fa paura è che la bellezza non sia soltanto spaventosa ma anche misteriosa. Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo». La bellezza, anelata e cercata da ogni uomo, – come il bene e il buono – spalanca le porte alla gioia ed è Dante stesso a confermarcelo, quando ormai arrivato alla fine del suo viaggio nell’Aldilà, nella festosità della rosa dei beati, intravede la Madonna e La descrive con parole semplicissime ma dense di significato: «Vidi ridere una bellezza». Per me questa è la sintesi più potente per raffigurarci il Paradiso, l’esito finale del viaggio «da l’infima lacuna de l’universo» alla visione stessa di Dio, a cui Dante ci stimola a guardare e a cui il Papa ci incoraggia a fare affidamento con fiducia. “Siamo nati e non moriremo mai più”, è uno degli appunti di Chiara Corbella Petrillo, una giovane madre e sposa prossima alla beatificazione (consiglio la lettura della commovente biografia): è un’altra testimonianza forte e audace di chi ha già percorso questo cammino.
Daniele Marazzina
Mar 25, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
L’istituto superiore Alle Stimate, grazie alla collaborazione con il maestro e attore di teatro Ermanno Regattieri, ha avviato un percorso laboratoriale proposto ai ragazzi di prima superiore, allo scopo di potenziare la comunicazione verbale e corporea.
Il laboratorio, intitolato dal maestro Regattieri “Teatro e(è) comunicazione”, si è articolato in un ciclo di dieci appuntamenti mattutini, uno alla settimana e della durata di circa un’ora, e ha avvicinato gli studenti alla disciplina teatrale, partendo dalle basi di riscaldamento e rilassamento, per poi passare all’equilibrio, alla postura e al punto fisso teatrale.
L’obiettivo principale del corso è stato quello di mostrare agli allievi lo stretto legame tra il “fare teatro” e il comunicare quotidiano. Ad ogni incontro, la classe si è cimentata in esercitazioni riguardanti il ritmo e la concentrazione, stimolando conoscenza e memoria.
Ciascuna prova si focalizzava su un aspetto specifico, via via aumentando in complessità: la consapevolezza della propria presenza individuale in quanto corpo e l’espressione di gesti volontari o spontanei si sono rivelati la scintilla di riflessione di concetti quali essenza e motivazione.
Da un punto di vista educativo, i ragazzi hanno partecipato ad un’esperienza di gruppo che ha favorito non solo la coesione della classe nella sua interezza, ma anche l’integrazione dei singoli, il rispetto dei tempi dell’altro e il valore dell’ascolto.
Muoversi, agire, parlare insieme in una determinata superficie ha facilitato quell’intreccio di coordinazione e relazione che vivono giornalmente nella realtà.
Ogni studente con la sua personalità ha affrontato le diverse fasi del percorso, ampliando il suo bagaglio caratteriale ed emotivo: obiettivo comune si è rivelato essere la ricerca di un ruolo all’interno della collettività, assumendo particolari modelli comportamentali a seconda del bisogno e della situazione.
Il ragazzo timido, abituandosi e adattando la sua capacità comunicativa, si è sforzato di aprirsi maggiormente e di esprimere la propria opinione; l’alunno vivace, a sua volta, ha appreso l’importanza del controllo studiato a favore di un messaggio più incisivo. Entrambi hanno messo in atto alcune strategie e hanno superato quelle dinamiche di timore provocate dal giudizio spesso discriminatorio e dall’idea di essere diversi, quindi strani e incompresi. Mediante i dialoghi e i lavori di gruppo, inoltre, gli studenti hanno intrecciato tra loro nuove relazioni, superando in parte quel senso di vergogna tipico della loro età.
Alla comunicazione gestuale è seguita quella verbale: giocare con suoni, parole e frasi, associati ad un’azione o meno, ha dimostrato come, in teatro come nella vita, i linguaggi a nostra disposizione siano molteplici, sebbene la lingua utilizzata sia generalmente una e uguale per tutti.
Esercizi di lettura espressiva ed interpretazione, così come improvvisazioni libere e guidate, hanno permesso lo sviluppo di sensazioni e creatività, in un’atmosfera serena e ludica, priva di valutazioni, nella quale il “copiare” non viene criticato negativamente.
Il compito da svolgere? Abituarsi a comunicare e a dare peso espressivo ai discorsi. In tal modo, ogni ragazzo o ragazza saprà trasmettere con maggior efficacia non solo un’idea ma anche la propria personalità. Non si tratta di un percorso semplice: impegno, coraggio, pazienza, fantasia sono i principali ingredienti. Mettersi a nudo, anche solo un pochino, non è mai scontato, adolescenti e adulti compresi.
Tuttavia, se la classe si trasforma da pubblico giudicante a squadra, allora, in quell’istante, rivelarsi per ciò che si è ci permetterà di offrire agli altri, ma soprattutto a noi stessi, un’immagine positiva e genuina. Sarà emozionante e liberatorio.
Laura Luciani
Mar 25, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
In quest’ultimo anno sono diversi gli ambiti che hanno subito forti limitazioni. Certo la scuola ne sta risentendo, ma anche una forma importante di educazione e formazione: la rappresentazione teatrale.
Ne abbiamo voluto parlare con Alessandro Anderloni, ben conosciuto nel territorio veronese, regista e autore teatrale cui abbiamo voluto porre alcune domande:
“Scuola e teatro”: due mondi diversi ma le cui strade si intrecciano. Spesso lei ha portato le scuole a teatro e il teatro nelle scuole: quali frutti possono nascere da questo connubio?
Nel marzo del 2020 ho dovuto interrompere, bruscamente e con incredulità, sette laboratori teatrali nelle scuole. Non avrei mai pensato, allora, che a causa del Covid-19 per un anno non avrei più rivisto le aule, le palestre, i cortili dove giocavo al teatro con centinaia di bambini e bambine, adolescenti e giovani. Nel 2020, dopo venticinque anni, per la prima volta, ne mese di maggio non ho portato in scena alcuno spettacolo. Ricordo che in quei giorni mesti ho iniziato a contare i giovani attori e le giovani attrici che ho incontrato nel mio cammino di teatro a scuola: ho superato i 4.500 e poi mi sono fermato.
C’è una differenza tra il teatro con le scuole e il teatro per le scuole. Le produzioni di teatro per le scuole sono, nel panorama italiano, molte e di buona qualità. Scarseggiano, in vero, spettacoli pensati nello specifico per la fascia d’età dai 16 ai 18 anni. Straripano invece gli spettacoli dedicati alle scuole primarie, spesso con esiti ottimi, altre volte senza grandi risultati artistici. Non ci si improvvisa, come spesso si è portati a pensare, a far teatro per i bambini e gli adolescenti. Non sono una categoria di grado inferiore. Anzi, sono un pubblico esigente, attentissimo, onesto, spietato. E chiunque abbia provato ad andare in scena davanti a un teatro colmo di bambini e ragazzi ne sa qualcosa, e spesso lo ha pagato sulla sua pelle, con grida, risate, perfino rivolte dal pubblico. Dovrebbero imparare dai ragazzi gli adulti, laddove applaudono e lodano spettacoli per piaggeria verso il regista o l’attore o l’attrice di turno, la “diva” della TV, il fenomeno da social network. Ai bambini non ne cale: chiunque tu sia, o sul palcoscenico funzioni o non meriti il tempo e l’attenzione che sono pronti a darti se invece li convinci. Il teatro per le scuole, dove non si riduca a un pacchetto confezionato, è il banco di prova delle storie e di chi le sa raccontare, scava nella professione del teatrante e si confronta con il più esigente dei pubblici, scrive il futuro della fantasia, dell’immaginazione e della coscienza civica degli adulti di domani.
E il teatro con le scuole?
Se assistiamo a un fiorire di compagnie che si propongono con spettacoli per i bambini, spesso con lauti e giustificati (benché spesso squilibrati) finanziamenti pubblici, i professionisti del teatro che scelgano di fare teatro con i bambini, gli adolescenti e i giovani sono pochi. Come sono pochi, sporadici e provvisori i corsi e i laboratori che le scuole, di ogni ordine e grado, riescono a organizzare e a proporre ai loro studenti. E uso la parola “riescono” non senza motivo, ché il teatro a scuola è lasciato in Italia alla buona volontà, al coraggio, alla fantasia, alla capacità manageriale e alla passione di insegnanti, professori (quasi sempre professoresse) e dirigenti.
Per strade le più diverse, inseguendo bandi, industriandosi e lottando per cercare finanziamenti, trovando quasi sempre pochi soldi, le scuole autonomamente organizzano una delle più preziose attività che l’esperienza di studio può offrire. Non è il caso di ricordare qui i benefici personali e di gruppo che il “gioco del teatro” lascia a chi lo abbia praticato a scuola: sono grandissimi, contribuiscono a risolvere situazioni critiche, formano la personalità, accrescono la consapevolezza, abbattono le differenze, ribaltano gli stereotipi, annullano i conflitti. Potrei continuare, potrei citare nomi, fatti, situazioni, dati. Non c’è corso organizzato da compagnie o da teatri, residenza artistica più o meno articolata, attività a iscrizione o a pagamento che scateni liberi l’energia e coinvolga nel profondo quanto lo faccia un laboratorio a scuola. Perché il teatro a scuola è democratico: non ci iscrive, si viene coinvolti e si fa; perché è libero: non si guadagnano giudizi, non si vincono premi, non si cerca la celebrità; perché è naturale: non ci si esibisce e non si scimmiottano gli adulti come colpevolmente, e con danni enormi, assistiamo in raccapriccianti trasmissioni televisive che trasformano i bambini i marionette cantanti o danzanti per compiacere genitori e spettatori spesso colpevolmente inconsapevoli della violenza che stanno compiendo sui loro figli o i figli altrui.
Ma se la scuola è il luogo privilegiato per fare teatro in giovane età, perché allora sono così poche e sporadiche le esperienze di teatro e così pochi i professionisti della scena che vi si dedicano?
Le due circostanze sono l’una concausa con l’altra. Se alcune scuole faticano, senza che nessun progetto o piano di istruzione ministeriale le abbia mai aiutate, a organizzare laboratori di teatro a scuola, altre pigramente o distrattamente nemmeno ci provano. D’altra parte, se drammaturgi, registi, attori e compagnie sono solerti a imbastire spettacoli per le scuole, molto meno si sobbarcano la fatica, il disagio, l’azzardo, il rischio, la tensione di entrare nella gabbia dei leoncini e delle leoncine. Perché il più blasonato regista che varchi la porta della palestra della scuola di periferia dove lo aspettano venti ragazzi di 14 anni che se ne infischiano del suo profilo su Wikipedia o dei Premi Ubu che ha vinto, si troverà a tirar fuori, se ne è capace, non solo il suo “mestiere” di teatrante ma soprattutto la sua sensibilità, la sua capacità empatica, l’umiltà del confronto e la fermezza della disciplina. E non potrà mentire sulle storie.
Molta della sperimentazione, della così detta avanguardia, dei post-realismi, post-modernismi, pre-futurismi e via discorrendo, a scuola non ingannano nessuno. A scuola non ci sono prestigiose platee davanti alle quali pavoneggiarsi, conciliaboli di appassionati ad osannarti, critici pronti con solerzia a incensarti. A scuola c’è da combattere con gli orari, con la disponibilità delle palestre, con la puzza di sudore dell’ora di ginnastica appena terminata, con i volti di tutti i colori e le mille lingue e le mille culture e provenienze e religioni dei giovani attori e attrici.
A scuola c’è da fare tutto con niente, inventarsi costumi, scenografie e trucco senza spendere i soldi che non ci sono, accondiscendere alla mamma iper-apprensiva che teme che il proprio figlio non riesca a fare gli scalini senza farsi male e perdonare padre che si dimentica delle prove generali del figlio, trovare il luogo per lo spettacolo senza che nessuno te lo metta a disposizione a prezzi accessibili, organizzare i piani di sicurezza e ora anche i piani sanitari. Occorre continuare? Ecco perché si fa così poco teatro con le scuole.
A suo modo di vedere, il teatro giova solo ai ragazzi o può essere uno strumento utile anche agli insegnanti o ai giovani che aspirano a diventarlo?
Il teatro porta nelle scuole una preziosa anarchia, una vitalità incontrollabile, un dinamismo temuto e utilissimo, un sovvertimento delle consuetudini, un rovesciamento delle certezze. Un buon progetto di teatro può cambiare una scuola. E se può cambiare un’istituzione così ingessata, burocratizzata e oggi follemente ossessionata dalla sicurezza (forse è per questo che è così osteggiato “là” dove si decide?) non sarà difficile pensare che potrà cambiare non solo i ragazzi ma anche gli insegnanti. Il teatro costringe a giocare, e riattiva nella scuola il suo ruolo di luogo in cui giocando si impara, si cresce, ci si prepara al futuro. È il gioco che cambia le carte in tavola, laddove il gioco è guidato da professionisti che lo conducono con gli strumenti propri del teatro. Dove sono gli insegnanti o i professori, nonostante la loro buona fede e buona volontà, a fare teatro, i risultati saranno sempre sotto le aspettative. E come un regista non dovrebbe fare il professore, così il professore non dovrebbe pretendere di fare il regista, contendendo così la sua passione ed evitando di scaricare sul teatro a scuola le frustrazioni di una carriera nel mondo del teatro sperata, a cui ha dovuto rinunciare per insegnare. Lasciamo fare il teatro a scuola a chi il teatro lo fa di mestiere.
Ma dal “fare teatro2 gli insegnanti possono apprendere moltissimo. L’espressività della persona, declinata in linguaggio fisico, vocale e spirituale, è il fulcro dell’attività teatrale a scuola e offre a chi insegna un tesoro di conoscenze e tecniche inestimabili. Per un insegnante attento e ricettivo, l’attività teatrale con i suoi studenti, soprattutto quanto sia vissuta non da puro spettatore ma da collaboratore se non da partecipante lui o lei stessa, è un’occasione unica per imparare quello che la scuola o l’esperienza di insegnamento non gli ha mai potuto offrire. Non si tratta di trasformare gli insegnanti in attori dietro la cattedra, ma di attingere dalle tecniche del teatro ciò che, adattato, può essere utilizzato in classe. Si tratta altresì di scoprire come la storia, la letteratura, perfino la matematica si possono insegnare con il teatro. La collaborazione e la fiducia reciproca tra insegnante ed esperto teatrale a scuola sono una miscela dalle possibilità immense, i risultati possibili sono sorprendenti. Nel rispetto dei ruoli, nella disponibilità a collaborare, nascono esperienze indimenticabili, e spettacoli splendidi.
Il 2021, 700° anniversario dalla morte di Dante, sarebbe stata un’ottima occasione per portare i ragazzi a teatro. Tutto è perduto? So che lei non si è dato per vinto e sta proponendo alcune iniziative per celebrare il Sommo Poeta anche in questo difficile periodo. Vuole parlarcene?
Negli ultimi tre anni ho incontrato più di cinquemila studenti e studentesse con Dante. Ho perduto il conto delle conferenze, dei monologhi, dei laboratori nelle scuole, con studenti dai 3 ai 18 anni. Le potenzialità teatrali della Commedia di Dante sono sconfinate. La Commedia, con i suoi novecento personaggi, è teatro, la sua lingua è teatrale, il soggetto, la vicenda, l’intreccio sono una miniera drammaturgica. Dante lo sapeva. Aveva scritto perché la sua Commedia fosse detta e ascoltata, prima ancora che letta. Chi ha provato a raccontarla o a portarla in scena con i più giovani sa quanto sia forte la capacità empatica e di coinvolgimento di questo testo, come scavi in profondo anche nei bambini e nei giovani, se si trovano le chiavi di lettura per toglierlo da pregiudizi scolastici o peggio da gelosie accademiche. Non si può dire che l’Italia, Verona in particolare, abbiano approfittato dell’anniversario dantesco per portare Dante nelle scuole. Attenzione: non Dante per le scuole ma con le scuole. Vedo molti vanitosi in giro, profluvi di letture dantesche con il malcelato desiderio di mettersi in mostra o di dimostrare le proprie abilità recitative o avvalorare la propria conoscenza che quasi sempre si ferma all’Inferno, quando invece ai bambini piace soprattutto il Paradiso con la sua architettura di luce e suono, di speranza e felicità.
Nonostante la quasi immobilità delle istituzioni pubbliche, il silenzio dei comitati ufficiali, l’assenza totale di risorse, a Verona siamo riusciti a portare Dante nelle scuole, e in presenza, stante la drammatica situazione sanitaria. Migliaia di studenti e studentesse, come ho detto, si sono confrontati con la Commedia. Cento bambini e bambine della scuola primaria Rubele da un anno hanno pronto uno spettacolo di teatro e musica su Dante a Verona. Questa pandemia ci permetterà mai di portarlo in scena? Ci ha aiutato, e ne siamo riconoscenti, la Cantina Valpantena producendo per l’occasione la bottiglia “Dante a Verona”. Otto scuole dei quartieri di Veronetta e Porto lavorano con me e con Mirco Cittadini sul progetto “Verona, città del Paradiso” che trecento bambini e bambine racconteranno con un video che sarà presentato a primavera. E il progetto ha il sostegno generoso e lungimirante dell’Assessorato all’Istruzione del Comune di Verona. Io ho detto e dico Dante in decine di istituti superiori di primo e di secondo grado, in provincia e in città. Ma forse è nel Carcere di Montorio, con i detenuti del gruppo teatrale che da sei anno conduco con Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni, dove le Dante risuona più forte. È là che le parole di Virgilio a Catone «libertà va cercando» ci interrogano e ci scaraventano davanti a noi stessi. Dante è molto più in carcere che nelle aule delle accademie.
E se Verona non ha il coraggio, nel 2021, di chiamare la sua piazza come tutti i veronesi e le veronesi già la chiamano, “Piazza Dante”, Poteva almeno risparmiarci di chiudere per quattro mesi Dante in una scatola proprio nell’anno dell’anniversario. Il benemerito restauro della statua di Ugo Zannoni non si doveva forse fare prima e inaugurare la statua restaurata all’aprirsi dell’anno delle celebrazioni? Lo capisce anche un bambino. Ecco, sogno un “Comitato Dante 2021” di bambini e bambine.
Per tutto il 2021 cammineremo con Dante. Centinaia saranno gli eventi del progetto “Dante Settecento”. Seguiteli sulla pagina Facebook: Dante Settecento. Camminate con noi.
Miriam Dal Bosco
Feb 18, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Sono un’insegnante di Scienze Motorie presso l’Istituto Comprensivo Perlasca di Maserà di Padova e allenatrice / giudice di Ginnastica Ritmica presso l’ASD Ginnastica Ritmica Padova.
Con i miei alunni abbiamo studiato la Carta dei Diritti dei ragazzi nello Sport, formata da dieci articoli, che in Italia è stata accettata e firmata il 27 maggio del 1991.
Ci è balzato all’occhio che l’articolo sul “diritto di fare sport” dei ragazzi in questo periodo di pandemia è negato ai “non agonisti”, cioè a tutti quei bambini/ragazzi che prima andavano in palestra, in piscina, nella scuola di danza, ecc… per fare attività motoria di base una o due volte la settimana e che dalla fine di ottobre non possono più farlo; in questo modo sono stati privati di uno dei momenti più importanti per la crescita di un bambino dal punto di vista fisiologico, psicologico, di socializzazione e di salute!
Credo che in un momento drammatico e delicato come questo la scuola abbia il diritto e il dovere di “recuperare” in qualche modo quanto viene “tolto” ai nostri giovani non agonisti.
Maestri e insegnanti di Scienze Motorie, pur nella difficoltà di rispettare i rigidi protocolli (distanza di almeno 2 m in palestra, uso della mascherina, niente contatti, niente spogliatoi, niente palloni, niente giochi di squadra) hanno il dovere di dare la possibilità agli alunni di fare sport!
Con il nuovo anno scolastico ho dovuto cambiare radicalmente la mia modalità di insegnamento, aumentando rispetto al passato lo studio di argomenti teorici, modificando i classici test d’ingresso che ormai facevo da anni; anche il mio rapporto con i ragazzi è cambiato, il Covid unisce e accomuna “sulla stessa barca” dei gesti quotidiani e ripetuti più volte nell’arco della giornata docenti e alunni, ogni classe appare come una piccola famiglia con le sue particolari dinamiche di crescita.
All’inizio dell’anno scolastico svolgevo le mie attività pratiche all’aperto oppure facevamo delle lunghe passeggiate nei paesi limitrofi, poi sono state abolite le passeggiate e per un breve periodo non potevamo andare in palestra (visto che la nostra disciplina era diventata ad alto rischio….) quindi abbiamo dedicato del tempo ad attività teoriche in classe, molto utili ma non sempre gradite a tutti gli alunni.
Alla fine di novembre finalmente abbiamo ripreso l’attività pratica in palestra, ma sempre con regole restrittive e allora ho pensato che la mia passione primaria, la ginnastica ritmica, mi poteva aiutare in qualche modo a fare delle lezioni divertenti e diverse dal solito: il binomio “musica e movimento” era perfetto per dare un po’ di allegria e leggerezza alla lezione ma sempre aggiungendo qualcosa di nuovo, quindi ho cominciato a strutturare in maniera diversa le lezioni pratiche.
Ho proposto ai ragazzi, ciascuno dotato di un telo mare per delimitare il suo spazio e come appoggio per gli esercizi al suolo, un riscaldamento con la musica durante il quale io faccio tutti gli esercizi con loro.
Fin dall’inizio i risultati sono stati superiori alle mie aspettative, infatti tutti gli alunni, maschi e femmine e persino quelli che erano “giustificati” in gradinata, hanno partecipato attivamente all’esperimento, creando un corpo unico al suono della musica, distanti ma uniti dalle note musicali e dai vari movimenti come un’orchestra o un corpo di ballo!
Dopo questa fase di riscaldamento globale ho dedicato sempre 10 minuti ad un allenamento che i
ragazzi possono trovare fra le applicazioni del cellulare (tipo Seven work out) per fare un po’ di preparazione fisica sempre con l’ausilio di un sottofondo musicale e insegnando loro la corretta esecuzione degli esercizi.
Al termine di questa fase la richiesta degli alunni era quella di poter “correre liberamente” e quindi ho dato spazio alle loro richieste facendo piccole gare in coppia e a squadre, studiano i vari tipi di corsa.
A differenza degli anni scorsi, in cui terminavo la lezione con un’attività ludica/sportiva, ho provato a concludere la lezione con alcuni esercizi di stretching e di rilassamento, utilizzando anche delle musiche rilassanti e ancora una volta i ragazzi mi hanno sorpresa, molti mi chiedono questa parte finale della lezione perché vogliono rilassarsi e riposare…..
All’inizio del secondo quadrimestre ho provato ad inserire anche la realizzazione di una coreografia con la musica in cui i ragazzi possono esprimersi liberamente in una piccola parte inventata da loro e in un’altra in cui richiedo loro un’esecuzione sincronizzata degli stessi movimenti, tutto ciò per creare un modo diverso per fare squadra ed aumentare la “sintonia” tra di loro; nelle classi seconde e terze sono arrivata a fare delle piccole “competizioni” degli alunni suddivisi in due squadre con la giuria formata dai compagni: i ragazzi sono stimolati a dare il massimo, si divertono e sviluppano le loro capacità motorie, in particolare quelle coordinative.
Concludendo: anche questo difficile periodo di confinamento e restrizioni è un’occasione per cercare di andare oltre, stimolando fantasia, partecipazione e nuovi modi di aggregazione anche nell’attività fisica per non far mancare ai nostri ragazzi un diritto fondamentale quale quello di fare sport!
Sandra Veronese
Feb 18, 2021 | Articolo di fondo, Newsletter
Nonostante non sia sempre sulle prime pagine, uno delle vittime illustri di questo periodo di pandemia è sicuramente lo sport. Come è cambiato? Quali ripercussioni potremo vedere nella società, nel breve e lungo periodo? Ne parliamo con il prof. Luca Gallizioli, docente di educazione fisica ed allenatore di calcio.
Professor Gallizioli, lei insegna da diversi anni educazione fisica alla scuola primaria e secondaria di primo grado. Essendo una materia quasi esclusivamente pratica, è stata forse la più penalizzata da questo periodo di pandemia.
Ci sono state delle difficoltà nel progettare un piano che permettesse di fare attività, pur rispettando le regole imposte dall’emergenza sanitaria? Se sì, quali sono state? E, allo stesso tempo, avete visto anche dei lati positivi o dei risvolti “inaspettati”?
L’educazione fisica purtroppo ha risentito enormemente di questa situazione legata alla pandemia proprio perché colpita all’essenza della sua natura: lo sport è socializzazione, aggregazione ma anche sfida. L’inizio non è stato facile e la programmazione didattica ha visto numerose revisioni e modifiche; la difficoltà maggiore è stata relativa alla poca chiarezza in merito alle restrizioni e a ciò che era possibile fare (banalmente anche ai luoghi che si potevano usare). Il mese di novembre ha visto addirittura la sospensione di ogni tipo di attività pratica curricolare. Quindi se dovessi pensare alla prima difficoltà direi proprio la mancanza di un protocollo chiaro ed esauriente che permettesse una programmazione sicura: si procedeva giorno per giorno, o meglio, dpcm per dpcm. L’altra difficoltà, che però ha causato meno problemi, è stata quella legata alle norme igieniche e di sanificazione. Su questo tema un grande contributo è arrivato dagli alunni che si sono fatti trovare pronti al rispetto delle regole e comprensivi delle norme da attuare.
Tornando alla didattica, queste limitazioni, hanno però dato la possibilità di affrontare in maniera più approfondita e accurata alcuni argomenti. Il dover lavorare in forma individuale ha permesso di potenziare e migliorare alcuni aspetti tecnici fondamentali che stanno alla base di tutti gli sport individuali, ma soprattutto di squadra: dal tiro al passaggio, dal palleggio alla conduzione. Il tutto strutturando lezioni che riuscissero a coinvolgere tutti i componenti della classe e per di più potendoli suddividere in livelli di apprendimento; potendo così personalizzare l’esercizio e soprattutto la difficoltà della richiesta sulle capacità oggettive di ogni singolo alunno. Una sorta di personal training.
Possiamo dire senza paura di essere smentiti che questo ultimo anno non è stato il più semplice per lo sport. Palestre, piscine e centri sportivi in generale sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire, con conseguenze pesanti sulle Società, sui collaboratori sportivi, ma soprattutto su chi frequenta questi luoghi.
Cercando di sopperire a queste mancanze, abbiamo visto fiorire le lezioni on-line, le app di fitness e altri “escamotage” che permettessero di fare attività rispettando le regole del periodo.
Anche molte società sportive, pur di garantire l’attività per i propri iscritti, hanno rivoluzionato le strutture e modificato le modalità di lavoro. È sicuramente il caso degli sport di squadra all’aperto, come ad esempio il calcio.
Parliamo quindi al “Mister”: come è cambiato il modo di allenare in questo ultimo anno? Per un giovane calciatore, questo può influire sulla sua crescita calcistica?
Possiamo dire che è stato letteralmente stravolto ma allo stesso tempo ha permesso di mettere in evidenza alcune realtà. Stravolto soprattutto per la concezione che si ha del gioco del calcio come gioco di squadra, come sfida e duello, come compagni e avversari, come vittoria e sconfitta. Da questo punto di vista allora sì che è stato stravolto: tutto questo non c’è più. Si è perso il contesto in cui il giovane calciatore formava il suo aspetto caratteriale: il coraggio, il “furore agonistico”, l’istinto, il pensiero creativo e l’iniziativa personale. Sembra impossibile ma tutto questo lo troviamo solamente nel momento del duello, nell’1vs1..e questo difficilmente lo puoi ricreare con un allenamento in forma individuale.
Dall’altra parte ha preso campo però la ricerca del perfezionamento della tecnica, (spingendosi in alcuni casi al limite di rendere il calcio uno sport per acrobati e giocolieri), la ricerca di metodi nuovi per allenare e la creatività di proporre attività che stimolino l’interesse e il divertimento dei ragazzi; il tutto per farli sentire ancora Protagonisti di questo gioco.
Se può influire nella crescita calcistica del giovane calciatore? Certamente sì. Oltre a tutto il discorso legato alla salute fisica e al benessere della persona, quest’anno di stop e sport adattato ha e avrà di sicuro le sue ripercussioni in un futuro non troppo lontano. Il rischio maggiore è il verificarsi del fenomeno del dropout, l’abbandono precoce dello sport: snaturare uno sport rischia di affievolire l’interesse in chi lo pratica e questo porta molto spesso alla scelta di abbandonarlo, proprio perché non è più quello di cui mi sono appassionato. E non meravigliamoci se poi l’interesse passa ai videogiochi o ai pc.
Un altro grande rischio è il non-confronto: si cresce solamente nel momento in cui ci si confronta con qualcuno. Solo nella situazione ho la possibilità di mettere in pratica quanto ho imparato. Siamo tutti capaci di camminare su un’asse di legno appoggiata sul pavimento, ma se la situazione cambiasse? Se quell’asse si trovasse a 10mt di altezza, sarebbe la stessa cosa? Idealmente si, lo schema motorio richiesto sarebbe identico ma è proprio il contesto che lo rende diverso. Anche l’aspetto emotivo legato al contesto (paura, rabbia, timore) va allenato..e va allenato con la pratica.
L’altro rischio è che il calcio giocato si sia fermato ma il regolamento no. Mi spiego meglio. Quello che si sta vedendo è che il calcio giocato, le competizioni, i tornei stanno vivendo un prolungato stop che ormai va avanti da più di un anno, ma la cosa che non cambia è la programmazione del settore giovanile. Da pulcini ad esordienti, da esordienti a giovanissimi, da un campo a 7 a uno 9 e poi a 11. Ovviamente prima o poi bisogna arrivare sempre a giocare in un campo grande 11vs11, ma quello che si sta perdendo è la giusta gradualità nei vari passaggi. La mancanza di poter consolidare quanto appreso anche in riferimento allo spazio e al tempo.
La scienza ci insegna che “lo sport è salute”, ma sembra che spesso questo non venga percepito e si colleghi l’attività motoria e sportiva soltanto alla volontà di assicurarsi un fisico tonico per la prova costume o all’aggregazione senza controllo in sala pesi o negli spogliatoi. Per questa concezione, forse, troviamo molti impianti chiusi e, a lungo andare, questo potrebbe avere delle conseguenze negative, soprattutto nelle categorie più fragili, come gli anziani, che trovano benefici psico fisici notevoli nell’attività motoria, e i ragazzi, ai quali viene tolto un aiuto fondamentale per una crescita sana.
Quali ripercussioni potrebbe avere questo periodo, che per molti è stato uno stop completo delle attività, nello sviluppo degli adolescenti, ma anche dei più piccoli?
Lo sport migliora l’attenzione e il funzionamento cognitivo. È un modo per stare meglio dal punto di vista fisico ma anche mentale. Insegna a stare con gli altro e a gestire le emozioni. Ma questa pandemia ha tolto ai ragazzi quest’occasione di crescita.
Bambini e ragazzi hanno bisogno di attività di movimento per la loro crescita fisica e psichica, l’interruzione quindi degli sport che stavano praticando ha modificato i loro ritmi quotidiani di vita, l’umore, il sonno, l’alimentazione. Quelli poi che si stavano allenando in vista di gare o tornei, hanno visto sfumare appuntamenti e scadenze importanti ben sapendo che non sempre è possibile recuperare. L’attività sportiva aiuta a rimanere nel momento presente, a entrare in empatia con i compagni di squadra e a fare squadra. Lo sport, inoltre, insegna a rispettare l’altro, insegna la disciplina e imparare il gioco di squadra è fondamentale perché crea il senso di comunità.
Guardiamo il lato positivo. Lei crede che gli stadi vuoti, i mondiali di sci senza pubblico, oltre a tutte le chiusure di cui abbiamo parlato prima, possano sensibilizzare le istituzioni sull’importanza dell’attività sportiva e su quanto la salute delle persone ne possa beneficiare?
Purtroppo, credo che le istituzioni non si rendano ancora conto delle grandi potenzialità e benefici che l’attività sportiva ha e che può dare alla comunità nei vari settori: educativo, economico, della salute e del benessere. Basti pensare alla mancata nomina di un ministro dello sport o ai provvedimenti che vengono presi nelle altre nazioni per l’attività fisica nelle scuole (notizia di qualche giorno fa il Ministro dell’istruzione cinese con un provvedimento chiede di adeguare i piani didattici e di porre attenzione all’educazione fisica proponendo almeno un’ora di attività fisica al giorno nelle scuole). Gli stadi vuoti e i mondiali di sci senza pubblico purtroppo penalizzano solamente le società o tutte quelle attività che fanno da contorno a questi eventi sportivi mettendo per lo più in risalto l’aspetto economico che mobilità lo sport ma non abbastanza per sensibilizzare gli aspetti della salute e del benessere di chi lo pratica.
Elena Dal Pan