Mar 5, 2023 | Invito alla lettura, Newsletter
Alberto Pellai e Barbara Tamborini – DeAgostini 2021
“Il libro che avete tra le mani è un manuale per genitori (e non solo) che intende diffondere, con semplicità e chiarezza, una visione complessa sul tema della tecnologia fondata su una base scientifica solida”
Questa la definizione che danno del loro libro gli autori, Alberto Pellai e Barbara Tamborini. Lo scopo è chiaro e loro ne hanno certamente le competenze, non solo per la professione che praticano (psicopedagogista lei, medico e psicoterapeuta lui), ma anche perché coinvolti in prima persona nell’educazione dei loro quattro figli in questa “epoca social”. Dell’adolescenza come periodo particolare ne avevano già parlato nel volume “L’età dello tsunami” (DeAgostini, 2017). Qui invece si tratta nello specifico dell’ingresso della tecnologia nella vita di bambini e ragazzi.
Il titolo, “Vietato ai minori di 14 anni”, è forte, e loro sono ben consapevoli di andare contro al sentire comune che ha fatto suo lo slogan “Vietato Vietare!”. Eppure, se anche il legislatore ha posto un limite di età, qualche ragione ci deve pur essere. La cosa impone una riflessione a supporto di chi sceglie di combattere una faticosa battaglia, quella di attendere i quattordici anni prima di dare uno smartphone ai figli. Una battaglia che Pellai e Tamborini hanno fatto propria e che propongono a tutti gli educatori.
Nelle pagine del libro vengono esposti dati, studi psicologici e motivazioni mediche (splendido l’accenno al “cablaggio delle reti neuronali” che se non avviene in età evolutiva con esperienze e tappe obbligatorie, non avviene mai più) ma anche numerosi contributi da parte di genitori che si rivolgono a loro come esperti. In effetti, si potrebbe dire che il volume è scritto da ben più di quattro mani! Vengono così messe in dubbio posizioni quali “Non è lo strumento ad essere malvagio ma l’uso che se ne fa”, “L’importante è insegnare ad usarlo bene”, “Sì, ma mio figlio lo sa gestire”. Piuttosto si può affermare, come è vero per il vino o per l’automobile, che lo strumento è buono purché utilizzato alla giusta età.
Da buon manuale, non possono mancare, dopo una parte descrittiva del problema, le indicazioni pratiche per affrontare le diverse situazioni in cui ci si può trovare (figli grandi o figli piccoli, già con uno smartphone personale o ancora senza…). Non mancano qui le note autobiografiche, che fanno capire al lettore come nessuno sia impeccabile e che è sempre utile mettersi in discussione.
La rassicurazione è che, condividendo e facendo solidamente proprie le motivazioni proposte, la strada per affrontare con successo la sfida è sì in salita, ma alla nostra portata.
Miriam Dal Bosco
Mar 5, 2023 | Articolo di fondo, Newsletter
Intervista a Massimiliano Badino
Come è nata la Philosophy for Children?
La Philosophy for Children nasce da un problema che potremmo definire sociale, prima che pedagogico. La sensazione che alcuni pionieri hanno avuto, tra i quali Matthew Lipman stesso – l’ideatore della Philosophy for Children – era che il sistema educativo non fosse al passo con la società. Tale pratica nasce in un contesto che è in primo luogo quello della logica dell’argomentazione e, dunque, anzitutto come una precisa forma di pensiero, prima ancora che essere collegato a problemi etici o metafisici. Nasce dalla sensazione che Lipman ha – e che ha sperimentato con i suoi figli – che la stessa materia che lui insegnava, cioè la logica e l’argomentazione, avesse un potenziale educativo inespresso. Vide quindi necessario individuare delle metodologie più adatte da un punto di vista pedagogico, affinché le potenzialità insite nella logica venissero sfruttate appieno. Lipman si rese conto che esisteva la possibilità di insegnare la logica e l’argomentazione, discipline apparentemente estremamente astratte, in un modo che potesse essere utile ai bambini della scuola primaria. Ha pescato da tante tradizioni: alcune vengono dall’Unione Sovietica come Vygotskij; alcune vengono dal pragmatismo americano, come Dewey; altre ancora vengono addirittura dal Sud America come Freire.
Quale ruolo gioca il critical thinking nella Philosophy for Children? Come questo filone prende le distanze dalla pedagogia piagetiana?
Il critical thinking è una nozione attualmente molto diffusa. Ad oggi infatti è normale parlare di pensiero critico, specialmente nei documenti ufficiali a livello istituzionale. È diventata quasi una parola d’ordine, ma non è stata tale fin dall’inizio. Anzi, ha avuto una genesi abbastanza complicata. Il concetto di pensiero critico nasce negli anni Sessanta, non nel contesto della logica, ma in un ambito differente; non nell’ambito della scuola primaria, ma in quello universitario, dove di nuovo alcuni autori pionieristici cominciarono a riflettere sulle stesse discipline che insegnavano e si resero conto nuovamente che la logica e l’argomentazione erano degli ottimi strumenti, che avrebbero potuto essere di grande aiuto per capire il mondo circostante, mai ai ragazzi e alle ragazze che andavano in università venivano insegnate in un modo poco utile. Tutto questo è avvenuto In circostanze particolari, ovvero durante la ribellione generazionale degli anni ‘68, in un brodo culturale adatto a mettere in discussione schemi di pensiero già consolidati, e tra questi anche la pedagogia. E qui arriviamo a Piaget. La pedagogia di Piaget si basa sul concetto delle fasi di sviluppo del pensiero, e quindi definisce lo sviluppo del bambino in funzione di momenti specifici in cui emergono, attraverso l’interazione con il mondo, certe abilità cognitive ben determinate. È noto che secondo il pedagogista svizzero la capacità del pensiero astratto sia l’ultima. Questo ovviamente pone il problema nel momento in cui si vuole insegnare la filosofia o la logica ai bambini della scuola primaria. Tuttavia questo problema si fonda su un fraintendimento generale. Perché quando parliamo di Philosophy for Children, non dobbiamo pensare alla filosofia accademica fatta dai bambini. Una distinzione cruciale che dobbiamo assimilare è che una cosa è la filosofia come disciplina, con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi schemi, il suo linguaggio, che spesso è molto tecnico, ostico, distanziante, una cosa è il filosofare, cioè la pratica filosofica. Kant diceva che non si può insegnare la filosofia, ma si può insegnare a filosofare. Questa è l’idea che è stata presa in carico dalla Philosophy for Children, ovvero non quella di fare in modo che i bambini facciano I filosofi adulti seppure in scala minore, ma cercare di stimolare nei bambini un pensiero che è genuinamente filosofico, e che quindi ha certe caratteristiche, ad esempio è aperto, si pone problemi che sono significativi, e significativi significa esistenziali, importanti per noi, ma allo stesso tempo familiari e vicini. Quindi il bambino e la bambina non saranno filosofi nel senso che useranno termini come “transustanziazione” e “trascendentale”, ma saranno filosofi nel senso che partono da storie, personaggi, vicissitudini, vicende a loro familiari e vicine che però sollevano delle genuine questioni. Questo può avvenire in tanti modi. Tendenzialmente avviene attraverso la lettura di testi strutturati in un certo modo e che presentano certe caratteristiche, ad esempio sono testi aperti, o che cominciano nel mezzo della vicenda e non si concludono e che già per il semplice fatto di avere questo tratto di frammento sollevano dei dubbi e dei quesiti: perché i personaggi si trovano in queste condizioni? Che cosa è successo? Che cosa succederà dopo? Questo è un modo per cominciare a porsi dei problemi che poi diventeranno sempre più significativi. Questo lavoro sul testo è un lavoro genuinamente filosofico. Certo non si parlerà di teoria delle idee platoniche o di categorie aristoteliche, però gradualmente possono emergere questioni sempre più dense che possono riguardare l’amicizia, emozioni importanti, la vita, la morte, l’idea di virtù. Nel rispetto della teoria di Piaget, questo non è in contraddizione. Non si tratta di far pensare i bambini come degli adulti, ma di dare loro la possibilità, all’interno del loro universo, del loro perimetro di discorso, all’interno delle loro categorie e del loro modo di affrontarle, la possibilità di porsi dei quesiti che sono aperti, non chiusi, non monologici e non destinati ad avere un’unica risposta, ma che aprano la possibilità del dialogo.
Il tutto avviene in un contesto educativo ben preciso che è la comunità dialogica o comunità di ricerca. Quali sono le caratteristiche di questo contesto?
Il tutto avviene in un contesto ben studiato, ben determinato. La Philosophy for Children ha indubbiamente un aspetto di spontaneità e di imprevedibilità che va conservato. Però, allo stesso tempo, non deve essere un caos. Questo perché è fondamentale che la comunità di ricerca, all’interno della quale questa attività si svolge, si ponga degli obiettivi ben chiari. Certamente i bambini non sono coscienti fin da subito del contenuto di tali obiettivi; questi ultimi devono essere chiari nella testa di chi organizza la comunità di ricerca, ovvero il facilitatore o la facilitatrice, che ha un ruolo estremamente difficile e sottile, perché deve guidare la comunità di dialogo, però lasciando ad essa la possibilità di esporsi e di esprimersi nel modo più spontaneo ed imprevedibile possibile. Quindi la comunità di ricerca si svolge con delle tappe ben definite: c’è la lettura del testo che deve essere scelto molto accuratamente; c’è una fase in cui dal testo si comincia a lavorare sulle domande; in seguito i bambini vengono divisi in gruppi all’interno dei quali cominciano a ragionare su quali domande vengono suggerite da questo testo. In questa prima fase i bambini devono andare a scegliere una domanda particolarmente significativa. Poi, in plenaria, si presentano le domande dei gruppi e si sceglierà la domanda sulla quale si lavorerà e qui si imposta il piano di discussione. Spesso queste domande sono definite in modo incompleto, spesso parziale, possono esserci domande che si equivalgono, ma che sono formulate in modo diverso, per cui al facilitatore spetta anche il compito di far ragionare i bambini sulle somiglianze e sulle differenze, verso quelle che si chiamano piste euristiche (chi? come? perchè?). Poi c’è un momento di discussione vera e propria e infine di valutazione, ovvero il momento in cui i bambini valutano come si sono sentiti e anche come il facilitatore si è comportato, come li ha fatti sentire, se hanno sentito la possibilità di esprimersi. Per arrivare a questo punto, e quindi ad una sessione di Philosophy for Children produttiva e soddisfacente, bisogna lavorare prima sulla costruzione della comunità di ricerca. Per cui ci sono degli aspetti a cui porre attenzione. Lipman suggerisce alcune caratteristiche fondamentali: Il favorire una partecipazione che però non sia troppo invadente, perché la comunità di ricerca richiede chiaramente la partecipazione di tutti e di tutte, però non la può pretendere, nel senso che i bambini hanno i loro tempi, qualcuno può sentirsi subito pronto a partecipare, qualcuno invece può sentirsi un po’ titubante. Quindi è essenziale, per mantenere un funzionamento omogeneo, che si rispettino i tempi di tutti i bambini e di tutte le bambine, che a volte possono essere molto diversi. Un’altra caratteristica importante, che distingue la comunità di ricerca da altri lavori di gruppo, è il focus sulla deliberazione, che va distinta dalla decisione. La comunità di ricerca non deve decidere una risposta, ma deve deliberare una risposta, il che significa che il focus è più sul processo che sul prodotto. Proprio per la peculiarità dei problemi che si affrontano, non è tanto importante che la risposta sia giusta o sia sbagliata, o magari decisa dalla maggioranza, quanto piuttosto che venga deliberata e che sia espressione di tutto il gruppo. Chiaramente questo è un concetto astratto, ideale, che solo in certe condizioni può essere raggiunto. La comunità di ricerca tra le sue funzioni ha anche quella di smussare certe relazioni di potere e di prevaricazione che si possono creare all’interno dei gruppi. È un processo che richiede sempre di riflettere sulle ragioni per cui si fa una certa affermazione.
Dal momento che stiamo parlando di deliberazione, mi viene spontaneo chiedere quale sia il legame della Philosophy for Children con l’approccio relativista…
Si potrebbe pensare che il fatto che i problemi siano aperti, il fatto che i testi suggeriscano varie interpretazioni, automaticamente legittimi l’idea per cui ogni opinione sia uguale all’altra. Per questo il ruolo del facilitatore è difficile, perché c’è il rischio che la discussione finisca in un numeroso affastellarsi di idee. Quindi come si fa a tenere in piedi l’idea dell’apertura della comunità di ricerca evitando il rischio di un approccio relativista? Fondamentale è fornire delle ragioni, delle argomentazioni. Stiamo parlando di problemi che non sono risolvibili e decidibili una volta per tutte. Questo però non significa che ogni opinione sia equivalente ad un’altra. Nel momento in cui i bambini e le bambine sono in grado di trovare delle ragioni alle opinioni anche più bizzarre, lo scopo, in un certo senso, è già raggiunto, perché sono stati posti di fronte alla necessità di motivare quanto stanno sostenendo. Poi chiaramente le opinioni più bizzarre saranno sostenute dalle regioni più deboli e quindi verranno facilmente attaccate dagli altri e messe in questione dai compagni. Dunque centrale della Philosophy for Children non è trovare una risposta, ma fornire le ragioni delle proprie opinioni. Quindi, di fronte a qualsiasi opinione, anche la più bizzarra, anche la più provocatoria, bisogna pretendere una motivazione, una giustificazione, un’argomentazione. La discussione indubbiamente può arrivare a dei vicoli ciechi, per cui la bravura del facilitatore sta nel tenere viva la discussione incoraggiando i bambini ad andare a fondo sulla questione.
I parallelismi con Socrate, così come anche le divergenze, appaiono evidenti. Potrebbe delinearli?
È chiaro che quando parliamo di Philosophy for Children il personaggio che ci viene in mente è evidentemente Socrate, perché come dicevo prima la Philosophy for Children insiste di più sulla pratica filosofica che sulla filosofia accademica e nell’immaginario collettivo il filosofo che va in giro e fa domande scomode è sempre stato Socrate. Infatti Lipman si è ispirato alla filosofia socratica, che porta con sé il concetto di maieutica, ovvero tirare fuori ciò che le persone si portano dentro. Tuttavia ci sono delle differenze fondamentali. Tanto per cominciare parliamo di contesti temporali totalmente differenti. Lipman ha un obiettivo, che è quello di riformare l’educazione, soprattutto alla scuola primaria. Questo significa che ha come target ragazzini e ragazzine dell’età compresa tra i 6 e gli 11 anni e che frequentano una scuola, cioè un sistema organizzato e istituzionalizzato. Socrate si rivolge ad un altro target, ovvero quello degli adolescenti, o meglio, quelli che noi oggi chiameremmo adolescenti, ma che all’epoca erano uomini e donne fatti. Il suo rapporto con queste persone era molto più informale, in contesti pubblici o privati e non c’era alcuna velleità di funzionalità. Questa pratica nasce e muore con Socrate, nel senso che quando Platone ne fa protagonista dei suoi dialoghi sta essenzialmente dicendoci che nessun altro è come Socrate, che nessun altro era un maestro come lo era Socrate. Dall’altra era un maestro per modo di dire, perché in ultima analisi spesso ne usciva protagonista, che non è esattamente quello che dovrebbe fare un facilitatore o una facilitatrice. In più il contesto è molto diverso anche da un punto di vista politico e sociale. In Lipman l’argomentazione ha un valore fortemente etico e anche politico. Il contesto generale è quello della democrazia liberale statunitense, ma lo troviamo anche nel contesto in cui operava Freire, che non è quello della democrazia. Lo ritroviamo più o meno anche nell’Unione Sovietica di Vygotskij. Socrate invece si muove in un contesto totalmente diverso. Chiaramente pensiamo alla Atene di Pericle come la culla della democrazia, ma la Atene di Pericle aveva pochissimo in comune con quella che noi chiamiamo oggi democrazia. Quindi Socrate e Lipman sicuramente si sono posti obiettivi differenti. D’altro canto l’idea generale per cui la filosofia sia anzitutto una pratica che va vissuta, che va esperita prima ancora che raccontata, prima che proposta con un linguaggio gergale tecnico, questa idea Lipman l’ha presa e l’ha calata in un contesto istituzionalizzato, che è quello della scuola e ne ha fatto un metodo, prima ancora che una pratica.
Quali sono i risvolti educativi della Philosophy for Children nella società attuale, soprattutto in riferimento al cosiddetto pensiero multidimensionale? Perché ad oggi è importante educare alla logica?
Ancora adesso, dopo tanti anni di Philosophy for Children, la logica è per così dire localizzata, segregata e ghettizzata tra le discipline matematiche. E in parte è corretto, perché la logica, tra le discipline in ambito umanistico, è quella meno recente e al contempo quella che di gran lunga ha avuto uno sviluppo più impetuoso e sorprendente. Quindi è chiaro che la logica venga collocata nell’ambito della matematica, però dobbiamo ricordarci che per più di duemila anni non è stato così, perché la logica non si è sviluppata sostanzialmente dopo Aristotele e dobbiamo ricordarci che, quando è nata, la logica era fortemente intrecciata con la politica e la retorica. Per Aristotele non c’è affatto una opposizione tra le due cose, quindi la logica ha una valenza sociale. Lipman vuole recuperare l’idea che la logica, come abito del pensare in modo corretto e argomentare in modo corretto, è la via principale per una vita democratica sana, funzionale alla vita in comune, al dialogo, alla tolleranza. Il collegamento tra la logica e la cittadinanza è particolarmente significativo. Ad oggi siamo esposti a semplificazioni, teorie cospiratorie, fake news, in generale ad una degradazione del clima linguistico e argomentativo che ha la tendenza a diventare tossica. Siamo dunque in un momento storico che richiede una maggiore consapevolezza su come si utilizza il linguaggio. Abbiamo bisogno di cittadini e di cittadine che sappiano confrontarsi e sappiano argomentare attraverso ragioni e non attraverso sentimenti o emozioni che possono portare fuori strada. Questo non significa che la logica sia nemica delle emozioni o della creatività, e qui arriviamo al pensiero multidimensionale. La grande intuizione di Lipman, e in questo sì che è andato un po’ oltre Dewey, è stato comprendere che i pensieri, per la loro intrinseca significatività, necessariamente mettono in gioco la vita emozionale. Lipman ha accolto il valore educativo delle emozioni, un elemento ad oggi abbastanza consolidato. Dagli anni ‘90 in poi gli studi di psicologia hanno sottolineato che le emozioni hanno un valore educativo e cognitivo, cioè che noi pensiamo meglio quando siamo coinvolti emozionalmente. Il pensiero multidimensionale prevede che ci siano tre forme di pensiero, ovvero quello critico, quello emozionale-creativo e quello di cura, che possono essere movimentati assieme e ognuna di queste influisce sull’altra. Per molto tempo si è pensato che le emozioni fossero un ostacolo al pensare corretto, invece se vengono indirizzate e guidate possono aiutare a pensare in modo corretto. Per molto tempo si è pensato che il pensiero creativo e divergente fosse contrario al pensiero critico e convergente, ma ad oggi sappiamo che non è così. La costruzione di buone argomentazioni richiede una forma di creatività. Inoltre il pensare bene ci fa anche sentire bene, è anche un modo per prendersi cura di sé e della comunità in cui si è inseriti. Quindi, per riassumere, la messa in campo di tali dimensioni contribuisce ad uno sviluppo organico del bambino.
Michela Spiazzi
Mar 5, 2023 | Articolo di fondo, Newsletter
Le domande della filosofia. Insegno filosofia da quarant’anni e sono ancora appassionato per il mio lavoro! Perchè? Vedo che gli studenti sono molto interessati, oggi come quarant’anni fa, alle domande della filosofia, che sono quelle di ogni uomo. Studiare il pensiero dei filosofi significa affrontare razionalmente le questioni essenziali: “Da dove vengo? C’è una vita dopo la morte? Esiste Dio? Cos’è il bene e cos’è il male? Cosa significa amare? Come raggiungere la felicità? Cosa ci sono venuto a fare a questo mondo? …”
Posso immaginare le obiezioni di uno studente o anche di un collega di fronte a queste domande che sembrano “insolubili”, perché prive di una risposta immediata e concreta.
Prima obiezione: lo scientismo. Oggi viviamo in un mondo impregnato di scientismo, un’ideologia che idolatra la scienza e la tecnica, come se potessero risolvere tutti i problemi. Questa cultura neopositivista è entrata in conflitto con il pensiero metafisico e religioso. Un celebre critico letterario, Natalino Sapegno, diceva che le domande filosofiche e religiose sul senso della vita, sono domande adolescenziali … allora Dante, Beethoven, Goethe, Manzoni … erano tutti adolescenti!
Invece le domande sopra citate sono tutte ineludibili e l’insegnamento della filosofia aiuta ad affrontarle con ragionevolezza ed equilibrio, evitando le derive del fanatismo ideologico, della superstizione, dello scientismo. Perché come diceva proprio uno scienziato, Einstein: “noi conosciamo molto i mezzi, ma siamo ignoranti sul fine”. Le discipline scientifiche spiegano i mezzi, la tecnica, ma il fine, il senso non lo sanno e non lo possono dare. L’ha spiegato molto bene Victor Frankl che riconosceva che in ogni uomo c’è una domanda ancora più vasta e profonda di quella del solo piacere o del successo economico. È appunto la domanda sul significato di tutto quello che facciamo. Il nichilismo, la depressione e tutte quelle dipendenze patologiche (tossicodipendenze, alcolismo, ludopatia …) che attanagliano tanti giovani dipendono proprio dal non aver trovato un senso per cui vivere. La filosofia non ha quindi un’utilità immediata, come le tecnologie, o come l’economia, ma ha un’utilità di fondo per la nostra vita: ci suggerisce e ci aiuta a cercare una motivazione. Se manca una motivazione, prima o poi tutto ci annoia.
Seconda obiezione: la filosofia è disorientante. Uno studente può rimanere disorientato di fronte alla carrellata di pensatori diversi e spesso contrapposti in più di duemila anni. Io direi che comunque, studiando i filosofi, noi studiamo noi stessi e possiamo valutare come hanno dato risposte alle nostre stesse domande. Lo studio di Socrate, di Aristotele, di Sant’Agostino, di Kant o Hegel … sono altrettante occasioni per riflettere su noi stessi. Per questo chiedo sempre il parere degli studenti, perché mi interessa sapere cosa ne pensano e noto che i ragazzi sono molto coinvolti, perché non si tratta di un discorso astratto e teorico, ma di un discorso che riguarda la loro vita stessa. Tutti siamo interessati a sapere cos’è il bene e cos’è il male, che cos’è la giustizia, che senso ha la preghiera, se c’è un aldilà… E forse lo studio della filosofia è l’unica occasione che tanti giovani hanno per riflettere su queste tematiche, soprattutto oggi, quando le istituzioni religiose risultano assenti o insignificanti per la maggior parte dei giovani. Certo, la spiegazione della storia della filosofia può essere talora fuorviante, perché, per onestà intellettuale, dobbiamo soffermarci tante volte su pensatori di cui non condividiamo quasi niente. Ma se io avessi dovuto insegnare la monotonia di un pensiero univoco, l’ora di filosofia sarebbe diventata un indottrinamento a senso unico. Come nei famigerati totalitarismi del Novecento dove erano tutti burattini. Invece, ho sempre interpretato il mio insegnamento come un aiutare i giovani a confrontare le diverse visioni della vita e del mondo. Nello studio dei vari filosofi, lo studente è sempre stimolato alla riflessione, al confronto, alla valutazione critica. Ho sempre avuto fiducia nel meglio della natura umana che è capace di discernere il bene dal male, l’amore dall’odio, il dialogo dalla violenza. Non è possibile questo discernimento se il ragazzo non ha gli elementi per poter confrontare e quindi valutare. Proprio in questo consiste, a mio parere, la funzione di un insegnante aperto alla ricerca e non dogmatico. Lo studio dei filosofi permette ai ragazzi di poter sempre confrontare i vari Marx, Freud, Nietzsche … con un messaggio aperto al Sacro e alla trascendenza. È quando un professore spiega solo filosofi atei o agnostici che gli studenti scivolano nell’indottrinamento, perché non viene loro neppure spiegata la ragionevolezza dell’alternativa aperta al Trascendente. Un’educazione non è completa se non garantisce una conoscenza adeguata delle diverse visioni del mondo, da quella immanente a quella trascendente.
Terza obiezione: l’ora di filosofia non è un’ora di religione. Le domande citate all’inizio sono di tipo non solo filosofico, ma anche, e forse soprattutto, religioso. È vero che anche le religioni ci possono chiarire queste domande esistenziali alla luce di una Rivelazione, ma l’uomo, anche se credente, rimane sempre un “filosofo” perché deve ragionare, deve cercare con la ragione i motivi di credibilità della Rivelazione. Per questo ho sempre dato spazio anche alla filosofia della religione, intesa come ricerca delle motivazioni ragionevoli della Rivelazione cristiana. Mi riferisco al discorso laico sull’autenticità storica dei Vangeli e sui valori morali che hanno introdotto nella storia. Come diceva Massimo Cacciari, la filosofia è inizialmente atea, nel senso che cerca risposte senza presupporre niente di trascendente; ma finisce per collegarsi con la teologia, in quanto questa ricerca si interroga su una Causa prima e indaga laicamente sulla morale. Kant in questo è stato un grande maestro.
Si deve aggiungere che lo studio della filosofia, in quanto impostazione razionale dell’esistenza, aiuta i giovani ad evitare le derive della religione, quali la superstizione, il fanatismo, il fideismo, inteso come fede senza ragione. La filosofia ci libera dal fanatismo, cioè dalla presunzione di avere una verità assoluta da imporre agli altri.
Quarta obiezione: la filosofia contemporanea favorisce lo scetticismo e l’ateismo. Rispondo che proprio lo studio della filosofia aiuta il giovane a togliere tutte quelle incrostazioni che hanno deformato la morale e il Volto stesso di Dio. Quando spiego, nelle classi quinte, filosofi come Marx, Nietzsche, Freud … che fanno professione di ateismo, io mi chiedo che tipo di Dio fosse quello che loro respingevano! Era una caricatura, una deformazione di Dio, che è stato calunniato nella storia. Marx pensava che Dio ci distraesse dalla vita terrena, legittimando lo sfruttamento economico, Freud pensava che Dio inibisse la sessualità, Nietzsche pensava che Dio fosse nemico del piacere e ci mortificasse facendoci vivere da risentiti. Sono tutte deformazioni, che ricalcano più o meno apertamente la prima grande tentazione della Genesi: “Non è vero quello che Dio vi ha detto, Lui non vuole che voi siate come Lui”. La calunnia su Dio è stata la prima tentazione e studiando filosofia scopriamo che Dio è stato calunniato molte volte. E quindi proprio grazie alla filosofia possiamo recuperare un Volto autentico di Dio, liberato dalle maschere che noi uomini Gli abbiamo imposto.
Una conclusione costruttiva. E se dovessi scegliere un florilegio di filosofi particolarmente costruttivi per la formazione dei giovani? Direi che per la filosofia antica il più apprezzato, anche dagli studenti, è Socrate, per il suo spirito critico, il suo atteggiamento di domanda, il dialogo, il rifiuto della violenza, la scoperta dell’anima come essenza dell’uomo, la ricerca della verità. Naturalmente anche Agostino e Tommaso sono maestri di vita, il primo anche per la sua esperienza esistenziale, il secondo per la sua impostazione ragionata dell’etica e della metafisica. Poi vedo che è molto apprezzato anche Kant. I giovani riconoscono che, come dice lui, dentro di noi c’è la voce della coscienza. Abbiamo tutti un imperativo categorico che ci dice quello che dobbiamo fare. Un imperativo che impone il primato dell’etica in quanto rifiuto di ogni strumentalizzazione dell’essere umano. E questo è un grande insegnamento laico costruttivo per la formazione di una coscienza morale capace di difendere i diritti umani.
Nella filosofia contemporanea ho scoperto che viene molto apprezzato il pensiero di Max Scheler, che è poco conosciuto, però è il filosofo che sta alla base del pensiero di San Giovanni Paolo II. Questo filosofo sostiene che l’essenza dell’uomo è nella sua capacità di amare. L’uomo si qualifica come ens amans, ente che ama. E Scheler spiega che l’amore ha una stratificazione di profondità: si intensifica a partire dall’amore sensibile, per arrivare poi all’amore spirituale, e via via fino all’amore per il Sacro. Il Sacro è sempre con noi, perché è il fine ultimo della nostra vita. Per cui anche gli atei hanno il loro “sacro”, il loro valore supremo, che può essere il denaro, la famiglia, la politica… Max Scheler ha individuato nell’amore umano una componente egocentrica, l’eros, che tende al dominio, e una componente donativa, l’agape, capace di perdonare, di prendersi cura del prossimo indipendentemente dal tornaconto egoista, addirittura rivolta anche ai nemici. L’amore agapico è stato introdotto nella storia con i Vangeli, che hanno portato la più grande rivoluzione etica della storia, con una rivalutazione irreversibile della donna, del bambino, dello schiavo, del malato, dell’autorità come servizio e non come potere.
E poi ho visto che è molto apprezzata anche una filosofa donna, che spiego nell’ultimo anno di filosofia: Santa Edith Stein, di origine ebraica, morta ad Auschwitz, a causa del nazismo. Lei sostiene il valore etico del sentimento, il “pensare con il cuore”, e valorizza la dignità della donna, della specificità femminile. Edith Stein integra il primo femminismo, che puntava giustamente sulla parità dei diritti, con il secondo femminismo che difende e valorizza la specificità femminile della donna … ad esempio in tutti i contratti di lavoro viene tutelata la maternità, per cui viene riconosciuta questa specificità femminile.
Ritornando dunque alle domande iniziali, penso che lo studio delle tematiche etiche, psicologiche e metafisiche siano indispensabili per una crescita completa della persona. In questo mondo così tecnologico e scientifico, l’insegnamento della filosofia potrebbe trovare spazio non solo nei Licei, ma in tutte le scuole superiori, per un futuro più autenticamente umano e rispettoso dei valori etici.
Marco Fasol
Dic 22, 2022 | Invito alla lettura, Newsletter
Marcello Bramati, Lorenzo Sanna – Sperling & Kupfer, 2017
L’utilità della lettura a partire dall’infanzia e, poi, nel corso della vita è una di quelle verità universalmente accettate e ripetute come un mantra in tutti gli ambiti che abbiano a che fare con l’educazione.
Più raro è trovare chi dia suggerimenti e proponga percorsi collaudati per appassionare i bambini e gli adolescenti a una pratica che oggi vede la forte e schiacciante concorrenza di altri strumenti.
Ci soccorre questo pratico libretto, strutturato a mo’ di sandwich tra la prefazione di Cecilia Randall (pseudonimo dell’Autrice della fortunata serie di Hyperversum) e la postfazione di Pietro Vaghi (Autore di Scritto sulla mia pelle, un bel romanzo di formazione). All’interno vi scoviamo una dovizia di preziosi suggerimenti e indicazioni di buone pratiche.
Gli Autori, Marcello Bramati e Lorenzo Sanna, sono insegnanti di lettere e padri di famiglia e ben riuniscono nelle proprie persone le competenze dei due diversi ruoli.
L’impostazione del libretto è estremamente pragmatica. Dopo un accattivante test per i genitori (da fare senza imbrogliare, mi raccomando!) e uno per i (potenziali) lettori, teso a evidenziarne i diversi profili (dal lettore accanito fino a quello disinteressato e prevenuto), Bramati e Sanna ci conducono per mano attraverso un metodo, simpaticamente denominato “delle 6 S”, che viene successivamente declinato per le diverse tipologie di lettori.
Mi permetto di menzionare brevemente alcune delle S proposte.
Innanzitutto quella di Squadra. Come recita il celebre e forse abusato proverbio africano “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”, oggi più che mai l’educazione rischia di naufragare se non è fondata su concrete e virtuose alleanze: tra famiglia e scuola, tra genitori e genitori, tra compagni e amici e anche – perché no? – con un libraio di fiducia.
Senza dimenticare naturalmente la S di Specchio, non a caso nel libro proposta per prima, a significare che l’esempio fondamentale i bambini lo ricevono dai genitori e dalle loro abitudini.
Ho apprezzato particolarmente il ruolo che gli Autori attribuiscono alla lettura ad alta voce, Strumento per eccellenza nel percorso proposto. Questa S ulteriore ci rimanda alle letture fatte ad alta voce ai bambini, alle declamazioni (tutti sappiamo per esperienza quanto un testo appaia diverso e giunga a conquistarci quando pronunciato da un bravo lettore), ai moderni audiolibri, per i quali si spezza doverosamente una lancia.
Quando, cinque anni fa, il libro veniva pubblicato, stavano già diffondendosi nelle scuole le buone pratiche di lettura libera in classe secondo i dettami del Writing and Reading Workshop, diffuso in Italia da Jenny Poletti Riz (di cui è appena uscito Educare alla lettura con il WRW. Metodo e strumenti per la scuola secondaria di primo grado, scritto con Silvia Pognante per la Erickson). Per quanto Sanna e Bramati non vi facciano cenno, alcune convergenze di vedute sono sorprendenti, confermando ulteriormente la validità dell’approccio.
Suggellano il volume alcuni consigli di lettura, distinti per tipologia di lettore.
Insomma, partendo dalla constatazione che, come diceva Italo Calvino, “si legge solo per amore”, o “per piacere” come preferiscono esprimersi i nostri Autori, sono benedetti tutti i tentativi per far scoccare nei figli-alunni la Scintilla (altra S) dell’amore per i libri. Scintilla che innesca un processo preziosissimo negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, e che solitamente prosegue, magari alternando stagioni diverse, negli anni della maturità.
Daniele Marazzina
Dic 22, 2022 | Newsletter, Spazio cinema
di Dino Buzzati
Al posto della recensione di un film, in questo numero offriamo ai nostri lettori un piccolo omaggio natalizio, la registrazione audio di uno dei racconti più significativi di Dino Buzzati,
“Il colombre” (pubblicato per la prima volta nel 1966 nella raccolta “Il colombre e altri cinquanta racconti), letto per noi da Eleonora Zoppi, insegnante di scuola media e amica del Centro Studi, a cui va il nostro grazie.
https://drive.google.com/file/d/1x-rnMPGm2wnaVfrtS-u08N8D6ZWVoVOZ/view?usp=sharing
Elena Zoppi
Dic 22, 2022 | Articolo di fondo, Newsletter
Intervista alla professoressa Fiorenza Farina
Abbiamo chiesto alla prof.ssa Fiorenza Farina, laureata in Pedagogia e insegnante di scuola primaria in pensione, di illustrare ai nostri lettori lo scopo dell’associazione “Libro fondativo”, del cui comitato didattico fa parte. Nel loro sito si trova che essa è “un gruppo di insegnanti che da anni lavora in rete perché nell’attività scolastica sia possibile gustare e fare un’esperienza completa del testo letterario”.
Partiamo dal nome che avete scelto per la vostra attività, “Libro fondativo. Per incontrare l’umano”. Può raccontarci il significato di tale espressione, che – è facile immaginare – contiene già tutto o quasi il senso del vostro lavoro?
Questa particolare espressione, libro fondativo, vuole dire una cosa semplice: i testi letterari sono in grado di incontrare l’umanità della persona che legge o ascolta, e, attraverso i contenuti proposti dall’autore, di contribuire a costruirne l’identità. Un insegnante cosciente di questo può proporre ai suoi alunni dei testi (anche brevi) che suscitino domande e piste di lavoro. C’è un particolare fondamentale: la lettura integrale deve avvenire in classe e deve essere fatta dall’insegnante. Come pure la riflessione sui temi trattati va condivisa in classe.
Naturalmente la scelta del testo è fondamentale. Deve essere fondativo, deve rivelare, cioè, la natura dell’uomo: l’uomo costituito di anima e corpo e l’uomo che percepisce, insieme alla sua grandezza, il proprio limite e la propria fragilità.
Passando alla vostra storia, quando avete dato vita a questa iniziativa? E quali sono state le ragioni particolari che ne sono state alla base?
Nel 2009 partecipai insieme a Maria De Nigris, insegnante nella scuola primaria dell’Educandato statale agli Angeli di Verona, ad un corso di aggiornamento presso la scuola La Traccia di Calcinate (fondata da Franco Nembrini). Il titolo era “In forma di parola” e relatore Paolo Molinari, un nostro amico insegnante di Verona, allora Direttore Didattico della scuola Sant’Angela Merici di Desenzano. Lui fece una proposta convincente e io e Maria decidemmo di verificare nelle nostre classi se la lettura di un libro poteva veramente offrire quello che era stato detto.
Insegnavamo in due quarte della primaria: io all’IC1 a San Giovanni Lupatoto e lei a Verona. Decidemmo di leggere “Magellano” di Stefan Zweig, nella versione ridotta che aveva scritto Molinari stesso. Per entrambe fu un’esperienza travolgente che segnò una svolta nella nostra professione.
Penso che l’unica ragione che ci ha mosso sia stata proprio quella coscienza della potenza della letteratura che prima non avevamo.
Da sempre io leggevo in classe Pinocchio o Andersen, ma senza rendermi conto di quello che potevano suscitare in termini di domande esistenziali e di lavoro culturale.
Non per niente il nostro primo corso s’intitolò “Il potere delle storie”.
Poi nel 2013 abbiamo editato il nostro primo libro, “Il libro fondativo per incontrare l’umano” – Sestante editore, che contiene la nostra proposta. Il libro è stato scritto dopo alcuni anni di sperimentazione, non avevamo l’idea di scriverlo. Abbiamo pensato di raccogliere quelle prime esperienze precedute da una conversazione con Paolo Molinari, perché ci sembrava un contributo prezioso, anche se in fieri.
Nel 2017 abbiamo cominciato a essere presenti all’interno dell’associazione Diesse come Bottega del Libro Fondativo, trovando attenzione e collaborazione.
Da cinque anni partecipiamo, come Bottega, alla Convention annuale di Diesse e proponiamo sulla piattaforma Sofia i nostri Corsi di formazione.
La lettura integrale di testi letterari spesso a scuola non viene svolta per varie ragioni, come p. es. il poco tempo a disposizione per svolgere il programma ministeriale, o per il fatto che l’approccio ai testi privilegia le analisi stilistiche, formali, storico-sociali e non si lascia il tempo per confrontarsi con la visione dell’uomo e del mondo di cui ogni testo è portatore. Quali sono le potenzialità educative della vostra proposta? Quali consigli dareste e quali strumenti offrite a quei docenti che volessero cominciare a sperimentare nelle loro classi questa attività?
Le potenzialità sono grandi. Le esperienze che vediamo parlano di risultati importanti da due punti di vista: quello educativo e quello culturale. In particolare, il lavoro di riflessione sui contenuti permette di affrontare le domande esistenziali dei bambini/ragazzi che trovano finalmente un luogo (costituito dall’Autore, dai compagni e dall’insegnante) in cui queste domande possono essere dette e affrontate. Tutti questi aspetti emergono nei Quaderni del libro fondativo (Bonomo editore) proprio per documentare ad altri insegnanti che è possibile, anzi consigliabile, compiere vere esperienze letterarie a scuola. Le relazioni contenute nei Quaderni descrivono il tipo di lavoro avvenuto nelle classi e i risultati ottenuti, appunto, in termini educativi e culturali.
Le attuali Indicazioni Nazionali lasciano spazio a questo tipo di approccio in ogni ordine di scuola. Occorre decidere se dare spazio o no all’incontro con gli autori.
Il consiglio è quello di cominciare con un testo breve, ritagliando uno spazio all’interno delle ore di lezione, preparando l’attività con precisione, essendo sempre pronti all’imprevisto, come sempre nel campo dell’educazione.
In questo senso i Quaderni intendono offrire degli spunti concreti, per il momento su La Divina Commedia (pocket), La strada di Mc Carthy, Pinocchio, Omero.
Prima ancora, però, consiglio la lettura del nostro libro “Il libro fondativo per incontrare l’umano” che contiene la nostra proposta. Alla fine del libro è riportato il pensiero di sei importanti autori sull’importanza della letteratura: Tolkien, Bettelheim, Steiner, Kasatkina, D’Avenia, Ada Negri, Florenskij, Arslan. È una parte fondamentale.
Quindi i primi strumenti sono i libri che sono già stati editati e che segnano la strada.
Poi ci sono i nostri corsi a cui è possibile iscriversi. Inoltre è possibile consultare il blog che il nostro collaboratore/ insegnante di Torino, Paolo Ferrero Merlino, responsabile della Bottega, sta sistemando (librofondativo.com). Sul blog è possibile vedere nel dettaglio le nostre pubblicazioni.
Essendo Paolo Molinari di Verona, si può pensare anche ad un incontro in presenza con lui per impostare un lavoro in classe.
I destinatari dei vostri corsi e pubblicazioni sono soprattutto insegnanti di scuola primaria o secondaria di primo grado. Ritenete che tale metodo possa trovare applicazione anche nella scuola secondaria di secondo grado? Nella vostra esperienza ci sono classi delle superiori che lo hanno praticato?
In realtà i destinatari sono gli insegnanti di tutti gli ordini di scuola (tranne la Scuola dell’Infanzia).
È vero che il nostro lavoro è nato nella scuola primaria, ma poi si è aperto alla scuola secondaria di primo e di secondo grado. Sono convinta che la scuola superiore possa essere un ambito privilegiato per questo tipo di lavoro, sia per l’ampia scelta degli autori, sia per la maturità degli studenti. Diciamo che il cammino è segnato dagli insegnanti che si coinvolgono. Alle scuole superiori ci sono fatti significativi anche se non numerosi come negli altri ordini di scuola.
Siamo in contatto con professori di altre città come pure siamo in contatto con altre esperienze similari: il confronto è utile e necessario per verificare la strada da percorrere.
Un’esperienza recente riguarda una professoressa dell’Istituto Tecnico Marconi di Verona. In settembre in una classe terza a maggioranza maschile, ha letto alcune fiabe di Andersen, secondo le modalità da noi proposte; c’è stata attenzione e anche coinvolgimento. Può sorprendere la scelta della lettura di fiabe alla scuola superiore, ma non dobbiamo dimenticare che Roberto Filippetti, professore e scrittore, per trent’anni l’ha fatto con successo negli Istituti Tecnici, tra l’altro ripescando magnifiche fiabe di Andersen che non erano conosciute. Del resto, Tolkien diceva che le fiabe sono scritte per gli adulti.
In collaborazione con l’Associazione Diesse, all’interno de “Le botteghe dell’insegnare”, voi proponete quest’anno un corso annuale dal titolo La fiaba: L’archetipo del racconto. Vuole illustrarci il contenuto di tale corso?
Il Corso di quest’anno, che è già iniziato, prevede l’intervento di due persone che ci aiutano ad approfondire il perché è importante leggere le fiabe: Alberto Bordin, autore de “L’osso del racconto” ed Emma Bacca.
La fiaba è una forma di racconto breve che ha lo scopo di comunicare il valore delle cose. Ascoltare o leggere una storia significa imparare indirettamente, è un’esperienza virtuale che permette di vivere situazioni dolorose e drammatiche non correndo rischi e preparando ad affrontare la vita reale. In particolare, la fiaba è il viaggio dell’eroe verso il senso delle cose: troviamo la sua fatica, la sofferenza, la bellezza, la necessità del cambiamento per offrire alla fine la speranza. Non è questo ciò di cui c’è bisogno?
“Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini lo sanno già. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti” diceva Chesterton.
Già pensiamo al Quaderno n° 4: sarà sulle fiabe
Alessandro Cortese