Ott 30, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
J. R. R. Tolkien (1954 – 1955)
Quanti avranno già visto il film o letto il libro?
Ciò che vi proponiamo oggi e di rileggerlo anche da un punto di vista educativo, e magari consigliarlo ai nostri ragazzi. Non è forse vero che nei racconti, più che nei ragionamenti, i ragazzi spesso, grazie all’immedesimazione, scoprono anche il valore e la bellezza del bene?
Oltre all’avvincente trama, nasconde molti insegnamenti. Eccone uno dove Gandalf il mago correggere il giudizio di morte che aveva fatto dire a Frodo che sarebbe stato meglio che Bilbo, suo zio, avesse ucciso Gollum, l’essere spregevole che si era impossessato del malefico anello:
Merita la morte! Eccome! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca a essere curato rima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che, prima della fine di questa storia, l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà la Pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo.
Eccone un altro, dove Gandalf intravvede una sorta di provvidenza/destino che opera anche quando ci capitano pesi gravosi, come quello di dover distruggere un anello malefico. Così parla dell’anello malefico che abbandona Gollum per stare con Bilbo e finire in mano a Frodo:
… esso abbandonò Gollum, e capitò in mano alla persona più incredibile: Bilbo della Contea! Dietro a questo incidente c’era una forza in gioco che il creatore dell’anello [Sauron, il signore del male] non avrebbe mai sospettata. È difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante.
Oppure quello di non smettere mai di essere aperti con le persone, perché fino in fondo non si conosce mai nessuno:
Mio caro Frodo! — esclamò Gandalf —. Gli Hobbit sono veramente esseri stupefacenti, come ho sempre sostenuto. Puoi imparare tutto sui loro usi e costumi in un mese, e tuttavia dopo cento anni riescono a meravigliarti ed a stupirti.
E questo, un meraviglioso dialogo, quasi filosofico, tra due “maghi”, in cui uno, Saruman il bianco, ormai pervertito, cerca di convincere Gandalf il grigio a passare dalla sua parte, e dove si contrappongono due idee di conoscenza: la prima che la vede come un modo per ottenere il potere, l’altra per raggiungere la vera sapienza:
Lo guardai, e vidi che le sue vesti non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista.
“Preferivo il bianco”, dissi.
“Bianco” sogghignò. “Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta”.
“Nel qual caso non sarà più bianca” dissi. “E colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza”.
E poi ancora, come a dire che non si dialoga con il male, rappresentato dall’anello:
Si avvicinò posando una lunga mano sul mio braccio. “E perché no, Gandalf?”, bisbigliò. “Perché no? L’Anello Dominante? Se potessimo comandarlo la potenza passerebbe nelle nostre mani”. Dicendo così non riuscì a nascondere la brama che gli brillò improvvisamente negli occhi.
“Saruman”, dissi allontanandomi da lui, “una mano sola alla volta può adoperare l’Unico, e lo sai bene; non darti la pena di dire noi!
Eccone un altro, pronunciato da un Elfo di nome Haldir:
Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.
Ecco un discorso di Sam a Frodo:
– Sam: È come nelle grandi storie, padron Frodo. Quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericoli, e a volte non volevi sapere il finale. Perché come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire il perché. Ma credo, padron Frodo, di capire, ora. Adesso so. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto. Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa
– Frodo: Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– Sam: C’è del buono in questo mondo, padron Frodo. È giusto combattere per questo.
E poi: È il lavoro che non è mai iniziato che impiega più tempo a finire.
– Dama Galadriel: Anche la più piccola persona può cambiare il corso del futuro.
– Gildor: Il vasto mondo è tutto intorno a te: puoi recintarti, ma non puoi recintarlo per sempre.
Buona lettura.
Michael Dall’Agnello
Giu 26, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Recensione di François-Xavier Bellamy (Itaca, Castel Bolognese 2019)
Chiunque abbia avuto la fortuna di poter vivere l’esperienza di un pellegrinaggio a piedi, tra tutti il celebre Cammino di Santiago, può confermare con il sottoscritto quanto sia necessario, durante l’itinerario, fare memoria della destinazione. Solo fissando, nella mente e nel cuore, la méta del proprio peregrinare si può scansare il pericolo sempre incombente del vagabondaggio.
Lo sapevano bene quei cavalieri che, marchiando i propri scudi con una croce, si mettevano in viaggio verso il Santo Sepolcro, senza la garanzia di giungere a destinazione e armati del solo desiderio di poter calpestare la stessa terra del Cristo; lo sapeva bene quel folle di Ulisse, ramingo per il Mediterraneo ma con il cuore sempre rivolto a Itaca e alla sua famiglia amata; lo sapeva bene Seneca, il quale ci rammenta che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
Qualsiasi movimento è disastroso se non si pianifica la meta e, consecutivamente, se non si sa da dove si sta venendo. Questa è la tesi che viene argomentata da François-Xavier Bellamy in Dimora. Per sfuggire all’era del movimento perpetuo, apparso in Francia nel 2018 e pubblicato in Italia per i tipi di Itaca l’anno successivo, correlato dalle magistrali prefazioni di Lorenzo Malagola, segretario generale della Fondazione De Gasperi, e Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle Associazioni famigliari.
Un saggio, quello di Bellamy, denso, disarmante, semplicemente bello. Era da aspettarselo in effetti dalla stessa penna che nel 2016 aveva dato alle stampe il best-seller I Diseredati. Ovvero l’urgenza di trasmettere, che destò notevole scalpore nell’attenta ed esigente società francese. Dimora è in primis una straordinaria parabola sull’esperienza filosofica dell’Occidente europeo, dalla dicotomia Eraclito-Parmenide sino a Galileo Galilei, passando per Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso. In secondo luogo, Bellamy procede con una raffinata fotografia dello stato di salute del mondo occidentale, reso fragile dal mito del «movimento perpetuo» e dall’utopia dell’eterna evoluzione, anestetizzato dalle leopardiane «magnifiche sorti progressive» e dal sogno di un progresso imperituro.
L’autore non si limita tuttavia a una fin troppo facile diagnosi delle fragilità del nostro mondo. Rimarrà deluso chi in Dimora desideri trovare il manifesto di un conservatorismo reazionario e fissista, nostalgico di un passato ormai tramontato. Bellamy infatti non è semplicemente un affermato filosofo e un abile insegnante nei licei della banlieue parigina. Nel 2008, a soli 23 anni, è stato eletto vicesindaco di Versailles e, nel 2019, è “sbarcato” all’Europarlamento in quota Partito Repubblicano francese.
Un buon politico è cosciente che alla diagnosi deve succedere necessariamente una prognosi. Bellamy propone quindi il concetto di “dimora”, intesa come riscoperta di «un luogo da abitare dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi» (p. 141) . Mettere radici, in poche parole, coltivare una quotidianità che possa divenire un argine alla “gassosità” di cui il nostro amato Occidente sembra essere sempre più assuefatto. Reinventare luoghi di incontro, di prossimità, di complicità, che facciano da contraltare a tutti quei non-luoghi (secondo la nota definizione di Marc Augé) che pervadono la nostra esistenza.
Ogni capitolo e ogni pagina del saggio invitano costantemente il lettore a compiere questo lavoro su se stesso, a interrogarsi su dove sia la propria Itaca e, come Ulisse, a non avere timore di solcare i mari per poterla raggiungere.
Stefano Sasso
Apr 29, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Il 25 marzo 2021, Solennità dell’Annunciazione del Signore e giornata nazionale dedicata alla riscoperta delle opere di Dante Alighieri (il “Dantedì”, istituito dal Consiglio dei ministri il 17 gennaio 2020), papa Francesco ha emanato la lettera apostolica Candor Lucis aeternae (“Splendore della Luce eterna”, dalla prima frase della versione originale in latino del documento), interamente dedicata al Sommo Poeta.
Con questa lettera, consultabile anche sul sito istituzionale della Santa Sede – http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/papa-francesco-lettera-ap_20210325_centenario-dante.html (25-04-2021) -, il Santo Padre non solo si accoda ai numerosi uomini di cultura e delle istituzioni, intellettuali o semplici appassionati che da tutte le parti del mondo hanno decantato, in queste settimane, le opere del poeta fiorentino, scomparso a Ravenna esattamente 700 anni fa.
Con tale lettera papa Francesco vuole infatti rafforzare la continuità del suo magistero con quello dei predecessori. Non poche sono state, nel passato più o meno recente, le parole spese dai Romani Pontefici per esaltare le opere dell’Alighieri e, allo stesso tempo, per suggerirne la lettura e l’approfondimento spirituale alle comunità cristiane di tutto il mondo.
Non è un caso quindi che, dopo una breve introduzione in cui il papa individua in Dante colui che, meglio di molti altri, «ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore» [pag. 2], Francesco dedichi una buona parte della lettera a presentare i principali interventi pontifici su Dante sin dai tempi di Benedetto XV (autore, nel 1921, della lettera enciclica In praeclara summorum, interamente dedicata al Poeta). In questo senso la Candor Lucis aeternae rappresenta uno strumento straordinario per poter ripercorrere, secondo una prospettiva originale, la storia della Chiesa cattolica nell’ultimo secolo.
Il Santo Padre sofferma la sua analisi storica in particolare sul rilancio della figura di Dante Alighieri durante il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), al termine del quale Paolo VI, oltre ad emanare la lettera apostolica Altissimi cantus per il settimo centenario della nascita di Dante, donò ai padri conciliari una copia della Commedia. A seguito del rinnovamento conciliare e dinanzi alla necessità di individuare modelli culturali in grado di arginare la crisi educativa della società europea, divenuta lampante soprattutto dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si può notare come i papi e la Chiesa abbiano sempre più individuato in Dante e nelle sue opere un’ancora di salvezza per il Vecchio Continente. Si legge infatti nel documento papale che «l’opera di Dante […] è parte integrante della nostra cultura, ci rimanda alle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente, rappresenta il patrimonio di ideali e di valori che anche oggi la Chiesa e la società civile propongono come base della convivenza umana, in cui possiamo e dobbiamo riconoscerci tutti fratelli» [pag. 6]. La citazione precedente rappresenta forse il passo cruciale della lettera, scritta da un papa latino-americano, giunto dalla “fine del mondo”, che si sente profondamente europeo e che individua in Dante un araldo dell’europeità e della fraternità cristiana.
L’attenzione successiva di Francesco si sofferma sul valore strettamente educativo della Commedia, in cui il viaggio attraverso le tre cantiche rappresenta un «paradigma della condizione umana» [pag. 7] e in cui il Dante-pellegrino assume la fisionomia del «profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità» [pag. 8]. Nella Commedia, sottolinea Francesco, Dante si fa paladino della libertà dell’uomo e della ricerca di Dio, vengono esaltate le virtù della misericordia e della giustizia, trova spazio l’eroicità tipicamente femminile di Maria, Beatrice e Lucia e la povertà di Francesco d’Assisi.
La proposta educativa di Dante, ribadisce il Santo Padre nella parte conclusiva del testo, rimane attuale ancora oggi perché «il suo umanesimo è ancora valido» [pag. 14] ossia perché è ancora in grado, come pochi altri casi, di parlare direttamente al cuore dell’uomo e di indirizzarlo alla ricerca di quel Dio in grado di colmare le speranze profonde dell’umanità. È per questo motivo che, come si può leggere in conclusione alla lettera, il papa invita la cristianità a divenire “compagna di viaggio” di Dante e intraprendere, insieme a lui, quell’unica Via che permette di «vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità» [pag. 13].
A noi insegnanti, insieme a tutto il mondo intellettuale di questo Paese, è dunque richiesto di lasciarsi conquistare dalla bellezza delle opere del Sommo Poeta e, di conseguenza, divenire testimoni della modernità del messaggio dantesco per un’umanità che ha sempre più sete di speranza e di pace.
Stefano Sasso
Mar 25, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Eugène Ionesco- Parigi 1959
Berenger ne sa qualcosa, di pandemie.
In un non luogo e un non tempo quest’uomo dall’aria trascurata, incapace di adattarsi alla vita, si ritrova solo a fronteggiare il dilagare di una mostruosa pandemia: la rinocerontite.
Che sarà mai questa strana malattia, che in modo contagioso trasforma una a una tutte le persone in rinoceronti?
All’inizio ci si fa poco caso al rinoceronte che galoppa sulla scena, sfiorando vetrine, alzando un polverone, schiacciando un gattino sotto le sue zampe. Se ne parla nei pettegolezzi da bar, del rinoceronte avvistato, e di quell’altro poi, che galoppava in senso opposto -che sia lo stesso?-. Si disquisisce su questioni marginali, quanti corni abbia, se sia africano o asiatico, lasciandosi trascinare in discussioni inconcludenti e rivendicazioni personali.
C’è anche chi nega che esistano. Chi pensa che la cosa non lo riguardi. Chi si arrabbia con le istituzioni e rivendica giustizia. Chi pensa al complotto e chi si spaventa. Chi non se ne cura, perché bisogna continuare a fare il proprio dovere. Chi piange sui danni personali che il rinoceronte gli procura. Chi scappa tenendo ben stretto ciò che gli sta più a cuore.
Ad ogni pandemia pare che corrispondano le stesse reazioni!
Eppure in questo caso la malattia ha risvolti diversi dai nostri: più diventa contagiosa, più diventa affascinante. Il rinoceronte appare libero, un po’ alla volta il suo verso rauco si fa canto attraente, il suo galoppare travolgente diventa danza, il colorito verde e la pelle rugosa risultano proprio belli. I rinoceronti sono diventati la normalità e chiunque è diverso si sente un mostro, si vede brutto, si fa schifo e prova vergogna di se stesso.
“Il rinoceronte” nasce dall’esperienza che Ionesco ha avuto del Nazismo, ma nella sua assenza di connotazioni spazio-temporali parla a ciascuno di noi. Quante tendenze, quante nuove ideologie galoppano sulla scena dei nostri giorni portando con sé nuovi modi di intendere la libertà. Possiamo davvero ritenerci immuni da queste mode che sovvertono ogni categoria etica e ci inducono a credere che “Il bello è brutto, il brutto è bello”, come recitano le streghe del Macbeth?
Berenger vive il dramma profondo di chi vuole restare uomo, di chi non si arrende e vuole conservare la propria originalità in un mondo dove la normalità è il conformismo dettato dalla maggioranza.
Anche a noi, come a ciascun personaggio del dramma, si ripropone la scelta: lottare per restare uomini o arrenderci e diventare rinoceronti.
Silvia Spillari
Feb 18, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Papa Francesco – Libreria Editrice Vaticana – 2020
In occasione dell’anno olimpico, Lucio Coco ha raccolto alcuni pensieri di Papa Francesco sul tema dello sport. Per il Pontefice esso è infatti espressione di valori positivi ed universali, che possono avere come fine ultimo anche quello dell’espressione della fede.
Questo libro, edito nel 2020 in occasione dell’anno olimpico (spostato poi al 2021 a causa dell’emergenza sanitaria), vede raccolte 92 citazioni di Papa Francesco sul tema dello sport, argomento molto caro al Pontefice, soprattutto per i forti contenuti valoriali insiti nello sport stesso; spesso infatti, parlando alle Società Sportive, alle squadre, alle delegazioni, agli atleti e ai comitati, ma anche ai fedeli in Piazza San Pietro, il Papa non dimentica di sottolineare la grande forza che c’è dietro allo sport, ma al tempo stesso la sua responsabilità educativa, in quanto sinonimo di inclusione, di sacrificio, di rispetto.
Da queste “pillole” si evince come lo sport abbia una fortissima funzione pedagogica: valori come la lealtà, il senso di giustizia, il gusto per la bellezza, la capacità di sacrificio, la costanza e molti altri sono indispensabili per formare persone a tutto tondo, che uniscano l’edificazione dell’anima al miglioramento sia della tecnica che del loro corpo.
Un aspetto che non può prescindere da qualsiasi attività sportiva e che aiuta nella crescita personale è sicuramente il rispetto delle regole: senza di esse non ci può essere gioco, divertimento e, come nella vita, esse non devono essere viste come ostacoli, ma come limiti entro i quali perseguire la felicità, imparando ad esserne padroni e non schiavi. Pensate a cosa sarebbe un gioco senza regole: “non ci sarebbe più competizione, ma solo prestazioni individuali e disordinate; al contrario, lo sportivo impara che le regole sono essenziali per vivere insieme, che la felicità non la si trova nella sregolatezza, ma nel perseguire con fedeltà i propri obiettivi” (da un discorso ai membri del CSI, 11.05.2019). Per questo lo sport aiuta a maturare l’importanza delle regole scritte, ma anche di quelle “morali”, come il fair play, il rispetto dell’altro, il dominio di sé e insegna che non ha valore una vittoria conseguita barando o ingannando gli altri, come nel triste caso del doping.
Fa parte del clima olimpico anche l’incontro tra popoli di diverse razze, culture, credo religioso. I cerchi olimpici stessi esprimono questo intreccio, volto all’accoglienza, alla volontà di dialogo, alla fiducia nell’altro.
In un mondo egoista ed individualista, questi ed altri valori, come lo spirito di squadra, ci portano a far parte di una sola famiglia umana, dove non vince colui a cui piace “comerse la pelota (trattenere la palla) solo per sé” (da un discorso ai dirigenti e ai calciatori del Villareal, 23.02.2017), ma chi corre a sostegno degli altri, dove anche la disabilità diventa un valore aggiunto; secondo il Papa, infatti, la realtà degli Special Olympics “alimenta la speranza di un futuro positivo e fecondo dello sport, perché fa sì che esso diventi una vera occasione di inclusione e di coinvolgimento” (agli atleti Special Olympics, 13.10.2017).
Come visto nelle citazioni riportate sopra, il Pontefice parla non solo agli atleti, ma mette in gioco anche dirigenti, allenatori, operatori sportivi e tutte le figure che ruotano attorno allo sport; benché spesso non siano sotto i riflettori, anche loro sono chiamati ad essere in prima linea nella trasmissione di messaggi positivi e a garantire che lo sport che promuovono sia limpido e leale.
L’ultimo capitolo di questo volumetto è dedicata a “Sport e Fede”, uniti nel portare avanti i valori comuni di cui abbiamo parlato, come lealtà, condivisione, accoglienza, fiducia: essi appartengono ad entrambe le realtà e permettono di creare un ponte di dialogo tra la Chiesa stessa, i fedeli, ma anche verso chi si è sentito lontano o escluso.
Lo sport è poi espressione di gioia, promuove virtù come umiltà, pazienza, sobrietà, che vanno di pari passo con la riconoscenza verso il Creatore e la testimonianza del Vangelo, insegna il sacrificio, la costanza per raggiungere un obiettivo. Quante Società Sportive hanno avuto le loro origini in un Oratorio? Quante volte i grandi Santi hanno sfruttato proprio la voglia di condivisione, di felicità, di spirito di squadra, per avvicinare ragazzi lontani ai valori della Fede? Ecco, quindi, che Chiesa e sport sono unite da un doppio filo, poiché entrambi concorrono alla crescita umana e si fanno strumento reciproco per trasmettere i propri valori.
“La Chiesa si interessa di sport perchè le sta a cuore l’uomo, tutto l’uomo, e riconosce che l’attività sportiva incide sulla formazione della persona, sulle relazioni, sulla spiritualità” (alla Federazione Italiana Tennis, 08.05.2015).
Infine, ai giovani lancia questo messaggio, che ritengo di dover riportare.
“È importante, cari ragazzi, che lo sport rimanga un gioco! Solo se rimane un gioco fa bene al corpo e allo spirito. E proprio perché siete sportivi, vi invito a fare qualcosa di più: a mettervi in gioco nella vita come nello sport. Mettervi in gioco nella ricerca del bene, nella Chiesa e nella società, senza paura, con coraggio ed entusiasmo. Mettervi in gioco con gli altri e con Dio; non accontentarsi di un “pareggio” mediocre, dare il meglio di se stessi, spendendo la vita per ciò che davvero vale e che dura per sempre. Non accontentarsi di queste vite tiepide, vite “mediocremente pareggiate”: no, no! Andare avanti, cercando la vittoria sempre!” (ai partecipanti all’incontro promosso dal CSI, 07.06.2014).
Elena Dal Pan
Gen 18, 2021 | Invito alla lettura, Newsletter
Pochi tra i grandi pensatori cristiani hanno manifestato nella loro vita, come sant’Agostino, quanto potente sia il desiderio di felicità e quanto faccia tutt’uno con quello della verità, tanto da fargli parlare di gaudium de veritate, la gioia arrecata dalla contemplazione della verità e della sua bellezza. Come ci viene narrato nelle Confessioni, fin dalla giovinezza, quando ancora diciottenne lesse con avidità l’Ortensio di Cicerone (libro di esortazione alla filosofia), intraprese una lunga ricerca che lo condusse, attraverso varie vicissitudini e peregrinazioni intellettuali, al porto della fede. E per questo interruppe la promettente carriera di retore.
Al tema della felicità Agostino dedicò uno dei primissimi scritti, il cui titolo originale è De vita beata, un dialogo filosofico che egli scrisse nel 386, pochissimo tempo dopo la sua conversione, nella villa alle porte di Milano dove si era ritirato in compagnia di famigliari e amici, impegnandosi in profonde conversazioni, e in attesa di ricevere il battesimo, cosa che avvenne l’anno seguente dalle mani del vescovo Ambrogio.
L’opera riporta una vivace e appassionata discussione fra il santo, la madre Monica, il figlio Adeodato e alcuni amici, che comincia il giorno del trentaduesimo compleanno del protagonista. Lo stile letterario è quello di un fine conoscitore della lingua latina, un retore appunto, forgiatosi alla scuola dei grandi oratori, Cicerone su tutti, ma anche di un esperto dell’arte della discussione e delle sue rigorose leggi, la dialettica, che fanno andare la mente ai grandi dialoghi platonici, capostipiti e modelli inarrivabili del genere letterario del dialogo filosofico.
Il santo ritiene che la felicità sia un desiderio universale dell’uomo, ma che, a differenza di quello che tanti credono, essa non consista nel soddisfare i propri desideri se questi desideri non sono quelli convenienti. Il bene solo che dà felicità deve essere un bene stabile e totale, che non dipende dalla fortuna o dai vari accadimenti. E questo bene, somma di tutti i desideri, non può che essere Dio, l’Essere eterno. Se l’infelicità è data dalla privazione del bene a cui tutti tendiamo, non sono le privazioni dei beni materiali quelle che più rendono infelici, quanto quella spirituale che consiste nella stoltezza, ossia nel non comprendere quale sia il vero bene.
Se l’infelicità è stoltezza, il suo contrario, la saggezza, è definita come la pienezza dell’anima, ossia quella misura che permette di evitare di cadere nell’eccesso dei vizi quali la lussuria, la volontà di dominio e l’orgoglio, o al contrario nell’estremo opposto, rappresentato dall’avarizia, la pusillanimità e la tristezza.
A conclusione della discussione viene affermato che la saggezza ha la sua ragione ideale nella Sapienza di Dio, ossia nel Figlio di Dio, che è la Verità; dunque chi è saggio è felice, ed è felice perché possiede Dio, al quale abbiamo fiducia di arrivare pienamente con “una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”.
Questo breve testo di Agostino si rivela un piccolo gioiello per la freschezza e il rigore con cui è affrontato l’argomento della felicità. In esso sono già presenti alcune delle linee di fondo del suo pensiero, che emergeranno in modo più ampio nelle opere mature. A questo riguardo mi piace concludere con una citazione che rimarca il carattere non emozionalistico, a differenza di tanti approcci attuali, con cui egli ha sempre trattato il tema della felicità, ed è tratta da un’opera che, rispetto al dialogo giovanile, si colloca cronologicamente agli antipodi della sua vita, La Città di Dio: «Così infatti non può essere privo di infelicità colui che venera la felicità come una dea e trascura Dio, datore della felicità, così come non può essere privo di fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede all’uomo che ha quello vero».
Alessandro Cortese