Nov 24, 2020 | Cineforum, Studenti
Paese: Cina – Durata: 102 minuti – Regia: Zhang Yimou
Il maestro Gao, insegnante della scuola elementare di un misero paesino rurale della Cina, deve assentarsi per un mese per assistere la madre ammalata. Il capo villaggio, quindi, assume come supplente Wei Minzhi, una ragazzina tredicenne senza alcuna esperienza, ma unica disponibile della zona, promettendole una ricompensa di 50 yuan. Prima della partenza il maestro, scettico circa le capacità di Wei, raccomanda alla ragazza di badare agli alunni e di sorvegliarli attentamente in modo da ritrovare, al suo ritorno, l’intera classe e non un alunno di meno: in tal caso la ragazza avrebbe ottenuto un ulteriore ricompensa di 10 yuan da parte sua.
Wei, completamente impreparata al compito di supplente affidatole, cerca, come può, di mantenere la promessa. Quando Zhang, il suo alunno più “difficile” perché irrequieto e irrispettoso, non si presenta a scuola poiché costretto ad andare a lavorare in città per saldare i debiti della famiglia, Wei abbandona il resto della classe per andare a ricercare caparbiamente la “pecorella smarrita” e riportarla a scuola.
Il regista ci mostra due volti di un paese di forti contrasti, di diversità, di metropoli e villaggi, di tradizioni e di modernità. Dapprima ci fa conoscere quello rurale, arretrato, poi quello urbano e caotico.
La prima parte del film ci rivela la povertà e la miseria che dominano vaste aree della Cina rurale dove la povertà si riflette anche sulla scuola in cui anche un singolo gessetto è un bene da non sprecare. In questo contesto di povertà e di miseria si inseriscono quindi le piaghe dell’abbandono scolastico e del lavoro minorile di cui sono vittime non solo Zhang, costretto ad andare a lavorare in città, ma anche la stessa supplente che è in possesso della sola licenza elementare.
In questa prima parte si può anche assistere al cambio dell’approccio didattico di Wei, che passa da uno inadatto a coinvolgere la scolaresca (ossia obbligare gli alunni riluttanti a ricopiare dalla lavagna dei testi che lei trascriveva da un libro) a un metodo partecipativo in cui i bambini, pieni di entusiasmo, si impegnano ad aiutare la maestra nel calcolo di come poter guadagnare i soldi per andare in città alla ricerca di Zhang.
La seconda parte del film è invece ambientata nella città in cui Zhang è andato per lavorare ma in cui in realtà si è perso. Lì regna il caos e il ritmo frenetico: ognuno è concentrato solo su se stesso e le persone non hanno nemmeno il tempo per fermarsi a leggere l’annuncio cartaceo con cui Wei ricerca il suo alunno.
L’unico mezzo per catturare l’attenzione della gente è la televisione. Infatti è proprio grazie ad essa che Wei riesce a ritrovare Zhang e a far conoscere al grande pubblico, sensibilizzandolo, la drammatica realtà dell’educazione nelle campagne dove spesso i bambini sono costretti a lasciare la scuola e con essa la possibilità di un futuro migliore.
Giada Faggian
Nov 24, 2020 | Insegnanti, Letteratura
G. Camiciotti, A. Modugno, edizioni Ares 2019
In una società dove mancano le relazioni, dove l’obiettivo dei giovani è più apparire che essere, sono gli adulti a giocare un ruolo fondamentale. In questo testo, rivolto a genitori e docenti, viene offerto qualche spunto per accompagnare i ragazzi nella difficile scalata dell’adolescenza.
“Buona arrampicata”
Con queste parole Gianpiero Camiciotti e Alessandra Modugno concludono il testo dal titolo “Adolescenti senza limiti – Genitori & Scuola nell’era digitale”, pubblicato nel 2019 da Ares.
Anche l’immagine di copertina suggerisce come l’argomento del libro possa essere paragonato alla scalata di una montagna: un percorso difficile, irto di ostacoli e di sentieri sbagliati, ma che porta a ritrovarsi, consapevoli e sudati, di fronte ad un panorama meraviglioso una volta arrivati in vetta.
Il libro parla agli adulti, genitori ed insegnanti, e analizza quello che è forse il periodo più complesso della vita di una persona, da tutti i punti di vista: l’adolescenza.
Il testo si basa su un dato di fatto, spiegato dettagliatamente nel primo capitolo: il periodo dell’adolescenza, ormai, non ha più limiti. Se per le scorse generazioni si potevano definire, più o meno precisamente, un’età d’inizio ed una di fine dell’adolescenza, nella cosiddetta “generazione Z” non accade più; i ragazzi entrano in questa fase sempre con maggiore anticipo (a causa, anche, di una realtà che li stimola su tutti i livelli) e tendono ad uscirne sempre più tardi, tanto da portare gli addetti ai lavori a parlare di “adultescenza”, cioè di persone adulte che vivono ancora parecchi ritorni adolescenziali, poco consoni alla loro età anagrafica.
Proviamo a pensare a quante mamme vediamo pubblicare selfie sui social, in cui si ritraggono in palestra con la figlia, o a padri vestiti allo stesso modo dei propri ragazzi, che fanno di tutto per mettersi al loro stesso livello, con l’utopia che un rapporto “tra amiconi” possa servire per mantenere un dialogo.
Questo atteggiamento, invece, può rivelarsi controproducente, poiché porta i nostri ragazzi a non avere delle figure di riferimento che li aiutino a strutturare il proprio Sé, la propria spina dorsale e quindi a trovarsi costretti a ricercare attenzioni e risposte in una realtà virtuale e piena di stereotipi da soddisfare, con il rischio di essere catturati da altre dipendenze.
L’accettare ciò che fino a qualche tempo fa era visto come trasgressione, il libero accesso alla rete e quindi a qualsivoglia informazione, anche non adatta all’età che i ragazzi stanno attraversando, la comparsa di nuovi fenomeni legati alla rete come la nomofobia, oppure il vamping, sono campanelli di allarme che devono portare gli adulti a sentire fortemente la necessità di un’azione educativa efficace. Come fare per aiutare questi giovani? Gli autori suggeriscono una “distante prossimità”, cioè una relazione in cui il ragazzo si senta considerato, sostenuto, ma allo stesso tempo non braccato, che si senta accolto, non giudicato, ma libero di sviluppare una identità propria, non per forza omologata alla volontà dei genitori o, ancor peggio, della massa.
Si parla nel libro di “verità della relazione”, in cui anche l’adulto si mette in discussione, si interroga e aiuta l’adolescente a sviluppare il proprio pensiero critico, a conoscere i propri limiti e punti di forza, ad affrontare le difficoltà senza evitarle, a scontrarsi con i fallimenti senza perdere la propria autostima.
Avere una chiara coscienza di Sé, di ciò che si è, dare peso al proprio essere interiore piuttosto che all’avere esteriore, aiuta il ragazzo a rimanere in contatto con la propria realtà e ad evitare che siano altre persone a guidare le proprie scelte. I capitoli successivi del libro sviluppano proprio il tema di una delle scelte più importanti, forse la prima vera scelta autonoma che un ragazzo si ritrova a dover prendere: quella della scuola superiore (o secondaria di II grado). Va da sé che un adolescente che abbia chiare le sue progettualità, le sue carenze e i suoi talenti, avrà meno difficoltà nel capire quale potrà essere il proprio percorso e non dovrà delegare ai genitori la decisione e, come accade spesso, la responsabilità di un eventuale fallimento.
Il passaggio dalla scuola secondaria di primo a quella di secondo grado, porta con sé notevoli differenze ed altrettante difficoltà: l’atteggiamento più distaccato del docente, il diverso carico di studio, l’esigenza di un impegno costante, sono più semplici da affrontare se uno studente è autonomo ed ha chiare le proprie motivazioni e i propri obiettivi. Compito degli adulti è sicuramente quello di creare una sinergia tra scuola e famiglia, per stimolare i giovani a vedere lo studio e la conoscenza come formazione per la loro vita e non come mero orientamento al voto, per dare valore al lavoro e sviluppare in loro la determinazione a svolgerlo con impegno e dedizione e, ultimo ma non meno importante, per imparare a cogliere il motivo dei propri successi ed insuccessi, a dare significato alle proprie delusioni.
Tutto questo è attuabile se il genitore è presente, se fa sentire il ragazzo accolto e sostenuto, se dimostra interesse non tanto per il risultato, quanto per il percorso fatto per ottenerlo; tale percorso si conclude con l’Esame di Stato, simbolicamente conclusivo di un ciclo di studi, ma anche del periodo adolescenziale, poiché proietta il ragazzo in un mondo lavorativo o di Studi universitari, prima grande prova per testare la propria struttura interiore, la stabilità e la forza del proprio Sé.
Concludendo, questo libro presenta una realtà difficile, a volte spaventosa o che può sembrare esagerata, delineando una generazione di adolescenti spaesati e che si fanno trascinare dal primo che li faccia sentire importanti; allo stesso tempo, però, permette a noi adulti, ciascuno nel proprio ruolo, di metterci in discussione, di capire quale grande e stupenda responsabilità abbiamo verso i nostri giovani e quanto si possa fare per farli sentire importanti, per aiutarli ad essere adulti un po’ più felici.
Elena Dal Pan
Nov 24, 2020 | Insegnanti
intervista di Eleonora Barbieri a Alessandro D’Avenia (Fonte Il Giornale 14-11-20)
Alessandro D’Avenia festeggia i dieci anni dall’esordio (bestseller) con Bianca come il latte, rossa come il sangue; ma, prima ancora che scrittore, D’Avenia è insegnante, professore di lettere in un liceo milanese.
Anche il protagonista del suo nuovo romanzo, L’appello (Mondadori – Novembre 2020) è un prof: si chiama Omero, è diventato cieco a causa di una rara malattia ma ha deciso di tornare dietro la cattedra come supplente di scienze (la sua passione) in una classe di alunni ufficialmente marchiati come quelli della «Quinta D, come disperati», per portarli alla maturità. In tutti i sensi.
Nel nuovo romanzo, protagonista è Omero, un prof cieco: “Tocchiamo la carne del mondo”
A differenza della didattica online, nell’Appello il corpo c’è moltissimo: Omero è cieco e ricorre all’olfatto, all’udito e al tatto per conoscere i suoi alunni.
«Sì, il dato tattile è qualcosa di primordiale che abbiamo perso, ormai usiamo il tatto solo per scorrere le dita su uno schermo bidimensionale…».
Che cos’è il ritorno al corpo?
«È recuperare la carne del mondo, che si è persa, un po’ perché tutto è immagine o proiezione di noi stessi, e un po’ perché toccare la carne del mondo è fatica, ne senti le ferite, il peso, il dolore. Le cose mediate da uno schermo le scarichi facilmente; avere tatto, invece, significa prendersi cura».
Chi è Omero?
«Omero nasce da due fonti. La prima è un articolo, che lessi, su un prof che, nonostante la malattia che lo aveva portato alla cecità era andato avanti a insegnare e che raccontava la trasformazione del suo mestiere in qualcosa di più diretto, paradossalmente».
L’altra fonte?
«Cattedrale di Carver, in cui un vedente e un non vedente costruiscono insieme una cattedrale. Per me è l’idea del rapporto col lettore, con cui da dieci anni costruiamo insieme una comunità, pietra dopo pietra, così come i dieci ragazzi del romanzo che, insieme, danno vita a una grande orchestra. Perciò chiamo Omero maestro».
Come si crea l’orchestra?
«Ricevendo questi ragazzi, Omero apre lo spazio per la loro rinascita nell’aula, che è un grembo paterno».
Omero cambia l’appello: chiede ai ragazzi di dire il proprio nome e parlare di sé.
«Tutto il lessico della scuola ha a che fare con l’area semantica militare, e io la ribalto: è vero che la scuola è una chiamata alle armi, ma non per irreggimentare, anzi, come nell’immagine di copertina, bisogna fare esplodere bombe di fiori, come la ginestra di Leopardi, che va a fiorire nel deserto».
Una rivoluzione?
«Una rivoluzione gentile, dei nomi e dei volti. Omero ascolta le voci degli studenti e posa le mani sui loro volti, tocca la geografia delle loro esistenze. L’appello è una chiamata ai ragazzi a venire fuori in questo mondo, che vuole solo controllare noi e i nostri desideri, a liberare la parte più autentica di loro stessi e a trovare la forza di essere ciò che sono. La fragilità è l’esperienza di tutti: quale classe non è difficile?».
Nel libro dà alcuni giudizi pesanti sulla scuola di oggi.
«Dopo vent’anni di insegnamento, qualcosina ho visto. E la ribellione di cui parlo è per difendere le vite, massacrate da anni, dei ragazzi e degli insegnanti. La scuola è stata trasformata, per volontà politica, in un parcheggio a ore, e gli insegnanti in parcheggiatori».
Non è troppo duro?
«Ma che cosa abbiamo chiesto alla scuola in questi anni? Di tenerci i figli a bada? E come può accadere una relazione creativa fra maestro e alunno, nel contesto di questa supplentite scandalosa, mentre si sono fatti soltanto due concorsi in diciotto anni?».
Che cosa bisognerebbe fare?
«È ora di svegliarsi. Bisogna sfruttare l’emergenza per capire che la malattia viene da lontano, e non sprecare l’occasione».
La malattia qual è?
«La malattia colpisce quello per cui la scuola esiste, la relazione fra maestro e discepolo: quando questa non è più messa al centro del sistema, la scuola è morta, non fa più crescere e, a parte qualche incontro con un insegnante che fa il suo mestiere, diventa parcheggio e noia. La conoscenza socratica, come cura di sé e del mondo, è l’atto fondante della scuola occidentale. Così la relazione è viva».
E invece?
«Invece la scuola è una guerra fra genitori, insegnanti e studenti: anziché un crescere insieme è un tutti contro tutti. Il sistema è così pieno di burocrazia e cose inutili e insopportabili che anche chi ha il sacro fuoco lo perde».
Dice anche che nella scuola domina una cultura fredda, che si ammanta di calore e bontà.
«È così, si finge calda, ma ha il cuore freddo, ed è ciò a cui educa. A livello del pensiero dominante ci sono moralismo e buonismo ma, alla prova dei fatti, c’è chi non conosce i nomi dei suoi alunni. E poi fai vedere i film per sensibilizzare…».
Scrive che «tutto deve cominciare a scuola».
«Omero dice che crede nella rivoluzione dei pianeti. Io non credo nelle rivoluzioni di sistema, credo in quelle fatte per le singole persone, per salvare uno, e poi uno, e poi un altro. In questo sistema non c’è volontà di cambiare le cose, dato che conviene mantenere tutto così, eppure la speranza c’è, perché i ragazzi vogliono fare le cose, non aspettano altro… E se non lo facciamo noi a scuola, dove lo facciamo?».
(articolo pubblicato con l’autorizzazione dell’autrice Eleonora Barbieri)
Nov 24, 2020 | Insegnanti
Leggendo l’intervista ad Alessandro D’Avenia sul suo ultimo romanzo “L’Appello” (riportato anche in questa newsletter), mi sono soffermata a riflettere sul suo richiamo; ormai da mesi la scuola è soggetta ad una rivoluzione e, se nei primi tempi l’attenzione era tutta incentrata sull’avviare la DAD per garantire la continuità nell’emergenza, ora, dopo mesi di consolidamento di questa nuova metodologia, è forse arrivato il momento di fermarsi e osservare il cambiamento per fare un primo bilancio.
Cosa succede con la DAD? Succede che ci si trova ad “educare senza corpo” (come dice D’Avenia nell’intervista).
Le aule sono piene di assenza, l’assenza dei corpi degli studenti, il contatto fisico è sostituito da uno scambio virtuale a discapito della relazione che è il fondamento di ogni vero insegnamento.
Se già in aula, in presenza, è difficile instaurare autentiche relazioni di vero scambio tra alunni e insegnanti, ma anche tra i ragazzi stessi; tanto più ora che ogni messaggio è veicolato solo attraverso un schermo, attraverso un passaggio di voci filtrate, ma senza la dimensione fondamentale della fisicità. Il corpo non è, infatti, un’appendice dell’uomo, ma una dimensione fondamentale della sua identità e asse portante della relazione conoscitiva con il mondo.
Il rischio, insomma, è l’isolamento dell’adolescente, perché un’aula non è solo il luogo in cui i ragazzi apprendono, ma è soprattutto il luogo in cui fanno esperienza di relazione, in cui imparano a confrontarsi con l’altro diverso da sé e la relazione umana non può prescindere dell’elemento della fisicità e questo anche, e forse soprattutto, per i nativi digitali.
La vera sfida quindi che insegnanti e ragazzi sono chiamati ad affrontare in questo momento, è quella di non perdere la voglia di fare esperienza dell’altro, di non dimenticare che, anche se attraverso uno schermo, il dialogo non si deve interrompere; magari sarà più sommesso, meno immediato e meno felicemente chiassoso, ma forse può diventare più essenziale.
Lo sforzo a cui sono chiamati gli insegnanti è quello di trovare nuovi modi, sfruttando gli strumenti a disposizione, per attirare l’interesse dei ragazzi, coinvolgendoli e aiutandoli a mettersi in gioco, ad oltrepassare metaforicamente la barriera dello schermo.
Come dice D’Avenia è il momento di riscoprire il valore dell’appello, perché ogni ragazzo si senta chiamato in prima persona; molto dipende dalla passione e dalla competenza dei docenti, magari sperimentando qualche attività nuova per suscitare l’interesse in chi sta al di là del video, facendo riscoprire ai ragazzi nuove forme di interazione, ma soprattutto di relazione, perché anche se per il momento manca la vicinanza fisica, non dobbiamo perdere la voglia di stare in relazione con l’altro, perché solo nel confronto possiamo fare esperienza della nostra unicità.
Il compito che abbiamo davanti, anche ora, è sempre quello di arrivare, con competenza e creatività, alleandosi con le famiglie, al cuore dello studente, che sia al di qua o al di là di uno schermo, accendendo una relazione viva.
Arriverà poi il momento di “spegnere le webcam” per tornare a riempire le aule di voci e di passi pronti a proseguire il cammino, magari correndo all’ultimo rintocco della campanella.
Francesca Guglielmi
Nov 24, 2020 | Insegnanti
Intervista alla dott.ssa Mariolina Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, lavora in un servizio territoriale di Neuropsichiatria Infantile ed esercita attività privata come psicoterapeuta per adulti e coppie. E’ anche mamma di sei figli.
Credo si possa definire un’osservazione banale per chiunque nella vita abbia fatto l’insegnante o l’educatore, ma anche solo il catechista o l’animatore da adolescente: i maschi e le femmine apprendono in modo diverso! Hanno un modo diverso di stare in aula, di porre domande, di vivere le esperienze.
Oggi, però, si sente parlare di “stereotipi di genere”. Ecco quindi la prima, più difficile, domanda:
Come comunicare la differenza, evidenziando il valore specifico dell’essere maschio e femmina?
La differenza sessuale si gioca su un punto fondamentale: abbiamo un corpo che partecipa in modo diverso alla trasmissione della vita. Come diceva Aristotele: il femminile genera nel proprio corpo, il maschile genera fuori del proprio corpo, nel corpo del femminile. La differenza dei corpi, il fatto di avere il baricentro generativo “dentro” o “fuori”, comporta una percezione profonda di sé molto differente: solo se a questa differenza attribuiamo un significato e un valore potremo assecondare nei ragazzi uno sviluppo identitario coerente con la loro sessualità biologica.
E’ a partire da questa differenza (innegabile e ineliminabile) che prendono infatti origine tutte le altre differenze. Molte delle caratteristiche sulle quali siamo soliti soffermarci e talora anche scherzare sono invece di tipo probabilistico e hanno in gran parte valenza culturale: la capacità di orientamento, la diversa sensibilità, gli aspetti caratteriali ecc. corrispondono spesso a stereotipi che non hanno una reale specificità.
Si può definire il neonato “neutro”, in quanto ancora privo di una caratterizzazione maschile e femminile?
Il bambino che nasce non è “neutro”, perché si presenta, dal punto di vista anatomico e genetico, secondo due declinazioni fondamentali: il sesso maschile e il sesso femminile. A partire da questa differenza prende il via un processo complesso, che conduce poco alla volta a definire un’identità sessuale di uomo o di donna. A questo processo concorrono molti elementi: da un lato la percezione di sé che origina da un corpo differente, ma dall’altro il modo in cui l’ambiente (soprattutto quello più prossimo) si relaziona con il bambino maschio o femmina, e il significato e il valore che attribuisce loro. L’identità umana non si organizza mai nel vuoto: la scoperta della differenza e quella della propria appartenenza a un sesso avvengono nel contesto di una storia, che è sempre storia relazionale (quel bambino, in quel momento, in quella coppia, in quella relazione); ogni storia poi si declina all’interno di uno specifico contesto culturale, che dà un significato e un valore diverso alla differenza e alla specificità sessuale.
Il bambino inizia a “lavorare” intorno al tema della propria identità sessuale intorno ai due anni, quando la stazione eretta e l’educazione al controllo sfinterico comportano un forte investimento degli organi genitali; scopre così che il mondo è diviso in due: chi ha e chi non ha un pene. Scopre di appartenere ad una delle due categorie, e di assomigliare in questo ad uno dei due genitori. Scopre che la differenza serve per fare i bambini. L’essere maschio o femmina inizia già da questo momento a prendere un significato: positivo, negativo, oppure contraddittorio.
In che modo le realtà extra-familiari aiutano il formarsi dell’identità maschile e femminile? È giusto che lo facciano o gli interventi educativi dovrebbero essere imparziali?
Non esiste in nessun caso e in nessun campo una neutralità educativa: chi educa influenza anche se e quando non lo vuole, perché la disparità di età e di esperienza comportano comunque sempre un influenzamento dell’altro. Se anche, paradossalmente, fosse possibile rimanere del tutto imparziali in questo campo, la neutralità stessa sarebbe una forma di condizionamento.
La vera questione, dunque, è casomai quella di capire ed esprimere in modo chiaro in quale direzione pensiamo giusto orientare i nostri figli, secondo quali valori e quale pensiero.Se riteniamo che la differenza sessuale sia una ricchezza e un valore, allora è giusto approfondirne il senso e cercare di orientare i nostri figli verso la differenza.
Gli insegnanti esprimono la loro identità maschile e femminile anche quando insegnano matematica o grammatica o chimica?
Noi tutti siamo uomini o donne: se lo siamo pienamente, con serenità e in pace con la nostra identità, questo si esprime in tutto il nostro modo di essere.
Credo però che per fare questo sia oggi indispensabile approfondire meglio il significato del maschile e del femminile, dare un nome alla loro differenza e alla loro specificità: dobbiamo capirlo in primo luogo in noi stessi, per poterlo poi trasmettere: non possiamo più dare niente per scontato.
Miriam Dal Bosco